Belle riflessioni del cardinale "pensionato" da Francesco il 23 gennaio scorso come arcivescovo di Filadelfia.
Luigi
12-03-2021, Marco Respinti, La Nuova Bussola Quotidiana
Nel libro Things Worth Dying For, monsignor Chaput parla di una vita misera se manca un motivo per cui perderla. Infatti le «culture incapaci di ispirare il sacrificio ultimo per un bisogno o un codice non hanno futuro». Non c’è prosperità senza amore al Paese, mentre il globalismo è un’utopia che isola l’uomo. E, se il patriottismo non toglie «la fame di Paradiso», ci libera però dalla solitudine.
Una leggenda più o meno metropolitana (udita Oltreoceano con le mie orecchie) dice che in inglese si usi «motherland» poiché «fatherland» suonerebbe troppo simile al termine teutonico-nazi «vaterland». Oggi «patria» verrebbe giudicato patriarcal-sciovinista in qualsiasi lingua, ma in tempi fluidi come i nostri nemmeno i cantori di un più femminista, e ovviamente inesistente, «matria» la passerebbero liscia all’esame della gender-police (anche «terra natale» verrebbe stigmatizzato dai cosiddetti pro-choice).
Ma mons. Charles J. Chaput, cappuccino, arcivescovo emerito di Filadelfia, procede tranquillo per la propria strada e alla patria dedica un capitolo intero del suo prossimo libro, in uscita a breve, Things Worth Dying For: Thoughts on a Life Worth Living. E ne ha pure tratto un articolo pubblicato su The Public Discourse, lo stimolante periodico online fondato da una delle menti più brillanti della nuova generazione di bioeticisti (cattolici) statunitensi, Ryan T. Anderson, recentemente incappato nella censura del presidio che la gender-police mantiene su Amazon.
Non siamo isole, dice il presule riecheggiando la Meditazione XVII del poeta metafisico inglese John Donne (1572-1631) e apparteniamo tutti a un più «ampio continente» (“ciò che contiene”, filologia secca) «di esperienze umane che si prolungano nel passato per secoli, esperienze che ci collocano dentro una rete fatta di casa, famiglia, clan, tribù, amici, Paese e religione», che fanno risuonare le corde delle «emozioni» e che esigono «la nostra fedeltà», giacché, «in misura ampia, sono ciò che fa di noi ciò che noi siamo», dandoci «il contesto delle nostre vite».
Non va per il sottile, mons. Chaput, e scomoda subito le cose grosse. Il poeta latino Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.) e il suo «dulce et decorum est pro patria mori», prima ancora “i 300” di Leonida (540-480 a.C.) che fermarono i Persiani alle Termopili, “salvando l’Occidente”, e dopo William Shakespeare (1564-1616) e il suo Enrico V alla battaglia di Agincourt: «Chi oggi verserà il proprio sangue con me sarà mio fratello». Ricorre la morte, come se una vita per cui non si fosse disposti anche a dare la morte, propria, sì, ma pure, altrui, fosse pula.
Un vescovo esagerato? Giammai. Perché, scrive, le «culture incapaci di ispirare al proprio popolo il sacrificio ultimo per un bisogno o un codice di condivisi non hanno alcun futuro». Parole così oggi valgono la lapidazione in effigie, eppure sono la chiave della storia umana. Mons. Chaput cita Rolando a Roncisvalle, il «mito-storia» (lo chiama il grande archeologo italiano Emmanuel Anati) con cui la gente della mia generazione veniva grande (mons. Chaput nota che, ai suoi tempi, la Chanson de Roland era lettura scolastica obbligatoria): le sue scene «più famose narrano del suo eroico ergersi contro un nemico feroce e assai più numeroso». Rolando e i suoi compagni d’arme morirono per qualcosa di grande. Gli ultimi loro pensieri furono per la patria («Francia, la dolce» con cui la medioevista francese Régine Pernoud [1909-1998] ha costruito una delle proprie stoccate più belle), per il buon re Carlomagno (748-814) e per Dio, chiedendo il Paradiso (e ottenendolo).
The Public Discourse ci ha illustrato l’articolo di monsignore, riproducendo delle vetrate entusiasmanti: «Le cose per cui siamo disposti a morire sono legate a ciò che per noi è sacro»: il senso della Chanson per il presule statunitense è questo. E, usando il corsivo, «anche l’essere disposti a morire per qualcosa consacra quel qualcosa come sacro». Siamo al punto. Oggi si è tutti scettici di un vecchiume come il patriottismo. «Uno spirito critico e spesso velenosamente cinico ha minato», scrive il successore degli Apostoli, «gran parte della vita moderna, incluso il concetto di “Paese”. Al contempo è venuto crescendo un tipo bislacco di utopismo globalista. Promette una nuova solidarietà che trascende i confini nazionali, ma è una “solidarietà” tanto superficiale quanto distante». Ad essa è collegata una ideologia economicistica che ci riduce tutti a meri consumatori. Mons. Chaput lo chiama «mercato libero», ma è piuttosto la sua caricatura.
Chaput non è uno sciocco e sa bene come molti traducano “patriottismo” con la sua corruzione «stile Babilonia», il “nazionalismo”, che «nell’era moderna ha causato grandi mali», essendo «un vizio». Del resto l’uomo è cittadino del Cielo, non di uno Stato-nazione. Epperò, ancora, «dulce et decorum est pro patria mori», ripete mons. Chaput: «Abbiamo bisogno del patriottismo sano», consci che «quell’amore per il nostro Paese potrebbe persino condurci a un sacrificio grande, addirittura radicale, al fine di preservare il meglio che di esso rimane. Quell’amore non è male. È fonte di liberazione».
Certo, il patriottismo non sostituisce «la nostra fame di Paradiso», ma è «una grazia naturale: una liberazione parziale, ma reale dalla prigione di un mondo senza più lealtà e dall’isolamento dell’amore per il proprio ego». È così da dopo la caduta dell’impero romano in Occidente. Quando mancano i poeti, i capi, gli eroi e i politici, tocca ai preti fare i poeti, i capi, gli eroi e i politici, re-insegnandoci a essere Rolando, il cavaliere quotidiano che difese la terra dei padri per meritarsi la cittadinanza del Cielo.