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domenica 17 gennaio 2021

Kwasniewski: Avvolta nel Manto della Regalità. La Bellezza della Messa

Con grande piacere vi offriamo questo articolo del dott. Peter Kwasniewski, apparso su 1P5, la cui traduzione è frutto della collaborazione di Vincenzo Fedele e Carlo Schena, pubblicato sul sito Stilum Curiae con integrazioni validate dall’Autore utili per rendere più fluente, comprensibile e teologicamente valido il testo per i lettori italiani. Buona lettura.

L.V.


Peter Kwasniewski, 8 gennaio 2021

Un giorno di circa vent’anni fa fui invitato a cantare per la prima volta la “Messa per la Dedicazione di una Chiesa” (Introito: Terribilis est locus iste), nell’ambito di una Messa solenne per l’’anniversario di una parrocchia gestita dalla Fraternità Sacerdotale San Pietro. Era la prima volta che prestavo attenzione a questi testi del Proprio. Una Messa davvero sublime. L’enfasi sulla “bellezza della casa di Dio“, il ricco contenuto teologico delle preghiere e delle letture: questi aspetti superavano di gran lunga l’immaginazione dei comuni mortali. Era chiaro che qui si era concretizzata l’azione dello Spirito Santo, come d’altra parte è avvenuto ovunque nella formazione della antica liturgia.
Esperienze come questa – troppe, negli anni, per poterle contare – mi hanno dimostrato che tutto nell’antico rito è più poetico, più ricco di simboli, più attraente e appagante per l’anima assetata di Dio. Gli introiti sono meravigliosamente appropriati, perché annunciano il mistero o la commemorazione principale della giornata ma non si riducono mai a meri esercizi didattici. Non c’è bisogno di una mini-omelia all’inizio (come spesso accade nel Novus Ordo); siamo dolcemente educati dalla poesia dei salmi, posta tra l’Aufer a nobis – una preghiera indispensabile, che esprime umiltà e fiducia nell’aiuto divino, e formula perfettamente lo scopo centrale del nostro culto! – e il Kyrie eleison, che per nove volte invoca la divina misericordia.
A quella Messa anche la cerimonia, con tutti i suoi riti, mi ha toccato più profondamente del solito. Ricordo di aver notato per la prima volta diverse cose (e non è spesso così nella liturgia antica? C’è sempre qualcosa in più da notare, da imparare). Ho osservato come durante il canto del Vangelo da parte del diacono, il sacerdote all’altare si girava per inchinarsi al tabernacolo ogni volta che veniva menzionato il Santo Nome.
Mi ha impressionato anche il solenne e ieratico rito dello “scambio della pace”, durante l’Agnus Dei: il sacerdote, con un gesto semplice ma nobile, dà la pace al diacono, il diacono a sua volta al suddiacono, il suddiacono al seminarista a lato, mentre la Schola intona “dona nobis pacem”, e il sacerdote prega con queste parole: Domine Jesu Christe, qui dixistis apostolis tuis, pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis (“O Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli, vi lascio la pace, vi do la mia pace”). Era chiaro che questa pace scaturiva dal Signore e, tramite i suoi ministri, fluiva dall’altare verso l’esterno, proprio come nella visione di Ezechiele dell’acqua che sgorga dal tempio. Osservando il modo in cui veniva data la pace – l’annuncio simbolico dell’unione fraterna tra i ministri all’altare, come se la pace di Cristo fosse contemporaneamente “recitata” in una rappresentazione teatrale e realizzata concretamente nella realtà – mi sono reso improvvisamente conto che una comunità testimone di tale visione avrebbe potuto percepire vividamente la natura oggettiva della carità cristiana e della concordia fraterna, nel suo legame necessario con Cristo (l’altare), il Suo Santo Sacrificio, e Se stesso nella Santa Eucaristia.
