A poco più di quattro mesi dalla morte del grande studioso e musicologo napoletano Paolo Isotta pubblichiamo, da Il Giornale, un suo saggio inedito.
Luigi
13/03/2021
Il Quattrocento è un secolo, specie per la sua prima metà, problematico.
Molto del suo ingegno è dedicato a liberare la musica delle superfetazioni tecniche che la gravavano, così distogliendola sia dalla ricerca della bellezza sia dall'affermazione di una moderna tonalità sottostante e compressa: della musica popolare non abbiamo documenti, quella profana, essendo di Corte, ci tiene a non aver troppo a che fare con la tecnica del falso bordone, basata su terze e seste parallele che si susseguono sempre pre intese come consonanze.
Ciò non significa che la Chanson, ch'è sempre e solo profana, non possegga una sua grazia spinosa e capricciosa.
Tradizionalmente, la tecnica del falso bordone si considera di origine inglese, ma è destinata a divenire per secoli l'ossatura di opere pseudo-contrappuntistiche. Il suo principale volgarizzatore è John Dunstable (1400-1453) e due grandi compositori del secolo, Dufay e Binchois, verranno presi in giro come affetti da contenance angloise.
Le tecniche della musica sacra e profana, in un secolo che per la sua gran parte vede a protagoniste la Francia e le Fiandre, mentre la corte più ricca e brillante d'Europa, la Borgogna, si estingue nel 1477 con la morte di Carlo il Temerario, si vanno sempre più differenziando. Tale pare la principale conquista quattrocentesca, che così si avvia verso quella che noi consideriamo la musica moderna. Rispetto alla precedente profluvie di generi e forme, l'obbiettivo è puntato solo su tre: due sacri, la Messa e il Mottetto, uno profano, la Chanson.
Accade in molte epoche e molte arti che la forma si sforzi di essere quel che è, ma non ancora è, e la qualità ne risente. Cito a esempio il caso dell'inizio del Seicento o un po' prima, quando la monodia accompagnata vuole sostituirsi, o porsi accanto, alla polifonia contrappuntistica, e la differenza qualitativa è talora imbarazzante. Una pari lotta vediamo affrontare la Messa e il Mottetto per acquistare un'unità strutturale convincente e un linguaggio che si possa considerare finalmente quello giusto per quella struttura. In tal duplice desiderio noi possiamo sentire anche, e diremo naturalmente, la tensione verso la Bellezza.
Fin qui, a eccezione del canto gregoriano, che di un certo idealtipo di bellezza musicale è il culmine, noi non abbiamo trovato tipi compositivi retti da un principio unitario: piuttosto il contrario, se si pensa al Mottetto trilingue trecentesco. Ora la forma, come da sé, incomincia a esercitarsi nella ricerca. Quel che più si ammira, è che lo fa con strumenti vecchi, atti al Trecento. Eppure...
La polifonia trecentesca non poteva prescindere da una vox prius facta. In apparente continuità, il Quattrocento esperimenta la cosiddetta Messa-tenor. In tutte le sezioni dell'Ordinarium il Tenor è portatore di una melodia data, per lo più di Chanson. Donde il titolo apposto alla Messa, quello della Chanson. La tratta ogni volta diversamente, con erudite sottigliezze ritmiche.
Le si pone accanto, destinata a durare per tutto il Cinquecento con esempi meravigliosi, la cosiddetta Messa-parafrasi. Qui la vox prius facta non è appannaggio esclusivo del Tenor. Al contrario, le sue varie frasi valgono in quanto ciascuna è un motivo ripreso e sviluppato in imitazioni dalle quattro o più voci, ovviamente con testo vocale omogeneo. Nel Cinquecento, ma lì siamo entro il recinto della Bellezza, fiorirà la tecnica della Messa-parodia: il compositore sviluppa le cinque parti dell'Ordinarium a partire da un mottetto polifonico preesistente, sia questo proprio o altrui. Non si creda che siffatti procedimenti servano a ridurre la fatica inventiva dell'autore. Richiedono, al contrario, una sottigliezza tecnica ch'è ancor oggi il modello per gli studi scolastici. Si prenda ad esempio l'intima, raccolta bellezza di Veni sponsa Christi di Palestrina: dall'intonazione gregoriana al Mottetto alla Messa-parodia. Una conquista tecnica moderna del Quattrocento è l'entrata delle voci in stretto: esse s'inseguono ciascuna col medesimo motivo ed entrano ciascuna prima che la precedente abbia cessato d'enunciarlo per intero.
Nel corso del Quattrocento, poi definitivamente nel Cinquecento, il divario di linguaggio (non di stile) fra musica colta e musica popolare o pseudo-popolare, si riduce fino a scomparire, se non lo si voglia definitivamente sottolineare. La cosiddetta Frottola è scritta in stile verticale e del tutto tonalmente. La Chanson dalla quale, lo ripetiamo, derivano nelle rispettive forme caterve di Messe, può essere anche in stile polifonico dotto. L'unificazione di linguaggio, stile e forma in una composizione coerente sotto tutti questi profili, e quello della Bellezza innanzitutto, si realizza col più grande compositore del Rinascimento, Josquin Des Préz (1440 - ca. 1524), che ai tempi suoi venne paragonato per altezza artistica a Michelangelo. Trascorse egli la gran parte della carriera tra Milano, Roma e Ferrara, ancorché, dopo il suo ritorno definitivo in Francia gli si debbano ancora capolavori: scrisse venti Messe e sessantotto Mottetti. Unificò il linguaggio musicale europeo, perché con lui penetra nel Cinquecento italiano la generazione dei grandi compositori franco-fiamminghi, maestri a loro volta degli italiani: nel corso del secolo questi prendono il predominio, tanto che tradizionalmente, d'allora e per sempre, il modello non solo scolastico ma ideale della polifonia dotta fu quello di due grandissimi tardi esponenti dello stile: Orlando di Lasso e Giovanni Pierluigi da Palestrina.
Nell'arco che da Josquin arriva a quest'ultimo si afferma nella musica sacra la perfetta coincidenza tra culto e ricerca della Bellezza, nell'inseguimento delle voci, nella loro imitazione ancor dottamente canonica, nell'imponente effetto accordale da tutti praticato ma in particolare da Adriano Willaert, considerato il fondatore della cosiddetta scuola veneziana, e dai suoi allievi Andrea e Giovanni Gabrieli.
Dopo l'arco che va da Josquin a Palestrina il culto della Bellezza nella musica liturgica e sacra continua, e mette capo a capolavori anche superiori alle centinaia ricompresi nel detto arco. Si tratta tuttavia non più di quella Bellezza che chiameresti oggettiva, capace di realizzare finalmente in concreta vita sonora e formale il mito dell'Armonia delle Sfere. La tendenza a un'interpretazione e a una descrizione soggettiva del testo liturgico porta al Barocco, che nel nostro caso è l'opposto dell'ideale di Bellezza della polifonia rinascimentale, al Barocco soggettivistico e drammatico. Ecco perché, fermo restando che l'autentico linguaggio liturgico nella Chiesa è il Canto Gregoriano, nella sua intramontabile bellezza e modernità perché come fuori dal tempo, la polifonia classica resta l'altra grande espressione artistica ove la Chiesa ha espresso lo stesso culto della Bellezza che l'ha portata a esser madre insostituibile dell'architettura, della scultura e della pittura: le arti dello spazio e della figura, che accanto alla polifonia classica si pongono. Ma questo è, a ben vedere, la stessa civiltà europea. Rovina di questa e negazione e distruzione del culto della Bellezza sono tutt'uno.