Post in evidenza

Gesù è nato veramente alla fine di dicembre?

Gesù è nato veramente nella data decisa dalla Chiesa. Luigi C. Il Cammino dei Tre Sentieri ,  21 Dicembre 2024 Il professor Michele Loconsol...

giovedì 17 settembre 2020

Soppressione Sectio IV (Ecclesia Dei): quali scenari per fedeli e per gli Istituti? Un commento di Guido Ferro Canale

Riprendiamo dal blog di Tosatti Stilum Curiae (14.09.2020), le riflessioni canonistiche del prof. Guido Ferro Canale a commento della notizia su alcune voci relative alla possibile definitiva scomparsa della Sezione IV della CDF, "ex Ecclesia Dei." Quali conseguenze per i gruppi stabili? Quali rimedi contro i soprusi dei Vescovi? Che sorte avranno gli istituti religiosi c.d. "Ecclesia Dei"?
Roberto

Preg.mo Dott. Tosatti,

ho letto con grande interesse il Suo articolo sulle possibili conseguenze di una ventilata soppressine dell’ufficio che, in seno alla CDF, ha ereditato le competenze della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, ma debbo dire che il ragionamento svolto non mi sembra condivisibile in tutto.

Il testo, se ho ben capito, ravvisa un pericolo duplice: per i fedeli, in quanto si rischia di vedere un diminuito impegno nella loro tutela contro gli abusi dei Vescovi e quindi, de facto, un ritorno al regime dell’indulto, ove tutto dipendeva dalla discrezionalità di questi ultimi; per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica eretti ai sensi del m.p. “Ecclesia Dei adflicta”, i quali passerebbero sotto la vigilanza della Congregazione competente sulla vita religiosa in generale e verrebbero anche degradati, per così dire, dallo status di diritto pontificio a quello di diritto diocesano, così ritrovandosi sottomessi al Vescovo della loro sede, con scarse possibilità di ottenere giustizia in Congregazione o presso la Segnatura Apostolica, oggi tanto bistrattata.

A quest’ultimo riguardo, vorrei subito precisare che l’eventuale riassetto delle competenze non potrebbe mai comportare, di per sé, la perdita dello status di diritto pontificio, che non è nemmeno contemplata dal Codice e che, comunque, richiederebbe semmai il venir meno dei presupposti, come il numero dei membri e la diffusione internazionale: difficile che succeda, in realtà in crescita. Inoltre, se la Fraternità S. Pietro e l’Istituto del Buon Pastore sono nati fin dall’inizio come realtà di diritto pontificio, un’altra creatura della prima ora, l’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote, è rimasta di diritto diocesano fino al 2008 e gli ultimi arrivati, i Figli del SS.mo Redentore (“Transalpine Redemptorists”) lo sono tuttora pur essendo da tempo presenti sia in Scozia sia in Nuova Zelanda. Insomma, né la dipendenza dall’“Ecclesia Dei” implicava sempre e comunque il diritto pontificio, né questo si perderebbe venendo meno (l’ufficio che ha ereditato i poteri de) la Commissione.[1]

Peraltro, i termini stessi della prospettata riforma suonano contraddittori, almeno ai miei orecchi: il testo ipotizza infatti, da un lato, la soppressione anche del semplice ufficio oggi esistente in seno alla CDF, dall’altro la sua sostanziale trasformazione in Sezione speciale, come previsto dall’ultimo m.p. in argomento. (Comunque, a livello formale non basta una Plenaria cardinalizia: per modificare, in qualunque modo, l’assetto dei Dicasteri occorre un provvedimento papale, la cui responsabilità, quindi, ricadrà per intero sull’augusto firmatario).

Poste queste premesse, tuttavia, mi sembra il caso di svolgere qualche considerazione sulle possibili ricadute in termini di effettiva tutela per i fedeli, nonché sul possibile assetto amministrativo a regime.


