QUI il nostro post sull'annuncio: "Sugli altari il maestro di Nichi Vendola?".
Luigi
1 Dicembre 2021, Corrispondenza Romana, Cristina Siccardi
Lo scorso 25 novembre, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto riguardante le virtù eroiche di monsignor Antonio Bello (1935-1993), per tutti Tonino, il discusso vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, divenuto per il magistero bergogliano un modello di pastore. È sufficiente leggere alcuni stralci di sue considerazioni per capire che stiamo parlando di un sacerdote di una religione diversa da quella cattolica. La «Chiesa del futuro», disse a Loreto nel 1985, «deve essere “debole”, deve condividere il travaglio della perplessità, dev’essere compagna del mondo, deve servire il mondo senza pretendere che il mondo creda in Dio o che vada a Messa la domenica o che viva maggiormente in linea col Vangelo…».
Il 27 febbraio 2013 avevamo dedicato un articolo su Corrispondenza Romana (n. 1282) dal titolo Don Tonino Bello sarà beato? È utile ritornare sul tema perché risulta indispensabile non rassegnarsi agli insegnamenti lesivi della Chiesa tutta, resistere a questi errori è un dovere di ogni buon cattolico. Padre Paolo Maria Siano, nel 2012, aveva dedicato un approfondito e perfetto studio sulla rivista teologica Fides Catholica dal titolo Alcune note sul “Magistero” episcopale del Servo di Dio Mons. Antonio (“Don Tonino”) Bello (1935-1993). Un contributo critico, che continua ad essere molto istruttivo per comprendere chi sia stato veramente questo prete della strada, ma non delle chiese. Il valore che egli dava alla politica, all’idolatria per l’uomo, alla banalizzazione della Messa e delle sacre cose, alle idee secolarizzatrici e progressiste ha dato luogo da parte sua ad un modo di vivere completamente slegato alla Chiesa di sempre e all’identità sacerdotale: «Più che attaccare singoli Dogmi, don Tonino manifesta una mentalità “nuova” per una chiesa “nuova” dove i Dogmi sono praticamente superflui…. Il suo linguaggio “moderno” […] affossa il Mistero e il Soprannaturale nell’umano e nel mondano…» (cfr T. Bello, Servi inutili a tempo pieno, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, pp. 99-100).
I suoi punti di riferimento sono stati Helder Câmara, Karl Rahner, Bruno Forte, Teilhard de Chardin, Giacomo Lercaro, Luigi Bettazzi, Michele Pellegrino, Ernesto Balducci, Carlo Maria Martini, David Maria Turoldo, con tali maestri non poteva che sorgere un discepolo rivoluzionario della stoffa di monsignor Bello, amante della Chiesa “in uscita” e in autodistruzione, con chiese ogni giorno più deserte. È stato l’uomo della rivoluzione sessantottina in seno alla Chiesa, un grande iperconciliarista: «Sono stati gli anni in cui, ad uno ad uno, abbiamo appreso a demolire certi idoli che già il Concilio ci aveva fortemente invitati ad abbattere: la fierezza della carne e del sangue, il prestigio delle apparenze, la sicurezza del linguaggio, il fascino rassicurante del passato, l’estraneità alle tribolazioni della ricerca umana…», parole molto appetibili ai radical chic e al pauperismo molto in voga sotto il governo di papa Bergoglio.
La parrocchia, a parer suo, «deve essere luogo pericoloso dove si fa “memoria eversiva” della Parola di Dio» (ibidem, p. 10) e il missionario è chiamato ad adattare il proprio linguaggio catechetico «al vocabolario del mondo» per attuare «la fedeltà all’uomo» (T. Bello, Stola e grembiule. Il diritto e il rovescio dell’unico panno di servizio sacerdotale, Ed. Insieme, Terlizzi-Bari 2008, p. 15). Non digeriva la teologia classica e prorompeva con le sue espressioni “profetiche” che esprimevano la sua voglia di ribellione contro la Chiesa di sempre, simpatizzando invece con il relativismo del mondo contemporaneo, lontano da Dio e dalla ragione.
Superficiale e a volte banale, egli cadeva anche nella blasfemia e nell’errore conclamato, come quando sosteneva: «Dio è dappertutto: è nei luoghi sacri e positivi (santuari, monasteri, Caritas…) ma è anche nei luoghi dove si praticano “le orge della dissolutezza”, i loschi affari finanziari, gli spettacoli osceni, la “stregoneria”, le “bestemmie”, la “violenza”…» (cfr. T. Bello, Articoli, corrispondenze, lettere, notificazioni, vol. V, pp. 138-139). Don Tonino, come sostiene padre Siano, offre una «sorta di “panteismo” sui generis, affine a certe credenze esoteriche che predicano l’unione di tutti gli opposti».
Era originale e amante dell’innovazione, ponendo al centro di tutto l’uomo egli ha dimenticato che cos’è la Verità portata da Gesù Cristo. Desiderava rimodellare in termini umani tutte le preghiere: gli atti di fede, di dolore, di speranza, di carità e quindi traslarli in atti di fede, di amore, di speranza nell’uomo. Lui era per la «santità laica», «urbana», «democratizzata», assolutamente priva dei connotati soprannaturali, avrebbe tranquillamente potuto essere un pastore protestante piuttosto che stare in Santa Romana Chiesa. D’altra parte era indignato contro la stessa Chiesa, responsabile delle «ecatombe delle culture», violentando «le grandi tradizioni religiose degli Incas o degli Aztechi o dei Maya». Secondo questo suo surreale e farneticante pensiero gli Apostoli e i loro successori, dunque, avrebbero commesso un tragico svarione: non si dovevano affatto evangelizzare le genti su mandato di Cristo… è stato il Cristianesimo, infatti, a porre termine ai riti dei sacrifici umani perpetrati in Sud America.
Si permetteva poi licenze indecenti e dissacranti nel descrivere Maria Santissima, donna feriale. La tratteggiava declassandola e snobilitandola della sua totale Immacolatezza, insinuando sui suoi atteggiamenti e favoleggiando una mariologia sensualista, riferendo di possibili sguardi lanciati a san Giuseppe, della felicità provata nell’indossare un abito nuovo, di essere protagonista dell’ebrezza nella danza. Arrivava ad invocarla in questi termini: «Aiutaci perché in quegli attimi veloci di innamoramento con l’universo possiamo intuire che le salmodie delle claustrali e i balletti delle danzatrici del Bolscioi hanno la medesima sorgente di carità. E che la fonte ispiratrice della melodia che al mattino risuona in una cattedrale è la stessa che si sente giungere la sera… da una rotonda sul mare: “Parlami d’amore, Mariù» (Cfr. T. Bello, Maria donna dei nostri giorni, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1993, pp. 11-13).
Intollerante della santità tradizionalmente conosciuta e della devozione ai santi alla stregua del protestantesimo, il profeta socialista e laicista del Salento, il «prete del grembiule» al servizio solo dei poveri (non di spirito, ma economici), era un grande propugnatore della liturgia secolare e della santità laicale, non certo dell’onore degli altari dove lo innalza oggi la Santa Sede. Tuttavia, come ottimamente scrive padre Paolo Maria Siano: «È nostra opinione che Beatificare o Canonizzare mons. Antonio Bello equivale, praticamente […] a “canonizzare” un modello assai discutibile, labile ed eterodosso di Pastore e di pastorale» ed anche una dottrina politica e sociologica da cui esso discende direttamente, distante anni luce dal Vangelo.
Foto QUI