Dalla pubblicazione di Traditionis custodes, e al netto delle dichiarazioni ufficiali e ben ponderate (fra tutte vorrei ricordare quella del Cardinale Burke - ved. qui e qui), la blogosfera è stata invasa da una marea di commenti, interventi, note, prese di posizione più o meno ostili, più o meno adesive, e così via. Qualche giorno fa, la mia attenzione è stata attratta da un pezzo comparso a firma di Zac Davis su America, testata online dei Gesuiti d’America: I once fell in love with the Latin Mass— which is why I understand why Pope Francis restricted it (in italiano: Un tempo ero innamorato della messa in latino - per questo capisco perché Papa Francesco l'ha limitata; le citazioni che troverete infra sono traduzioni redazionali dell'originale in lingua inglese).
Il nucleo centrale dell’articolo è l’idea che la messa antica possa sì rendere in parte migliori, ma soprattutto peggiori. Dopo aver precisato che la Messa tradizionale «non è mai diventata la forma primaria di liturgia che ho frequentato, e alla fine ho smesso di frequentarla del tutto dopo il college», l’autore afferma che essa «ha comunque avuto un impatto significativo sulla mia vita spirituale in un momento critico e impressionante della mia formazione». «Ciò che ho visto nella Messa in latino», continua Davis, «è stata una riverenza senza pari per il sacro. Mi ha fatto capire, per la prima volta, che facevo parte di una celebrazione di "questi sacri misteri”», e «mi invitava a unirmi a quell'amore prestando una cura simile nella mia preghiera e nella mia partecipazione alla Messa». Però, prosegue l’autore (e qui sta l’aspetto negativo), «sapete che cos'altro ha fatto per me la Messa in latino? Mi ha reso amaro e arrogante. Mi ha fatto pensare di possedere il modo più antico, quindi più santo, quindi migliore di praticare la mia fede. Facevo battute sul "Novus Ordo" e ipotizzavo il giorno in cui la Chiesa avrebbe potuto addirittura eliminare la liturgia in vernacolo, considerandola un esperimento fallito. In un esempio che trovo particolarmente irritante e imbarazzante, quando assistevo alla mia messa regolare, non in latino, invece di pregare la liturgia mi sedevo lì e contavo tutte le deviazioni dalle rubriche che potevo notare. Ho trovato molta sicurezza nell'idea (molto imperfetta) che "il cattolicesimo è una fede antica e immutabile. Questo è il modo più antico e immutabile di viverla". Mi ci è voluto un po' di tempo, un pungolo e la preghiera per rendermi conto che questa sicurezza non era in o da Dio, ma piuttosto nel rassicurare me stesso che avevo una risposta che non avrei mai avuto bisogno di cambiare (una prospettiva molto attraente per qualcuno il cui mondo si sente in costante mutamento!). Siamo chiamati alla fede che la verità rivelata da Dio in Cristo è eterna e immutabile, ma come Papa Francesco ha sottolineato ripetutamente (come un buon direttore spirituale gesuita), la rigidità e la possessività su come esprimere quella verità non sono espressioni di fede autenticamente libere. Una delle parti più belle della celebrazione della Messa è che ci collega alla comunione della Chiesa, che si estende attraverso il tempo e lo spazio. E la Messa tridentina, che rappresenta più di 400 anni di quella celebrazione nella storia, trasmette alcuni aspetti di quella comunione in modo potente. Ma sfortunatamente, alcuni usi di essa nel nostro tempo sono diventati anche un punto di rottura in quella comunione».
È facile vedere che l’articolo - pubblicato il 16 luglio, cioè in probabilmente studiata contemporaneità con l’uscita di Traditionis custodes - vuol dare un consapevole e premeditato supporto alle ragioni invocate dal Papa a sostegno della sua drastica e urticante decisione. Il giornalista del periodico dei Gesuiti d’America ci dice che sì, è proprio vero, la Messa antica è divisiva e foriera di quella rigidità che il Papa condanna con tanto vigore. Davis l’ha provato sulla sua pelle: la liturgia tradizionale, nonostante qualche occasionale beneficio, tutto sommato piuttosto superficiale («una riverenza senza pari per il sacro»; comprendere di far «parte di una celebrazione di "questi sacri misteri”», e così via), lo ha reso moralmente peggiore. E lo ha costretto alla rieducazione spirituale, a destinare tempo e sforzi alla liberazione dalla perniciosa sicurezza e dal complesso di superiorità infusigli dalla Messa antica.