Ostacoli attuali e possibili sulla via della giustizia

Nessun dubbio che il “Summorum Pontificum” sia sotto attacco, almeno quanto all’applicazione pratica, e che la sua difesa non costituisca una priorità dell’odierno Pontificato; tuttavia, il sabotaggio non ha bisogno di riforme amministrative, si può benissimo contentare dell’inerzia.

Invero, il pericolo maggiore per la tutela dei diritti dei fedeli ex can. 214, nel caso, verrebbe semmai dalla loro riconduzione alla competenza della Congregazione per il Culto Divino, che non farebbe una grinza in astratto, ma in concreto significherebbe finire nelle mani degli eredi di Bugnini. A questo proposito, bisogna osservare che la defunta “Ecclesia Dei”, più che mediante provvedimenti espressi, è intervenuta in via informale, sostanzialmente facendo opera di persuasine sui Vescovi ostruzionisti, tutto sommato con un discreto successo; nel caso in cui si concretizzasse l’ipotesi qui paventata, non si dovrebbero temere tanto decreti di rigetto delle stanze o dei ricorsi, quanto l’inerzia, la sostanziale cessazione di questi interventi, il silenzio amministrativo. E a questo vulnus non potrebbe utilmente rimediare la Segnatura Apostolica, per ragioni istituzionali prima ancora che per l’entità del coraggio o del peso politico dell’Em.mo Card. Mamberti.

Bisogna considerare, infatti, che il contenzioso da “Summorum Pontificum” riguarda essenzialmente due situazioni:
un gruppo di fedeli non riesce a trovare un celebrante e/o una sede per la Messa tridentina e richiede l’intervento del Vescovo, che però non è favorevole all’iniziativa e resta inerte, o addirittura respnge la richiesta;
l’Ordinario interviene attivamente contro quei fedeli e Sacerdoti che si avvalgono del “Summorum Pontificum”.

Almeno per quel che mi è dato sapere, l’ipotesi di gran lunga più frequente è la prima, in termini di silenzio.

E qui cominciano i problemi. Perché pochissimi fedeli, purtroppo, conoscono il can. 57 e le sue conseguenze.[2]

Quando non è stabilito un termine diverso, tutte le richieste presentate all’Autorità ecclesiastica vanno evase entro tre mesi; altrimenti opera il silenzio-rigetto, quindi il dovere di decidere non viene meno, ma la risposta si considera negativa e come tale può essere impugnata.[3]

Solo che il ricorso, quando si tratta di provvedimenti o silenzi del Vescovo diocesano, va presentato entro il termine perentorio di quindici giorni.[4] Se è tardivo, il superiore, cioè la Santa Sede, ha sempre il potere di intervenire – perché esso discende dal dogma del Primato e dalla giurisdizione universale del Papa – però non è obbligato a farlo e può limitarsi a dichiarare l’inammissibilità; in più, la giurisprudenza della Segnatura, sostanzialmente, non ammette l’ignoranza come scusa e afferma che la grazia della remissione in termini può essere concessa solo con un intervento del Romano Pontefice (!).

In altre parole: se la fu Pontificia Commissione si è limitata all’intervento informale, un ottimo motivo potrebbe anche essere il fatto che, il più delle volte, il rigore giuridico avrebbe nuociuto, purtroppo, agli stessi ricorrenti.[5]

Se poi a tacere è il Dicastero romano – appunto ciò di cui ci stiamo preoccupando – il rimedio è costituito dal ricorso in Segnatura, per cui si dispone di sessanta giorni[6] e non è necessario avere già un avvocato; però qui sorge l’altro problema, l’estensione dei poteri del giudice. Senza dubbio, il Supremo Tribunale può accertare l’illegittimità del silenzio e accordare il risarcimento dei danni conseguenti; ma può sostituirsi all’Amministrazione, entrare nel merito della richiesta e provvedere direttamente? Il Codice non lo dice; secondo la dottrina sì,[7] ma a patto che l’istruttoria gli abbia consentito di acquisire tutti gli elementi di cui, normalmente, dovrebbe disporre il Vescovo o il Dicastero…[8] e, quindi, molto dipenderà dalle circostanze del caso concreto. Se il gruppo di fedeli ha già indicato una specifica chiesa, o un celebrante, le cose saranno più semplici; ma se si è rimesso al Vescovo, anche solo per uno dei due aspetti, una decisione diretta da parte della Segnatura mi sembra molto difficile. Interverrà, semmai, in un secondo momento: tutte le volte in cui dichiara l’illegittimità di un atto, infatti, il Supremo Tribunale assegna un termine per provvedere in modo conforme alla sentenza e, in caso di inerzia, si sostituisce al Dicastero romano senza più remore (cfr. artt. 92-94 della Lex Propria).

