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martedì 29 marzo 2022

Marcello Veneziani, il pontificato di Francesco

Un interessante articolo, di quattro anni fa, di Marcello Veneziani sul pontificato di Francesco.
Sembra scritto oggi.
Luigi

Cinque anni di Bergoglio

Cinque anni sono un soffio al cospetto dell’eternità e una briciola nella storia millenaria della Chiesa. Ma hanno dato al mondo l’impressione di una svolta radicale.
Papa Francesco apparve da subito il Gran Simpatico, accolto fin dalle prime battute di quel 13 marzo del 2013 col favore dei media e la simpatia dei non credenti. Un papa alla mano, fuori dalla liturgia e dal carisma, estroverso e irrituale.
Qual è stato il tratto specifico che lo ha caratterizzato in questi cinque anni?
È un Papa avvertito come figlio del suo tempo più che della Chiesa, figlio della globalizzazione più che della tradizione. Globalizzazione girone di ritorno, ovvero dalla parte di tutti i sud del mondo, tutte le periferie, pauperismo e accoglienza.
Ma nell’orizzonte globale, non più nazionale o europeo, e nemmeno occidentale o cristiano: un Papa aperto ai più lontani, che ama il prossimo più remoto, aperto agl’islamici prima che ai cristiani, ai protestanti prima che ai cattolici, ai poveri più che ai fedeli, ai singoli – anche gay – più che alle famiglie.

Così, almeno, è apparso all’occhio dell’opinione pubblica e così è stato presentato dai media. Tutto questo è stato nobilitato come un ritorno al cristianesimo delle origini.

E questo ha generato consenso e simpatia a partire dai più lontani dalla Chiesa, da Roma, dalla fede cristiana. E più diffidenza se non dissenso tra i più legati a Santa Madre Chiesa, cattolica apostolica romana. Fino all’anatema di taluni e all’accusa di eresia, su cui non osiamo pronunciarci.

Ma il papato di Bergoglio coincide con la fase più acuta di tre grosse perdite: l’eclissi della fede e della religione, l’irrilevanza dei cattolici in politica, l’irrilevanza della tradizione e della civiltà cristiana.

Il primo fenomeno non nasce col papato di Francesco ma affonda le sue radici in un processo secolare. È la scristianizzazione del mondo, l’irreligione occidentale, la perdita delle fede, della prospettiva ultraterrena e della pratica religiosa.

Ma questo processo storico si è acuito e accelerato negli ultimi tempi: lo dimostrano il calo della devozione, delle vocazioni, dei fedeli a messa, l’affievolirsi del sentimento religioso. Si deve quantomeno osservare che l’avvento di Bergoglio al pontificato non ha frenato, rallentato, attenuato questo declino, ma coincide con una sua accelerazione e acutizzazione. Non è un bel risultato pastorale, è una sconfitta religiosa.

Il secondo fenomeno riguarda più da vicino l’Italia. Dai tempi dell’ultimo papa italiano, Paolo VI (papa Luciani fu una parentesi troppo breve), l’influenza dei cattolici in politica è andata via via scemando. Ebbe un colpo letale con la fine della Dc, ma sembrò riprendersi negli anni perché il Papato, la Conferenza episcopale, il ruolo dei cattolici divenne ago della bilancia in un sistema bipolare, ebbe così un’importanza decisiva, centrale, anche se non più maggioritaria.

Le ultime elezioni politiche, che sono poi le prime sotto il papato di Francesco, hanno registrato per la prima volta l’irrilevanza assoluta del voto cattolico. E non mi riferisco solo al ruolo delle parrocchie e delle sacrestie nell’indirizzare i credenti. Ma più vastamente e più profondamente alle tematiche religiose o attinenti a temi cari alla chiesa, come la famiglia, la vita, le nascite, la bioetica.

La coscienza religiosa è sparita nelle urne. La Chiesa di Bergoglio si è defilata da questi grandi temi e valori, ha gelato nel silenzio i family day e tutte le controversie relative alla vita e alla sfera sessuale, ai generi e alla tutela dei figli. Così, per la prima volta nella storia politica della nostra repubblica, i cattolici sono stati del tutto ininfluenti nell’orientamento di voto.

Infine, l’irrilevanza della tradizione e del riferimento alla civiltà cristiana. La Chiesa di Bergoglio non è stata ecumenica ma globale, sconfinata, priva di un legame spirituale con la civiltà cristiana. Fino ad apparire in certi casi come una grande Ong, una specie di Emergency in abiti talari, perdendo il legame vivente con la tradizione.

La Chiesa bergogliana vive quasi con peso e fastidio la sua eredità millenaria, preferisce presentarsi come un’agenzia morale e sociale del presente, cita Bauman più che San Tommaso, rincorre l’attualità e baratta il carisma con la seduzione.

Una volta il Papa non volle criticare alcuni comportamenti fino a ieri considerati deprecabili dalla Chiesa, trincerandosi dietro l’umiltà cristiana: Chi sono io per giudicare? Verrebbe da rispondergli: sei un Papa, cioè un Santo Padre, e hai non solo il diritto ma il dovere di giudicare, di orientare, di esortare e condannare.

Altrimenti vieni meno al Tuo ruolo pastorale, alla Tua missione evangelica.

Ma l’obiezione che vorrei fare a lui e ai suoi seguaci è di altro tipo: chi è Lui per giudicare, e di fatto per relativizzare e cancellare, la tradizione cristiana e cattolica, il pensiero di papi, teologi e santi, la dottrina, la vita e l’esempio di martiri e testimoni della fede? Perché dovremmo piegare la verità al tempo e la tradizione millenaria agli usi del presente e alle fobie del politically correct?

Ma questa domanda ci riporta al punto di partenza: Papa Francesco appare figlio più del suo tempo che della sua Chiesa, figlio della globalizzazione più che della tradizione. Lo avremmo voluto padre del suo tempo più che figlio; albero più che frutto e frutto più che foglia al vento del presente.

MV, Il Tempo 12 marzo 2018