Che replicare? Le affermazioni di Davis potrebbero essere smontate punto per punto, senza troppa fatica (per esempio: restringere a soli quattro secoli l’anzianità della Messa tradizionale è un po’ riduttivo…). Tuttavia, vorrei qui prenderne sul serio almeno una: fra coloro che frequentano la Messa tradizionale vi è, effettivamente, chi cede all’amarezza - lo zelo amaro, quella triste attitudine che ti fa davvero contare le violazioni delle rubriche mentre assisti alla Messa - e all’arroganza.
È un rischio connesso con la debolezza della natura umana e, dunque, con la concupiscenza. Ma non è certo la malattia professionale del tradizionalismo liturgico, né del tradizionalismo tout court. Al contrario, è un problema che ritroviamo in molteplici altri ambiti della nostra vita di cattolici. Per esempio, nel volontariato. O nei movimenti e nelle associazioni. O, ancora, tra le “pie donne” che talora affollano le nostre sagrestie e tra i bravi parrocchiani che compongo i nostri consigli pastorali. E così via. Ma, in tutti questi casi, ciò che è cattivo non è l’azione (andare alla Messa antica, fare volontariato, far parte di un movimento…), ma la reazione, che - lo ripeto - è espressione nel nostro tragico essere peccatori, segnati dal peccato originale. Non dobbiamo però cadere nell’ugualmente peccaminoso assioma per cui siccome fare il bene potrebbe inorgoglirci, allora dobbiamo tenercene lontani e sfuggirlo come potenziale occasione di peccato!
Tutto ciò potrebbe essere sufficiente per archiviare l’articolo di Zac Davis. Esso, però, sembra implicare un altro sottile e perverso errore da cui dobbiamo guardarci: scambiare per arroganza, orgoglio, presunzione, elitarismo o quant’altro - inclusa la tanto discussa rigidità - ciò che è, molto più semplicemente, normale esercizio di spirito critico razionalmente fondato.
È evidente, infatti, che la coesistenza di due forme liturgiche implica il confronto e il giudizio critico su quale di essa sia migliore. Questo giudizio non può essere solo soggettivo (la forma “che mi piace di più”); tuttavia, c’è in molti la pretesa che il Vetus Ordo possa sì essere scelto dai fedeli, ma solamente e strettamente per pure ragioni di sensibilità personale. Come preferire le vacanze in montagna a quelle al mare, anche se è il mare la meta preferita dalla stragrande maggioranza dei vacanzieri. E così, tornando alla Messa, quella tradizionale la si può preferire per ragioni di sensibilità o di gusti soggettivi; ma se lo si fa per ragioni teologiche, cioè in esito a un ragionamento razionale che la mostra oggettivamente migliore della Messa riformata (un interessante esempio di questo approccio si trova in Perché amo il rito tradizionale?, di Francesco Righini), ciò sarebbe arroganza. Ebbene, non la è; e la liceità della comparazione non può essere contestata, né circoscritta al puro côté emotivo o sentimentale, sul presupposto che, altrimenti, essa comporterebbe un giudizio di invalidità o illegittimità del messale riformato: giudizio che non è affatto implicito nella valutazione comparativa dei due riti, entrambi pienamente validi, nemmeno se dalla ponderazione esce vincente quello antico.
D’altra parte, dobbiamo considerare che il problema della comparazione si pone in conseguenza della radicale riforma della liturgia intervenuta negli anni ‘60-‘70: una riforma si giustifica solo - solo - se ciò che viene “dopo” (la cosa riformata, il prodotto della riforma stessa) è migliore di ciò che c’era “prima” (la cosa riformanda, l’oggetto della riforma). Se non c’è perlomeno questa aspettativa, la riforma è essa stessa pura espressione di arroganza, o, nell’ipotesi minimale, di eccessiva sensibilità alle mode intellettuali del momento. In ogni caso, la comparazione tra il “prima”, connotato da qualche deficienza da correggere, e il “dopo”, prefigurazione della correzione migliorativa, è addirittura la condizione previa della liceità stessa dell’opera riformatrice: i riformatori sono coloro che comparano, con intenti pratici, il mantenimento di un’attualità che essi giudicano lacunosa con la realizzazione di un futuro che essi auspicano migliore, e optano, ovviamente, per quest’ultima.