Oltre a questo problema strutturale ve ne sono altri, processuali o pratici, di non secondaria importanza. I tempi lunghi, ad esempio, o l’esigenza di nominare quanto prima un avvocato se non si vuole vedersi respingere il ricorso. Non basta un avvocato rotale, si badi bene: questi, al massimo, può essere autorizzato eccezionalmente a patrocinare quel singolo caso lì, ma in linea di principi occorre rivolgersi a un professionista iscritto nell’albo degli Avvocati presso la Curia Romana… che stanno tutti a Roma. L’altro adempimento preliminare che taglia le gambe a molti ricorrenti è il versamento della cauzione per le spese: in genere, la Segnatura non rivolge un previo invito a provvedere e – come sa bene don Stefano Carusi– dichiara subito l’improcedibilità del ricorso per mancato deposito. La cifra, dieci anni or sono, era di 1.550,00 €; nel frattempo sarà certo aumentata.

In sintesi: se il Vescovo interviene su un’iniziativa in essere (la seconda delle due ipotesi descritte in esordio), in ultima istanza la Segnatura può offrire una tutela pena, anche se difficilmente tempestiva. Ma se resta inerte e il Dicastero romano sovraordinato fa altrettanto, le cose si complicano, temp si allungano, i costi aumentano… e la soluzione si allontana. Nel migliore dei casi, il Supremo Tribunale potrebbe ritrovarsi a svolgere quell’attività “conciliativa” che prima era il pane quotidiano dell’“Ecclesia Dei”. Però non è detto che avrebbe la stessa efficacia, proprio perché la minaccia implicita nei suoi poteri è minore.



Prospettive di riforma e assetti futuri

Dal 1988 ad oggi, la gestione della complicata realtà “tradizionalista” è sempre stata affidata ad un organismo ad hoc, sia pure variamente inquadrato; oggi, sembrerebbe in programma un suo riparto tra i diversi Dicasteri a competenza ordinaria, secondo le rispettive materie.

Può darsi benissimo che l’intento sia nefando; tuttavia, una misura del genere, in sé, è il riconoscimento della perfetta normalità di questi fedeli, chierici, religiosi ed enti. Le differenze tra Benedettini e Gesuiti, ad es., sono molte, ma nessuno si sognerebbe di sottoporli a due Congregazioni romane diverse, meno ancora di crearne una apposta per i Benedettini. Dopo il “Summorum Pontificum”, l’impiego delle forme liturgiche tradizionali non esige più provvedimenti straordinari, è stato ricondotto – almeno de iure – nell’ordinaria amministrazione.

Ciò detto, personalmente riterrei preferibile un inquadramento analogo a quello in vigore per gli Ordinariati personali per ex-Anglicani, che dipendono dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e sono seguiti da personale specializzato: tanto le peculiarità e le istanze del mondo tradizionalista quanto l’opposizione ad esse nascono, infatti, soprattutto da motivi teologici e non possono essere apprezzate adeguatamente sotto il solo aspetto liturgico o disciplinare.

Tuttavia, proprio la storia della defunta Pontificia Commissione mostra una certa oscillazione nell’importanza relativa dei vari aspetti, sicché ripercorrerla, almeno in breve, può essere utile anche per le prospettive odierne.

Dopo la sospensione a divinis del 1976, il “caso Léfebvre” è stato gestito essenzialmente come un problema dottrinale. Un problema, si direbbe oggi, di “rifiuto del Concilio”: la documentazione si trova riunita, in lingua francese, a questo link e soprattutto il resoconto del colloquio dell’11 gennaio 1979 in CDF mostra che si stava applicando la procedura per l’esame di dottrine sospette. E questo, d’altronde, era anche l’indirizzo di Paolo VI, ad es. nella lettera dell’11 ottobre 1976.

