Vi proponiamo un interessante contributo di Angelo Pellicioli, coordinatore del Comitato permanente per il Rinnovamento liturgico nella Fede, che compendia i più rilevanti elementi del cosiddetto “linguaggio liturgico” nell’ottica della involuzione postconciliare.
L.V.
È appropriato parlare di «linguaggio liturgico»? E, se lo è, esiste una sola forma di linguaggio liturgico o ve ne sono più d’una? Ecco due domande interessanti sulle quali dissertare per pervenire a qualche utile considerazione.
È noto che, da esseri umani, noi abbiamo un corpo e quindi riusciamo a percepire la realtà spirituale solo attraverso i cinque sensi. L’esclusiva sensoriale non rappresenta, però, l’unico mezzo per raggiungere alte mete di spiritualità: oltre ai sensi corporali l’uomo è pure dotato di una mente, attraverso la quale gli può riuscire, a volte, di permeare i misteri della spiritualità. Questo è però concesso a pochi e comporta enorme impegno di perseveranza, di concentrazione e di meditazione. Alcuni santi hanno addirittura raggiunto, attraverso tali alte forme di alta e profonda concentrazione, mete spirituali impensabili, riuscendo, in alcuni casi, a raggiungere il divino attraverso veri e propri stati d’estasi, che hanno permesso loro una stretta vicinanza e comunanza con altri santi, con Maria o addirittura con Gesù. Parlare quindi di linguaggio liturgico è quindi non solo appropriato, ma serve a capire meglio cosa vuole trasmetterci la sacra liturgia attraverso le sue celebrazioni.
È assodato che la liturgia della Chiesa, intesa come l’insieme del linguaggio (mezzo di diffusione del sacro) e del simbolismo (utilizzo di cose umanamente tangibili), è una e una sola; i riti che la rappresentano possono invece essere più d’uno. Nel corso dei secoli, infatti, abbiamo assistito alla nascita di più d’uno di essi, nati dall’unica liturgia della Chiesa: quello romano (prima catacombale, quindi ecclesiale, poi tridentino ed infine postconciliare), quello, ortodosso, quello armeno ecc.
Il linguaggio liturgico si esprime in modi diversi: con la parola, con i gesti e con le posture, nonché con i paramenti ed i vasi e suppellettili sacri. Per quanto riguarda la parola, la lingua latina, in uso ai primi tempi della Chiesa, è stata l’unica ad essere adoperata per quasi due millenni; dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, il linguaggio dei sacri riti è stato pure permesso nelle cosiddette lingue vulgate, proprie di ciascuna realtà sociale sparsa nel mondo.
La gestualità costituisce un altro importante pilastro del linguaggio liturgico: la benedizione con la mano destra nel segno della croce, l’innalzamento dell’ostia e del calice al momento della consacrazione nella Santa Messa, la somministrazione della Santa Eucaristia e l’imposizione delle mani, da parte del Vescovo, nella somministrazione del sacramento della cresima ne costituiscono riprova. Anche la postura, durante le funzioni sacre, esprime un comportamento proprio del linguaggio liturgico: lo stare in piedi, in ginocchio, il genuflettersi con una o due ginocchia, tenere le mani giunte quando si prega, il capo abbassato durante le benedizioni sono stati per anni (lo sono anche oggi, purtroppo in modo meno usuale e marcato) importanti segni di devozione e di raccoglimento.
Anche la postazione del celebrante rispetto a Cristo ed alla cosiddetta “assemblea” dei fedeli costituisce un preciso fondamento riguardo al linguaggio liturgico, così pure come la situazione geografica absidale delle chiese, la quale, per anni è stata rivolta ad orientem, salvo pochissime giustificate eccezioni, tra le quali anche quella della stessa Basilica di San Pietro a Roma.
La posizione del celebrante nella Santa Messa è fondamentale per capire cosa si sta svolgendo in quel momento: prima del Concilio del secolo scorso il celebrante era rivolto verso il Crocifisso posto sopra l’altare e dava le spalle ai fedeli presenti; si veniva a creare, in tal modo, una vera e propria direzione unitaria la quale, partendo dai fedeli, raggiungeva il celebrante e, per suo mezzo, veniva proiettata verso Dio, attraverso una linea immaginaria verticale ascensionale (posto che l’altare era situato sul presbiterio, innalzato sulle navate da tre o più gradini.) Situazione questa definita “cristocentrica”, cioè con Cristo posto al centro della sacra celebrazione. Oggi, invece, la posizione dell’officiante il sacro rito risulta diametralmente opposta: l’altare non è più rivolto al Crocifisso absidale, bensì verso i fedeli partecipanti, i quali, riuniti in assemblea orante col sacerdote, danno luogo ad un immaginario cerchio, comprendente fedeli, celebrante nonché Cristo immolato, figlio di Dio, dando origine, in tal modo, ad una situazione cosiddetta “antropocentrica”, cioè con l’uomo posto al centro della sacra celebrazione.
Per quanto concerne la liturgia della parola, cioè quella delle orazioni, delle letture e dell’omelia, tutto dovrebbe condurre, nella Santa Messa, all’unico scopo di preparare l’accoglienza a Gesù sacramentato, di viverne in degno modo la sua permanenza sull’altare, nonché di accoglierlo sotto le specie eucaristiche durante la somministrazione della santa comunione. Non dobbiamo dimenticarci che la liturgia della parola (specie per quanto riguarda l’omelia) non rappresenta il fulcro del sacro rito, ma ne è solo l’opportuna introduzione, questo anche e soprattutto riguardo ai tempi ed ai modi con i quali la parola di Dio viene commentata ed esplicata ai fedeli presenti.
Tenuto conto di come si svolgono ai nostri giorni le funzioni religiose, con particolare riferimento alla Santa Messa, siamo proprio sicuri che si possa ancora parlare oggi a ragion veduta, di linguaggio liturgico in modo appropriato? Ciascuno ne tragga le proprie conclusioni.
Angelo Pellicioli
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