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domenica 28 marzo 2021

L’abito liturgico fa o non fa il monaco?

Vi proponiamo un interessante contributo di Angelo Pellicioli, coordinatore del Comitato permanente per il Rinnovamento liturgico nella Fede, sull’importanza dell’abito talare.
Ricordiamo che, da ultimo, la Congregazione per il Clero nella nuova edizione del Direttorio per il ministero e la vita dei Presbiteri, approvato il 14 gennaio 2013 dal Sommo Pontefice Benedetto XVI, al n. 61 ha confermato l’obbligatorietà di portare l’abito talare (o un abito ecclesiastico decoroso), già prevista nel canone 284 c.d.c.

L.V.


La celebre citazione «l’abito non fa il monaco» sta a significare che, talune volte, il modo di vestire non rispecchia, né contraddistingue, il carattere di una persona. Diamo atto, per fugare ogni equivoco, che si tratta della solita eccezione che conferma la regola. Nella maggior parte dei casi, infatti, i monaci (e più in generale i religiosi) rispecchiano e rispettano appieno la loro divisa; almeno quelli di loro che ancora la indossano. Al giorno d’oggi, infatti, costituiscono sicuramente una rarità i consacrati che si ammantano della talare, per secoli ritenuta emblema del loro status. Altrettanto pochi sono pure i sacerdoti che indossando abiti civili appropriati (il clergyman è ormai quasi del tutto scomparso) che manifestino il loro status.
Riprendendo la citazione emarginata, sorge quindi un corollario spontaneo: può un monaco, che si ritiene tale, non indossare l’abito che lo contraddistingue? La risposta sembra ovvia e scontata: certamente no. In primo luogo perché i suoi doveri lo impongono e poi, tanto per stare in argomento, perché sarebbe difficile riconoscere un monaco senza saio.
Abbandoniamo ora il ristretto campo monacale ed allarghiamo il nostro orizzonte al più ampio campo liturgico. Occorre osservare in proposito come il Magistero ecclesiale, nel corso della sua bimillenaria esistenza, abbia dettato regole precise nonché disposizioni appropriate in merito al vestiario dei presbiteri ed ai paramenti che essi devono indossare durante le cerimonie religiose che celebrano. Non a caso la Chiesa ha provveduto ad abbinare, con cura meticolosa, i paramenti sacri alle varie fasi temporali dell’anno liturgico, stabilendone i colori e specificando altresì l’importanza del paramento da indossare, a seconda delle varie ricorrenze: solennità, festività e memorie, stabilite dal calendario liturgico. Il vestiario del religioso assume quindi un duplice significato: nel quotidiano quello di farsi riconoscere (per meritare dovuto rispetto e necessaria devozione, propria di chi provvede a somministrare i Sacramenti), mentre nelle sacre funzioni quello di indossare paramenti consoni ed appropriati ad ogni circostanza propria delle ricorrenze liturgiche.
Oggi, complice l’attuale era modernista, assistiamo purtroppo ad un imbarbarimento degli usi e dei costumi anche a livello ecclesiale, soprattutto in campo liturgico. Che dire delle immagini, che impazzano su TV e social network, che ci mostrano il sacerdote/giornalista al cospetto del Papa, per la ricorrente periodica intervista, in abiti sdruciti e calzante scarpe da footing? Si rende necessaria una profonda riflessione sul perché sia stato oggi del tutto abbandonato quel protocollo di circostanza, opportuno quanto necessario, volto a rendere deferente omaggio al Vicario di Cristo in terra. Non ci si raccapezza proprio, soprattutto se si considera come tale protocollo venga tuttora rigidamente osservato in presenza di capi di Stato o di Governo. C’è forse qualche discriminante che ci sfugge?
Va pure osservato che certi paramenti liturgici, che oggi vanno per la maggiore, hanno tutto meno che del sacro. Eppure essi vengono indossati, ormai disinvoltamente, dai celebranti della Chiesa modernista, sé dicente «in uscita», per celebrare la Santa Messa. Così assistiamo all’esibizione di tuniche dai multicolori colori sgargianti propri dell’arcobaleno, elevato oggi ad unico emblema di uguaglianza sociale e di pacificazione fra i popoli e non più considerato quale sacro simbolo del patto biblico di nuova alleanza, stretto millenni orsono tra Dio e Noè dopo il diluvio universale.
Adesso, aboliti i manipoli, le stole risultano sovente stampate direttamente sulle albe (camicioni bianchi sostitutivi dell’ormai desueto camice liturgico merlettato) finendo per costituire un tutt’uno con esse. Le casule (preziosa riscoperta di antichi paramenti sacri) che venivano utilizzate in via straordinaria fino all’epoca preconciliare in sostituzione della pianeta, rappresentano sempre più manifatture bislacche e colori bizzarri e costituiscono, ormai, usuale abbigliamento nella celebrazione della Santa Messa. Scomparsi quasi del tutto i Sacri Vespri e le processioni, i piviali sono conservati negli armadi delle sacristie o esposti nei musei. Il velo omerale (continenza), proprio delle benedizioni eucaristiche nonché manto del suddiacono al momento precedente la consacrazione delle Sacre Specie, nelle Messe solenni vetus ordo, è sparito quasi del tutto.
Dobbiamo quindi amaramente constatare che, in questa nostra epoca di modernismo ed appiattimento degli usi e costumi, in ambito ecclesiale l’abito non fa più il monaco. E, purtroppo, non siamo più in presenza di un’eccezione bensì di una ormai consolidata prassi che riduce tutto ad una uniforme sciatteria; con l’unico intento di sminuire, fino ad abolirla del tutto, la sacralità liturgica in ogni sua forma e manifestazione. Forse gli “addetti ai lavori” dovrebbero effettuare un più che opportuno ripasso del libro del Levitico nel quale, già millenni orsono, veniva esplicitato, con dovizia di particolari, lo svolgimento delle cerimonie religiose con tutto quanto ad esse connesso: gesti, ritualità ed abbigliamento appropriato.