Il 5 maggio 1988, un accordo è stato raggiunto, sebbene sia stato denunciato il giorno dopo. Il Protocollo firmato da Ratzinger e da Léfebvre regola in questi termin la questione dottrinale:

“1) promettiamo di essere sempre fedeli alla Chiesa cattolica e al romano Pontefice, suo Pastore Supremo, Vicario di Cristo, Successore del Beato Pietro nel suo primato e Capo del corpo dei vescovi.

2) Dichiariamo di accettare la dottrina contenuta nel n° 25 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II sul Magistero ecclesiastico e sull’adesione che gli è dovuta.

3) A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della liturgia e del diritto, che ci sembrano difficilmente conciliabili con la Tradizione, ci impegniamo ad assumere un atteggiamento positivo di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica.”

Il terzo punto, a parer mio, implica il riconoscimento di una plausibilità oggettiva delle riserve sulle “novità” dottrinali del Concilio: di regola, al Magistero anche non infallibile è dovuto l’assenso interno e solo ragioni gravi possono permettere di sospenderlo; l’“atteggiamento positivo di studio e di comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni polemica”, in questi casi, è la regola generale, come precisato due anni più tardi nell’Istruzione Donum Veritatis, nn. 28-31.

Comunque, anche dopo la rottura e la consumazione di quello che, almeno allora, la S. Sede considerava uno scisma, la S. Sede ha tenuto fermo il Protocollo come base per “facilitare” (o ristabilire) “la comunione ecclesiale” di chi era stato legato al movimento lefebvriano: il n. 6 lett. a) del m.p. “Ecclesia Dei adflicta” gli ha conferito, in sostanza, forza di legge, facendone la base su cui costruire le soluzioni canoniche del caso. Di conseguenza, l’attenzione si è spostata sul momento disciplinare: per questo è nata la Pontificia Commissione.

Invero, una Commissione era già prevista dal Protocollo e sarebbe dovuta divenire l’organo di garanzia per i tradizionalisti, che vi dovevano essere rappresentati, sebbene in minoranza; l’idea, in particolare, era permetterle di esercitare giurisdizione diretta per stabilire quelli che, in gergo, si chiamano “centri di Messa”.[9] Ma il Dicastero concretamente istituito è sempre stato un’altra cosa: il m.p. “Ecclesia Dei”, n. 6, lett. b), ha eliminato il requisito della rappresentanza dei Sacerdoti e religiosi interessati; i fedeli sono scomparsi dall’orizzonte, perché adesso si trattava solo di “facilitare la piena comunione ecclesiale dei sacerdoti, seminaristi, comunità o singoli religiosi e religiose”; a torto o a ragione, anche il potere di concedere direttamente l’uso del Messale del 1962 a chiunque ne facesse richiesta, accordato con rescritto pontificio 18 ottobre 1988, è stato interpretato come riferito ai soli Sacerdoti;[10] i primi Presidenti della Commissione sono stati tutti Prefetti della Congregazione per il Clero e l’attività principale, almeno fino al 2000, è consistita nel sistemare tutte le questioni canoniche relative ai transfughi della Fraternità S. Pio X.

In occasione del Giubileo, la Fraternità ha organizzato un grande pellegrinaggio a Roma, che ha suscitato l’interesse del Card. Castrillón Hoyos, allora Presidente dell’“Ecclesia Dei”: da questo momento, sono ripartiti i colloqui con il movimento lefebvriano nel suo insieme, non con singoli soggetti o gruppi sulla via del rientro, e sono tornate in primo piano le questioni dottrinali. Sul fronte disciplinare, la Fraternità poneva due questioni preliminari: la libertà di celebrare more antiquo e la remissione delle scomuniche ai quattro Vescovi. La prima è stata accordata nel 2007, con il “Summorum Pontificum”, la seconda nel gennaio 2009.

