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giovedì 24 settembre 2020

La presa di Porta Pia, la storia oltre la leggenda

Con qualche giorno di ritardo, un bell'articolo di un amico.
Sotto un tweet del modernista Enzo Bianche che si rallegra per Porta Pia....
Luigi

Ricognizioni, Paolo Gulisano, 23-9-20

20 settembre 1870: 150 anni fa si concludeva la Rivoluzione Italiana nota come Risorgimento con la presa di Roma, allora ancora uno Stato indipendente. Si concludeva la rivoluzione, ma con essa finiva anche lo Stato della Chiesa, il “Patrimonio di Pietro” nato secoli prima. Fu un evento drammatico per tutta la Cristianità, ma cento anni dopo un papa, Paolo VI, avrebbe detto che si era trattato di un intervento provvidenziale. La Chiesa aveva vissuto quell’evento come un dramma; la nuova Chiesa del 1970 riteneva giusto che fosse andata così. Oggi, con la Chiesa di Roma sempre meno libera e sempre più subalterna al mondo e ai suoi poteri, economici, politici, ideologici, forse questo giudizio potrebbe anche essere rivisto. 
Tuttavia, a 150 anni da quei fatti, ciò che sembra più importante ricordare è l’eroismo di chi si batté in difesa del papa, in difesa della Chiesa Cattolica aggredita e offesa. Un eroismo disinteressato, nobile, generoso, degno di altri tempi.

In quei giorni la macchina da guerra dello Stato italiano scatenò tutta la sua potenza contro la Città Santa. 60.000 uomini agli ordini del generale Raffaele Cadorna marciarono sull’obiettivo. Una divisione era comandata da Nino Bixio, il sanguinario braccio destro di Garibaldi, che sognava di realizzare nei confronti del papa la soluzione finale. Da parte italiana non vi fu alcuna formale dichiarazione di guerra, nessuna giustificazione ufficiale a un atto di belligeranza, cosa d’altronde che sarebbe stata difficile da farsi, dal momento che nessuna accusa sul piano del diritto poteva essere mossa alla Santa Sede per motivare le operazioni militari. Come scrisse un volontario irlandese, Patrick O’Clery, che lasciò delle interessanti memorie sugli avvenimenti del 1870, l’invasione fu un atto di brigantaggio regio.

Il 15 settembre venne presa Civitavecchia, e il corpo di spedizione italiano si trovò alle porte di Roma. Nei giorni seguenti il Comando temporeggiò in attesa di ordini ben precisi del governo: si doveva entrare in Roma, ma quando? Il giorno 18 Cadorna ricevette un telegramma: la data da consegnare alla storia era il 20 settembre, il giorno cioè in cui viene inaugurato l’anno sociale massonico, in corrispondenza dell’equinozio d’autunno. La setta pretendeva il proprio trionfo simbolico sulla capitale della Cristianità.

Il giorno 19 il papa era apparso in pubblico per delle celebrazioni all’Aracoeli e al Laterano, salutato da una grande folla che per l’ultima volta l’aveva acclamato al grido di Viva Pio IX papa e re. Nel pomeriggio, consapevole che ormai stava per consumarsi l’ultimo atto della tragedia, scrisse al Kanzler le sue disposizioni nel caso, ormai certo, di un attacco: “Signor Generale, ora che si va a consumare un gran sacrilegio e la più enorme ingiustizia, e la truppa di un re cattolico senza provocazione, anzi senza nemmeno l’apparenza di qualunque motivo cinge d’assedio la capitale dell’Orbe Cattolico, sento in primo luogo il bisogno di ringraziare Lei, signor Generale, e tutta la truppa nostra della generosa condotta finora tenuta, dell’affezione mostrata alla Santa Sede e della volontà di consacrarsi interamente alla difesa di questa metropoli. Siano queste parole un documento solenne che certifichi la disciplina, la lealtà, il valore della truppa al servizio di questa Santa Sede. In quanto poi alla durata della difesa, sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta, atta a constatare la violenza e nulla più, cioè di aprire trattative per la Resa ai primi colpi di cannone. In un momento in cui l’Europa intera deplora le vittime numerosissime, conseguenza di una guerra fra due grandi nazioni, non si dica mai che il Vicario di Gesù Cristo quantunque ingiustamente assalito, abbia ad acconsentire a qualunque spargimento di sangue. La causa nostra è di Dio, e noi mettiamo tutta nelle sue mani la nostra difesa. Benedico di cuore Lei Signor Generale e tutta la nostra truppa”.