Ho notato poi anche il modo in cui il sacerdote e il diacono, disposti ai piedi dell’altare in ordine gerarchico, si sono rivolti verso il popolo alla fine, il sacerdote per cantare il Dominus vobiscum e il diacono l’Ite missa est, mentre il suddiacono è rimasto rivolto verso l’altare, nascondendo il suo volto. I tre ministri riflettevano così una singolare immagine della Santissima Trinità: il Padre e il Figlio, che si manifestano l’uno attraverso l’altro (il Padre come Dominus, come nella preghiera introduttiva all’angelo custode della chiesa: Domine sancte Pater, onnipotens aeterne Deus; il Figlio come il Sommo Sacerdote che offre il sacrificio: il Missa est cantato dal diacono), mentre lo Spirito Santo, sebbene presente, rimane quasi indefinito: come spiega san Tommaso, non possiamo dare un nome “proprio” allo Spirito Santo, come possiamo invece fare con il Padre e il Figlio.
C’è forse qualcosa di più bello e contemporaneamente più istruttivo di ogni gesto, di ogni parola, di ogni canto del rito romano antico? Quando è celebrato come si deve, esso non ha nulla da invidiare alla più elaborata e contenutisticamente ricca delle liturgie orientali. La ragione principale per cui molti fedeli occidentali sentono una forma di “invidia” per i bizantini è che i primi sperimentano raramente, nella sua pienezza, il proprio rito. L’uno e l’altro hanno specifici punti di forza: la liturgia orientale eccelle nel fervore poetico e nel contenuto dottrinale dei suoi inni, mentre la liturgia occidentale eccelle nella potente concisione delle sue preghiere e nella dignità, solennità, ordine e tranquillità delle sue cerimonie.
Più e più volte, esperienze di questo tipo mi hanno confermato l’importanza del cerimoniale, la “veste” della Messa. I paramenti del sacerdote, il suo contegno, il modo in cui gli accoliti svolgono i loro compiti, la materia dei vasi sacri, la struttura dell’altare, i gesti e i movimenti: tutte queste cose sono come i veli dei Misteri, che sono troppo splendenti per essere visti senza mediazioni. Possiamo paragonarle all’abito di Maria, la Madre di Dio. La Madonna indosserebbe mai abiti immodesti o brutti, indegni della Sua dignità? Certo che no; e nemmeno dovremmo farlo noi, nel nostro culto pubblico di Dio. Ogni nostro rito dovrebbe essere totalmente e magnificamente avvolto del mantello della regalità.
Quanto più frequento la liturgia tradizionale, tanto più mi rendo conto che la differenza tra questa e il Novus Ordo non è solo di contenuto, di disposizione o di rituale, ma si riferisce alla essenza stessa di ciò che viene espresso da, o attraverso, le preghiere e i rituali. Non metto qui in dubbio la validità del Novus Ordo; ma mi sento di spingermi ad affermare, con il cardinal Ottaviani, che il Novus Ordo Missae distorce radicalmente il carattere sacrificale della Messa. Il rito antico è rivolto interamente – per forma, spirito, direzione e orientamento – verso il Padre (pros ton Theon; apud Deum), così come il Logos, come insegna il Prologo del Vangelo di san Giovanni: la liturgia riflette l’offerta continua – nell’eternità e nel tempo – del Figlio al Padre: ecco perché è lampante che il sacerdote agisce in persona Christi, come annuncia chiaramente ogni singolo “accidente” del rito tradizionale. Nel Novus Ordo, per come viene celebrato il 99% delle volte, tutto questo si perde – cioè si perde l’espressione fenomenologica della latria divina o adorazione, che è la suprema causa formale, finale, efficiente e materiale dell’intera liturgia.