Angelo Pellicioli

7 commenti:

  1. Peccato che il sacerdote con le scarpe da ginnastica (che anche per me non è il massimo del gusto) difenda nobilmente il Pontefice dagli attacchi senza giudicare... mentre la maggior parte di quelli con la talare lo denigrano superbamente e non lo riconoscono. Quindi, in questo mondo diabolico, pare proprio che l'abito non faccia il monaco quasi mai. La talare è molto elegante in questa epoca di stracci e fa un certo effetto sia per chi la indossa e sia per chi la vede, va saputa indossare con responsabilità e spirito di umiltà. Negli ambienti tradizionaliSTI a volte conta più la pianeta che l'omelia... un prete non è un influencer estetico, la liturgia non è uno spettacolo. Don Pozza è uno schietto, autentico, che si sporca le mani dietro un carcere ed è molto più serio di alcuni preti preconciliari mezzi seduttori e mezzi manipolatori che girano. Questa è un'epoca tutta al contrario. La talare è per sacerdoti nobili d'animo, serissimi. Se no meglio le scarpe da ginnastica, sono più educative, ti riportano a terra.

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    1. il suddetto Marco Pozza ha fior fiore di articoli che lo elogiano perchè è un 'prete controcorrente' per il suo abbigliamento, e per questo è stato trattato con i guanti di velluto dai media (persino da MTV!). quindi si può dire che il fatto di vestirsi al massimo da laico piaccia a certa gente
      per il resto la sua generalizzazione sui preti in talare è disgustosa, insultante e da grandissimo stronzo. le rispondo solo con un ricordo: don Ludovico, oggi superiore della FSSPX in Italia, che dipinge le stanze del priorato di Silea con una talare molto vissuta

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  2. Dalle mie parti il proverbio l'abito non fa il Monaco lo si dice nella seguente dicitura: l'abito non fa il Monaco ma quasi....saluti Stefano da Siena

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  3. Articolo del tutto condivisibile. Qualche sacerdote che si veste bene per la Messa c'è ancora, ma per lo più predominano sciatteria, trasandatezza e bruttezza. Credo sia riconducibile alla perdita di fede da parte del clero.

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  4. Il senso vero del proverbio è "non basta l'abito a fare il monaco".
    Stop, tutto lì.

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  5. L'abito no fa il Monaco. MA il buon Monaco, ama il suo abito.

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  6. Con questa storia che l'abito non fa il monaco, tanti pseudopreti del nuovo corso, si sentono giustificati a fare le loro porcate senza farsi nemmeno riconoscere per strada.
    Se già c'è il pericolo di trovarsi davanti un cattivo sacerdote con l'abito...figuriamoci quando l'abito nemmeno c'è.

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