Il tanto vituperato tiranno del Vaticano aveva deciso di rinunciare alla lotta a oltranza, al suo buon diritto a resistere, per salvare ancora una volta delle vite umane. Tuttavia, cosa ancora più importante, aveva anche deciso di non ripetere l’errore storico dei suoi predecessori fuggiti ad Avignone: Roma non sarebbe mai più rimasta senza papa. Non avrebbe lasciato la città, come pure egli stesso era stato indotto a fare nel 1849, consapevole che questo era l’auspicio del governo italiano e dei suoi amici internazionali: un’assenza che non sarebbe stata mai più colmata. La Massoneria si augurava di vedere il papa con la sua curia trasferito a Vienna, ridotto al rango di cappellano di Francesco Giuseppe, capo di un cattolicesimo sempre più ristretto geograficamente e accerchiato. Roma senza papa sarebbe stata epurata dal cattolicesimo e riportata ai suoi splendori iniziatici-pagani o illuminata dalla dea ragione o ancora incivilita finalmente dalla Riforma protestante. È noto l’episodio di Luigi Ciari, il primo civile entrato dalla breccia dopo la sgambata dei bersaglieri: si trattava di un valdese che trasportava un carretto di bibbie protestanti con a fianco un cane di nome “Pio nono”. Il 20 settembre doveva segnare l’alba radiosa di una nuova era che avrebbe conosciuto la fine del cattolicesimo, ma fu invece la prima occasione in cui la nuova Italia dovette sperimentare ciò che sarebbe diventato in seguito una sua prerogativa: una vittoria mutilata, per usare un termine caro al nazionalismo italico.

La battaglia finale era cominciata alle 5,10, con un furioso cannoneggiamento su Porta Maggiore e Porta Pia. Ben presto ci si rese conto che questo era il punto dove Cadorna intendeva sfondare. Nel frattempo, anche le artiglierie di Bixio cominciarono a sparare all’impazzata su Porta San Pancrazio, e molti colpi caddero su Trastevere e nei pressi della Città Leonina. Alle 7 e 20 le truppe del Genio riuscirono ad aprire una breccia nelle mura; immediatamente le divisioni di fanteria e i battaglioni di bersaglieri vennero fatte convergere in prossimità delle mura, dalle quali i difensori pontifici, la compagnia Berger a nord della breccia e la compagnia O’Reilly a Porta Pia, iniziarono un intenso fuoco di fucileria, inchiodando gli italiani. Alle 9 e 35 tuttavia Kanzler convocò un estremo Consiglio di Guerra, e constatato lo stato delle difese nei vari punti, soprattutto in quello della breccia, nonché la manifesta intenzione degli attaccanti di non risparmiare alla città uno spaventoso bombardamento, in conformità alle indicazioni date la sera prima dal papa si decise la capitolazione.

Il Comitato di difesa diramò in tutta la città l’ordine di inalberare la bandiera bianca e di inviare parlamentari al comando italiano. Alle 9 e 45 una grande bandiera bianca sventolò sulla torretta del Castro Pretorio, ma Cadorna la ignorò deliberatamente. In seguito, dirà di non essere riuscito a scorgerla, ma la realtà era piuttosto che Roma doveva essere presa con la forza, meglio ancora se con spargimento di sangue, in una sorta di rito iniziatico. 

Le colonne dei bersaglieri vennero quindi eccitate all’attacco dallo stesso Cadorna e dai suoi diretti collaboratori, i generali Enrico Cosenz e Mazè de la Roche, irrompendo nella città nel silenzio degli zuavi pontifici. Nonostante che i volontari del papa rimanessero immobili, con le armi al piede, gli ufficiali italiani fecero aprire su di loro il fuoco. Nonostante la bandiera bianca sventolasse da diversi minuti, gli zuavi furono costretti a battersi per difendersi. Nel frattempo, Bixio continuò a far tirare colpi sui quartieri adiacenti a San Pietro. Inutilmente gli ufficiali pontifici protestarono energicamente contro tali violazioni delle norme militari e civili: continuarono gli scontri, le uccisioni e le violenze sui prigionieri.