A questo punto, di fatto la missione del Dicastero è cambiata.

Se ancora nel 2006 con l’Istituto del Buon Pastore, e nel 2008 con i “Transalpine Redemptorists”, la Commissione ha curato il rientro di singoli gruppi, ora l’obiettivo è divenuto il reintegro del movimento lefebvriano nel suo insieme, mediante la soluzione dei problemi dottrinali, dato che non vi sono più ostacoli canonici: questa è la logica sottesa al m.p. “Ecclesiae unitatem”, che ha collegato il Dicastero con la CDF, e secondo me anche alla sua recente trasformazione in una sezione della stessa.

Nello stesso tempo, però, il m.p. “Summorum Pontificum” (artt. 7 e 12) ha affidato alla Commissione un compito che essa riteneva di non possedere fino a quel momento, ossa tutelare il diritto dei fedeli alla celebrazione more antiquo. Questo ha comportato un notevole incremento di lavoro, segnalato nei volumi annuali L’Attività della Santa Sede, e soprattutto ha creato un legame anche emotivo, se vogliamo, tra i fedeli interessati e il Dicastero, perché l’esplicita consegna di tutelare e promuovere il rispetto per l’antica Liturgia è stata vista come la fine di un lungo inverno, la prova tangibile che non si doveva più essere considerati cattolici “sospetti” o di serie B.

Invece, si è sempre svolto sottotraccia, con pochissimi echi all’esterno, il lavoro di vigilanza sugli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica dipendenti dall’“Ecclesia Dei”: il momento di massima visibilità si è avuto a cavallo dei due secoli, rispetto alle vicissitudini interne della Fraternità S. Pietro, in particolare sulla possibilità o meno, per i suoi membri, di celebrare secondo il Novus Ordo.

Insomma, fino all’anno scorso la Pontificia Commissione svolgeva tre lavori piuttosto diversi: le discussioni dottrinali con la S. Pio X, dove peraltro, in sostanza, faceva solo da interfaccia con la CDF, ai cui organi la riforma del 2009 ha riservato ogni potere decisionale, o anche solo di proposta al Sommo Pontefice; la vigilanza di cui si è appena detto, che implica anche il controllo sui Seminari, i percorsi verso l’ordinazione sacerdotale ecc.; il controllo sulla retta applicazione del “Summorum Pontificum”. La soppressione del Dicastero ha trasferito il primo all’Ufficio Dottrinale della CDF, mentre gli altri due sono stati ereditati dal neocostituito Ufficio IV; ora – se ho capito bene – si tratta di decidere se promuovere quest’ultimo al rango di Sezione, con una maggior autonomia e magari un Segretario aggiunto per sbrigare le pratiche ordinarie, oppure devolverli ale Congregazioni competenti per materia.

Tutti e tre questi compiti richiedono una profonda comprensione della mentalità tradizionalista, dei suoi temi sensibili, e in pari tempo delle ragioni dei suoi oppositori; però esiste una notevole differenza tra il dibattito teologico – che peraltro mi sembra si sia, in sostanza, arenato – e quelle che sono, in sostanza, attività di applicazione della legge, che dal primo possono essere separate senza grossi problemi.

A mio personale parere, sarebbe opportuno mantenere in capo ad uno stesso Dicastero[11] le competenze sul “Summorum Pontificum” e la vigilanza sugli Istituti, cui si potrebbero anzi aggiungere le associazioni laicali dedite alla promozione della Liturgia antica. E questo perché, in definitiva, i problemi più seri in assoluto, per gli Istituti dell’“Ecclesia Dei”, sono quelli relativi all’apostolato nelle diverse Diocesi, o piuttosto all’impossibilità di svolgerlo; e dunque riguardano in pai tempo i Sacerdoti e i fedeli, ma innanzitutto questi ultimi, poiché l’Istituto è il mezzo, l’apostolato il fine.

