Non vogliamo dare la colpa al card. Betori ma, in una diocesi di poco meno di un milione di battezzati (QUI), qualche domanda la si dovrebbe fare.
QUI la notizia e le dichiarazioni di Betori.
Luigi
Campari e de Maistre, 28-12-20
Non c’è alcun dubbio che fosse sincero, il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, quando, un paio di giorni fa, nella videoconferenza natalizia con la stampa ha definito «una delle ferite più grosse del mio episcopato» il fatto che nel 2021, a Firenze, non ci sarà nessun nuovo seminarista. Neppure uno. Un vuoto su cui interrogarsi anche al di fuori dei confini della Toscana; anche perché, nel mondo, i sacerdoti cattolici non sono fatto spariti, anzi sono pure aumentati se si pensa che nel 1975 risultavano essere 404.783 mentre nel 2017 ammontavano a 414.582.
Perfino le ordinazioni sacerdotali, nel confronto tra i due anni citati, sono globalmente cresciute, passando da poco più di 4.600 a circa 5.800. Quindi il problema non è l’assenza di vocazioni, ma l’assenza di vocazioni in Occidente e, in particolare, in Europa e in Italia. Un fenomeno che, per essere compreso, richiederebbe un ragionamento complesso che, inevitabilmente, chiama in causa la secolarizzazione occidentale. Per non annoiare il lettore, ci limitiamo quindi, qui, ad una riflessione telegrafica su origine della crisi delle vocazioni e risposta ad essa.
Iniziando con l’origine, possiamo dire che i seminaristi, in Italia, hanno iniziato a ridursi da molti decenni, anzi probabilmente – come suggeriscono alcuni dati, anche se frammentari – da qualche secolo, e precisamente tra la fine del ‘700 e l’inizio ‘800. Ciò che osserviamo oggi è dunque la fase finale di un percorso di trasformazione, che però troppo a lungo non è stato considerato come grave. Infatti – e veniamo alla risposta alla crisi delle vocazioni – nel mondo cattolico si è a lungo assistito a questo fenomeno con passività, se non con uno sguardo di favore.
La passività è stata quella di chi per decenni ha detto che i «i tempi sono cambiati», salvo oggi dover riconoscere che i tempi sono catastrofici. Lo sguardo di favore è invece stato quello di chi, in casa cattolica, sosteneva che siccome alcune vocazioni passate potevano essere il frutto di dinamiche socialmente inerziali, erano da considerarsi le benvenute poche vocazioni «ma buone». Peccato che il «poche ma buone» si stia trasformando nel meno entusiasmante «nessuna». Questo dovrebbe ispirare, non solo a Firenze, un ripensamento ecclesiale all’insegna neppure dell’evangelizzazione, ma proprio della conversione.
Il solo modo che il cristianesimo e la Chiesa, in Occidente, hanno di uscire dall’angolo è dunque quello di affacciarsi al mondo non più con l’illusione di averlo vicino ma con l’amara consapevolezza di averlo distante. Questa, attenzione, non è un’ipotesi teologica, ma è una solida evidenza sociologica dato che – in casa cattolica ma pure protestante – le congregazioni e gli ordini più conservatori e meno aperti agli «aggiornamenti» sono quelli che tutt’ora registrano un buon numero di vocazioni. La spiegazione di ciò è semplice: in un mondo liquido, queste realtà non propongono un cristianesimo liquido bensì – per usare un’espressione che renda l’idea – hardcore.
Certo, per proporre una visione dottrinale non in sintonia con la cultura dominante – o più semplicemente per proporre il cristianesimo così com’è – si corre il rischio di ritrovarsi isolati, con la quasi certezza di essere irrisi dai media e da quanti ne sposano i punti di vista. Eppure solo così la Chiesa, in un Occidente che l’ascolta ormai se parla di migranti o di ambiente – temi in cui la visione religiosa entra, ma non è indispensabile – tornerà protagonista. «La Chiesa è stata per molti secoli la protagonista della storia», ha osservato il filosofo Andrea Emo, «poi ha assunto la parte non meno gloriosa di antagonista della storia. Oggi sembra esserne solo la cortigiana».