Dopo la resa iniziò per le vie di Roma la caccia al soldato pontificio da parte di 4.000 camicie rosse entrate in città a seguito delle truppe. Per diversi giorni, oltre agli zuavi, anche semplici civili e sacerdoti vennero barbaramente assassinati. Non si conobbe mai il numero ufficiale delle vittime della “vittoria” né i danni materiali provocati dai saccheggi. “Lasciate che il popolo si sfoghi” aveva detto Cadorna davanti alle proteste. Un giovane zuavo anglo-irlandese, Daniel Curtin, venne massacrato di botte al punto che dopo una degenza in ospedale di 44 giorni dovette essere trasferito in un istituto per malati di mente. I 4.800 prigionieri considerati di cittadinanza italiana (emiliani, marchigiani, veneti, lombardi eccetera), e quindi accusati di tradimento per aver imbracciato le armi contro il tricolore, vennero deportati nelle fortezze di Alessandria, Mantova, Peschiera e Verona, dopo un viaggio di tre giorni con una sola razione di pane e tra insulti, sputi, sevizie e la detenzione in condizioni volutamente durissime nelle carceri del “Re Galantuomo”.

I 4.500 volontari stranieri furono espulsi: i francesi imbarcati a Civitavecchia per Marsiglia; canadesi, inglesi, scozzesi e irlandesi spediti in Inghilterra. I belgi e gli olandesi furono tradotti alla frontiera svizzera e lasciati liberi di proseguire a piedi per i loro paesi. Prima della partenza, il giorno 21, Kanzler volle passare in rassegna i suoi uomini radunati in Piazza San Pietro. In una atmosfera di grande commozione l’ufficiale tenne il suo ultimo discorso: “Soldati, è giunto il momento in cui dobbiamo separarci ed abbandonare il servizio di Sua Santità che più di ogni altra cosa ci stava a cuore. Roma è caduta, ma grazie al vostro valore, alla vostra fedeltà, alla vostra ammirabile unione è caduta onorevolmente. Taluno forse si lagnerà che la difesa non siasi spinta più oltre, ma una lettera di Sua Santità che in seguito sarà pubblicata, vi spiegherà il tutto. Questa testimonianza dell’Augusto Pontefice sarà di conforto a tutti e il più bel compenso che nelle attuali tristi circostanze potevamo ottenere. Debbo infine farvi conoscere che venendo per forza maggiore dispersa l’armata, Sua Santità si è degnata di sciogliere tutti dal loro giuramento di fedeltà. Addio, cari commilitoni, ricordatevi del vostro capo il quale serberà indelebile e cara memoria di voi tutti”.

Infine, l’ultima speranza di quell’esercito di nuovi crociati che aveva lasciato tutto per venire a Roma a combattere, a soffrire e a morire per la difesa del soglio di Pietro fu soddisfatta: il papa prigioniero apparve ad un balcone per impartire la solenne benedizione. Così un testimone oculare descrisse quel momento intenso e memorabile: “Era già suonata l’assemblea e stavamo sulle righe, quando alcune voci dal centro della piazza gridarono: il Papa, il Papa. In un momento cavalieri e pedoni, ufficiali e soldati, rompono le file e corrono verso l’obelisco, prorompendo in un grido turbinoso ed immenso di Viva Pio IX, Viva il Papa Re, misto a singhiozzi, gemiti e sospiri. Quando poi il venerato Pontefice, alzate le mani al Cielo, ci benedisse, e riabbassatele, facendo un gesto come di stringerci tutti al suo cuore paterno, e quindi, sciogliendosi in lacrime dirotte, si fuggì da quel balcone per non potere più sostenere la nostra vista, allora si che veruno più potè far altro che ferire le stelle con urla, con fremiti ed esecrazioni contro coloro che erano stati causa di un tanto cordoglio all’anima di un si buon padre e sovrano!”. 

Si abbracciarono e si lasciarono per sempre i giovani esponenti dell’Europa migliore: i vandeani dell’ancor fiero Charette e i tirolesi, gli irlandesi e i bretoni e tutti coloro che avevano assistito in quei giorni ad un evento storico fino a poco tempo prima assolutamente impensabile: la fine del potere temporale della Chiesa. Tornarono nei loro paesi, a loro volta martoriati per la fede, con la consapevolezza di quello che era accaduto, con nella memoria la visione dell’odio ideologico scatenato contro la croce di Cristo.


 


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