In effetti, la vera questione sul tappeto è, o dovrebbe essere, la mancata attuazione del Protocollo del 1988, nella parte in cui prevedeva che la Commissione assicurasse direttamente ai fedeli l’apertura di un “centro di Messa”: a parer mio, si tratta di una norma ancora in vigore, e comunque di un potere spettante in forza del Primato pontificio, ma non mi risulta che sia mai stato esercitato finora, neppure una volta.

Purtroppo, finché si dovrà tener conto dell’esistenza e della possibile reintegrazione di una realtà “esterna” come la S. Pio X, che oltretutto si è scissa a sua volta, le strutture ecclesiali sconteranno sempre un grado di provvisorietà notevole; nondimeno, credo che si dovrebbe pensare a promuovere la distribuzione ottimale dei chierici “tradizionalisti” in relazione alle necessità dell’apostolato. Si può pensare ad una Prelatura personale, prevista dal Codice proprio per questo scopo, ee fondervi per incorporazione i diversi Istituti, oppure mantenerli in vita ma sotto l’ombrello comune di un Ordinariato come quelli per ex-Anglicani… che tra l’altro possono, con il consenso della S. Sede, erigere parrocchie e senza di esso, previo parere vincolante del Vescovo diocesano, “quasi-parrocchie”, che sono la stessa cosa in tutto fuorché nel nome.[12] A supporto del clero diocesano e regolare che nutre simpatie tradizionaliste ma preferisce coltivarle in seno alla propria realtà di incardinazione e/o vocazione, si può pensare ad una forma di aggregazione simile a quella che esiste presso l’Opus Dei.[13]

A quanto se ne sa, invero, sia la Prelatura personale sia l’Ordinariato personale sono stati prospettati alla S. Pio X come possibile veste giuridica, al tempo dei colloqui dottrinali; ma così è passata in secondo piano l’esigenza di una riorganizzazione complessiva della galassia “tradizionalista” in piena comunione, che non mi sembra opportuno differire ancora. Più che un nuovo intervento sul Dicastero romano competente, oggi l’importante è che si pensi a realizzare una struttura aperta ad accogliere eventuali rientri, anche in massa, senza però attendere un accordo che non sembra possibile a breve termine.[14] E il vero problema sta nella mancanza di sforzi concreti in quella direzione, nella scarsa o nulla volontà politica di far crescere e fiorire questa realtà. Qualunque eventuale esito deleterio della riforma di cui si vocifera non sarà che una conseguenza.

Genova, li 11 settembre 2020

Guido Ferro Canale

________________________________
[1] Peraltro, i Vescovi possono creare difficoltà anche agli Istituti di diritto pontificio, per quel che riguarda le attività di apostolato esterno, quindi anzitutto la Messa cum populo.

[2] Per una visione di insieme e ulteriori approfondimenti, mi permetto di rinviare al mio La tutela dei diritti soggettivi del fedele e il ricorso al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Cermenate 2017, pagg. 591-8.

[3] Va notato che, in linea di massima, le risposte ambigue, i “Non sembra opportuno…”, i “Penso che il Vescovo desideri…”, oltre ovviamente a tutti gli atti interlocutori, non costituiscono un provvedimento e nemmeno interrompono il termine entro cui esso va adottato; solo la Curia Romana possiede un potere di proroga, ai sensi dell’art. 136 §2 del proprio Regolamento Generale, della cui legittimità, peraltro, si discute in dottrina, poiché non è affatto chiaro se il Regolamento abbia il potere di derogare al Codice.

[4] Tralascio, per semplicità di trattazione, il passaggio procedurale previo della richiesta rivolta al Vescovo di modificare il proprio atto (c.d. remonstratio, cfr. can. 1734), a sua volta soggetto al termine giugulatorio di dieci giorni.

[5] Va notato che l’art. 7 del “Summorum Pontificum” contempla la possibilità del ricorso in termini atecnici, che potrebbero implicare proprio un invito a superare i profili di rigore formale. Tanto più che, ai sensi dell’interpretazione autentica al can. 1737, di norma simili gruppi di fedeli non sono legittimati a proporre ricorso, mentre in questo caso il legislatore ha voluto prevedere un’eccezione.