Non solo. L’idea stessa di riforma è plausibile soltanto se si pensa che il suo oggetto (la cosa riformanda/riformata; nel nostro caso la liturgia, il rito della Messa, il messale) non abbia raggiunto o non possa raggiungere una condizione di stabile perfezione - o, almeno, di ottimizzazione non ulteriormente perfezionabile. Ciò che è stabilmente perfetto o definitivamente ottimizzato non può essere migliorato: dunque non è suscettibile di riforma. E se, ciononostante, questa venisse ugualmente tentata, non si tratterebbe di una vera riforma, ma di una rivoluzione.
Ma ciò implica che quando una riforma è plausibile - e, dunque, lecita e legittima - anche il suo risultato (nel nostro caso: il nuovo messale) non goda di speciali garanzie circa la sua perfezione o il raggiungimento di un livello qualitativo davvero ottimizzato. Certo, le intenzioni dei riformatori possono senz’altro andare in tal senso; ma i risultati potrebbero essere incoerenti, per le più disparate ragioni. È un rischio implicito nella nozione stessa di riforma, ed è un rischio inevitabile.
Inoltre, la verifica del successo effettivo di una riforma è possibile solo a posteriori. Quanti progetti architettonici che sembravano eccellenti sulla carta hanno portato a case concretamente inabitabili! Quante ristrutturazioni, rifacimenti, riassetti di questo o quello hanno prodotto solo il rimpianto per ciò che c’era prima, per quanto imperfetto! Nello stesso tempo, per chi ha promosso la riforma e vi ha sinceramente creduto, quanto è difficile avere l’onestà intellettuale per riconoscerlo! Quanto è più facile respingere la critica - anzi, la stessa e sola constatazione del fallimento - bollandole come manifestazioni di arroganza, di presunzione o di ignoranza. Esse, però, non allignano solo tra le file dei critici, ma anche di coloro che difendono ciò che, obiettivamente, non può essere razionalmente difeso.
Se poi sulla riforma e sulla sua necessità, bontà, efficacia ecc. ecc., si sono basate la giustificazione ideologica di un sistema di potere, e la legittimazione di un’intera classe dirigente, anche la critica più moderata o la constatazione più evidente non potranno che apparire eversive; e i critici della riforma potranno ritenersi fortunati se saranno solo tacciati di arroganza, di paura del cambiamento, di voler rassicurare se stessi di avere una risposta che non ci sarà mai bisogno di cambiare (per usare le parole di Zac Davis).
È in questo quadro che si colloca il panico indotto nella classe dirigente ecclesiastica dalla liberalizzazione della Messa antica. Ciò che spaventa non sono i numeri, obiettivamente (ancora) ridotti, nemmeno a fronte della loro lenta ma costante crescita - che pure giustificherebbe e giustifica la preoccupazione dei “nemici” del Vetus Ordo; non è la reale arroganza di taluni “tradizionalisti”; non sono le difficoltà pratiche talora incontrate nella convivenza dei due messali. A spaventare è la liberalizzazione in sé, la libera possibilità del confronto comparativo, il valore simbolico di una facoltà - quella di celebrare la Messa antica - che implica inesorabilmente la libera critica della riforma liturgica e l’accettazione del suo fallimento come eventualità credibile e concretamente accertabile.
Il Motu proprio Summorum Pontificum ha avuto ed ha l’inestimabile merito di far cadere un totem indebitamente e incredibilmente vissuto come un dogma, e dal quale dipende un intero sistema di potere ecclesiastico: il totem/dogma della perfezione ed irreversibilità della riforma liturgica (per cui, sia detto per inciso, ciò che si nega a Quo primum andrebbe attribuito a Missale Romanum…). Il terrore che il Summorum Pontificum ha indotto nei beneficiati da quel sistema ormai in crisi agonica, e che oggi si esprime nel tentativo di mettere al bando la Messa antica, attesta senza equivoci che il crollo del mito modernista è già ampiamente in corso e che, nonostante tutto, non potrà essere arrestato.
Enrico Roccagiachini