Questo insieme di verità mi si è impresso nella mente, quel mattino, durante la Messa “Terribilis est locus”, per mezzo di un’immagine che non riuscivo a togliermi dalla mente: l’immagine, cioè, di come appare la liturgia quando guardata “dall’alto”, in conspectu Dei. È vero che il Padre vede sempre ed unicamente il Figlio – cioè, il Padre vede tutto nel Figlio, che è ars aeterni Patris, l’arte dell’eterno Padre – così che, da un certo punto di vista, è più o meno indifferente parlare del rito classico o del rito moderno. Ma se guardiamo al modo in cui l’uomo, attraverso il sacerdozio, offre il sacrificio del Calvario, esso non può che apparire in modo radicalmente diverso, allo sguardo di Dio.
Immaginate Dio Padre mentre guarda, dall’alto, la cerimonia liturgica. Nella liturgia tradizionale, i fedeli e il sacerdote tendono ugualmente in “avanti” e in “alto”, diretti verso l’altare: si concentrano sul pane e sul vino, riservati esclusivamente per l’uso divino, sul miracolo della transustanziazione, sull’elevazione che simboleggia l’innalzamento di Cristo sulla Croce, sul rito di comunione, nel quale il sacerdote fa “calare” dall’altare i santi doni, come la manna nel deserto, per distribuirli al popolo. Nella liturgia moderna, al contrario, il punto centrale si perde in una confusione di orizzonti: il sacerdote guarda verso il popolo; l’altare si trasforma in una tavola; il pane e il vino sono trattati come le offerte di cibo di una Berakah giudaica; la “inequivocabile verticalità” della latria si trasforma in un evento sociale dal carattere ambiguo, dove non si riesce più a vedere la centralità della relazione tra Padre e Figlio e la comune direzione di tutti verso il solo Dio Padre, dal momento che ogni altro elemento del culto pubblico e privato deve inserirsi in questa offerta del Figlio al Padre.
Lezioni come queste sono imparate naturalmente da coloro che, con mente e cuore aperti, entrano nel locus terribilis – il luogo maestoso, che incute timore e tremore, intriso di un’atmosfera divina – della Messa tridentina, e che permettono agli antichi riti di sussurrare e di cantare il loro messaggio capace di cambiare la vita. Perché davvero il problema è quello dell’esperienza. Se non ci lasciamo familiarizzare con la riverenza, con la bellezza e con le profondità di contenuto dell’antica liturgia, ogni nostro argomento tenderà a rivelarsi inutile quanto una discussione sulla dottrina cristiana tra coloro che non hanno mai visto in azione la carità cristiana.
Pensate a quanto appare più vero l’insegnamento della Chiesa sul controllo delle nascite quando è possibile vivere circondati da famiglie cattoliche numerose, che rivelano la verità di quell’insegnamento e il suo basarsi sull’esperienza vissuta. Similmente, il dogma della Santissima Trinità non può che sembrare una bizzarra e stravagante fantasia intellettuale, salvo che per quelli che ne hanno fatto il principio della loro preghiera, della loro vita e del loro amore. Lo stesso vale per gli argomenti a difesa della liturgia tradizionale. L’esperienza religiosa ha una sorta di centralità e di primato – non in senso assoluto (quoad se), ma relativamente a noi (quoad nos). I principi che impareremo, le conclusioni che trarremo, dipendono profondamente dalla portata della nostra esperienza personale.
In questo anno nuovo, impegniamoci ad invitare qualche familiare, amico o conoscente a partecipare insieme a noi ad una Messa tradizionale – se possibile una Messa cantata o, meglio ancora, una Messa solenne in terzo. Se poi vi sembreranno interessati a parlarne, provate a farvi dire cosa li ha affascinati e cosa li ha infastiditi, stando pronti a rispondere alle loro domande e obiezioni (ne affronto una serie nel mio libro “Reclaiming Our Roman Catholic Birthright“). Da esperienze come queste nascono grandi conversazioni, e grandi conversioni. E potrebbe anche succedere che, col tempo, anche i vostri amici si uniranno al numero – sempre in crescita – di quei cattolici che hanno fatto di questo venerabile rito la loro dimora spirituale.

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