[6] L’art. 135 del Regolamento Generale della Curia Romana impone di chiedere, entro dieci giorni, la revoca della decisione sfavorevole del Dicastero; ma la sua applicabilità al caso del silenzio è quantomeno dubbia e, comunque, dall’eventuale omissione non derivano conseguenze per il ricorso in Segnatura.

[7] Cfr. G.P. Montini, Problemata quaedam de silentio et recursu iuxta can. 57 CIC, in Periodica 80 (1991), pagg. 469-98, qui 495-8; M. Ganarin, Lineamenti del rinnovato processo amministrativo contenzioso ecclesiale. Commento al m.p. Antiqua ordinatione di Benedetto XVI (parte seconda), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica, settembre 2011, pagg. 69-70.

[8] Va notato che la Segnatura è stata strutturata sulla falsariga dei Tribunali amministrativi italiani, quind come un giudice che, in linea di principio, annulla gli atti e stabilisce come debba essere interpretata o applcata la legge, dopodiché ordina all’Amministrazione di rifare il lavoro, non decide al posto suo. Questo però è un caso particolare.

[9] “Verrà istituita, a cura della Santa Sede, una commissione per coordinare i rapporti tra i diversi dicasteri e i vescovi diocesani, nonché per risolvere gli eventuali problemi e i contenziosi; questa commissione sarà provvista delle facoltà necessarie a trattare le questioni indicate (per esempio l’instaurazione, a domanda dei fedeli, di un luogo di culto là dove non vi sono case della Fraternità, ‘ad mentem’ can. 383, § 2).

Questa commissione sarà composta da un Presidente, da un Vice Presidente e da cinque membri, di cui due della Fraternità.
Essa avrà inoltre la funzione di vigilanza e d’appoggio per consolidare l’opera di riconciliazione e regolare le questioni relative alle comunità religiose che hanno un legame giuridico o morale con la Fraternità.”.

Il can. 383 §2 prescrive al Vescovo diocesano: “Se ha nella propria diocesi fedeli di rito diverso, provveda alle loro necessità spirituali sia mediante sacerdoti o parrocchie del medesimo rito, sia mediante un Vicario episcopale.”.

[10] Tralascio l’ulteriore problema delle norme predisposte dalla Commissione cardinalizia, contestualmente approvate ma mai rese note o applicate. Sul problema dei provvedimenti diretti, che hanno provocato reazioni dei Vescovi e la pubblicazione del rescritto in AAS, cfr. W.H Woestman, Ecclesia Dei and Ecclesial Communion, in The Jurist 53 (1993), pagg. 199-209; inoltre la lettera prot. n. 500/90 del Card. Presidente, Augustin Mayer: “Nonostante il Santo Padre abbia conferito a questa Pontificia Commissione la facoltà di concedere l’uso del Messale Romano nella edizione tipica del 1962 a tutti coloro che ne fanno richiesta, dopo avere informato l’Ordinario competente, noi preferiremmo meglio che tale facoltà venisse esercitata dallo stesso Ordinario, così da rafforzare la comunione ecclesiale tra i preti e i fedeli interessati e i loro Pastori.”.

[11] E ad uno stesso Ufficio oppure Sezione: la differenza è largamente nominalistca, perché anche un Capo Ufficio può vedersi conferire poteri rilevanti nel Regolamento Proprio del Dicastero.

[12] Cfr., rispettivamente, Cost. Ap. “Anglicanorum coetibus”, art. VIII §1; Norme complementari alla medesima, art. 14 §3, e can. 516 CIC.

[13] Cfr. Codex Iuris particularis Operis Dei, nn. 58 sgg.

[14] Come mi pare dimostrino, indirettamente, anche gli atti con cui la S. Sede ha accordato facoltà canoniche ai Sacerdoti della S. Pio X.

1 commento:

  1. Ignoravo che l'avv. Ferro Canale fosse diventato pure professore... o forse l'introduzione gli attribuisce titoli che non gli spettano? Del resto un titolo in Italia non si nega a nessuno...

    RispondiElimina