Luigi
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Il compositore liturgico
Il compositore di musica per la liturgia, specialmente oggi, si trova a dover affrontare sfide non da poco. L’attuale bagaglio culturale (anche se esso è estremamente vario e variabile, molto più che nel passato) dei fedeli che frequentano parrocchie e comunità varie, richiede risposte che non possono essere eluse, a rischio di non essere comunicativi. Senza dimenticare la fondamentale funzione educativa, in tutti i sensi, che la Chiesa dovrebbe svolgere.
Una cultura frastagliata
Non è, e non sarà probabilmente più, come nel passato, in cui la scena culturale non era così multiforme e frastagliata. Mi spiego: i materiali tecnici a cui i compositori attingevano erano molto simili, anche se poi ciascuno li plasmava con il suo talento. Se ascoltate dei mottetti di autori rinascimentali, vi rendete conto che la tecnica di base è la stessa anche se varia il carattere, lo stile, la personalità del pezzo. Ma ancora nel pre-concilio, le varie composizioni per la liturgia si differenziavano sicuramente per la personalità dei compositori e per alcuni indubbi stilemi compositivi personali, ma il linguaggio armonico di base e, vorrei dire, “l’ambientazione musicale” delle varie musiche era la stessa (naturalmente ogni generalizzazione nasconde delle insidie…). Oggi i linguaggi sono estremamente più diversificati, non c’è dubbio. Soprattutto, ce ne sono molti nuovi. E non bisogna dimenticare che, specie nel nostro paese, la crisi della cosiddetta “musica classica” (crisi complessa e su cui non vorrei qui dilungarmi) ha fatto in modo che l’influenza culturale di altri linguaggi (pop, rock, melodico…) divenisse socialmente rilevante. E questo non da oggi, ma almeno da diverse decine di anni. Questo non riguarda solamente la musica, ma è un discorso che riguarda anche i testi, il modo in cui oggi la gente recepisce un testo cantato, vorrei dire che riguarda in definitiva il modo in cui una persona recepisce un messaggio di qualunque natura esso sia. La televisione, internet, la cultura fortemente visiva in cui siamo immersi hanno modificato abitudini e modi di vivere tradizionali e ci hanno posto di fronte a nuove sfide, anche a livello della comunicazione. La liturgia, in qualche modo, ne deve tenere conto. Essa non vive in qualche mondo distaccato o etereo, ma essa opera qui e oggi, in mezzo a popoli di culture lontane e diversificate. Certo, non bisogna pensare che la liturgia deve vendersi a una cultura con cui non ha nulla a che fare. Ma non può ignorare che le persone che partecipano alle celebrazioni, sono persone che provengono da culture oramai così diverse.
La mia banda suona il Rock? Non proprio…
Ma in che modo questo interessa un compositore per la liturgia? Si deve mettere a comporre in stile pop o rock? Non penso questo. Penso che però deve essere consapevole che la persona che dovrebbe cantare qualche sua melodia, fino a qualche ora prima era immersa e coinvolta in tutt’altra atmosfera e che, quindi, il salto di “decodifica” che gli si chiede potrebbe non essere semplice. Ecco l’importante funzione educativa che deve svolgere la Chiesa.
Vediamo cosa dice la Sacrosanctum Concilium a questo proposito: “121. I musicisti animati da spirito cristiano comprendano di essere chiamati a coltivare la musica sacra e ad accrescere il suo patrimonio. Compongano melodie che abbiano le caratteristiche della vera musica sacra; che possano essere cantate non solo dalle maggiori “scholae cantorum” ma che convengano anche alle “scholae” minori, e che favoriscano la partecipazione attiva di tutta l’assemblea dei fedeli. I testi destinati al canto sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla sacra Scrittura e dalle fonti liturgiche.” Questo paragrafo 121, che chiude il sesto capitolo della costituzione conciliare, ci presenta una serie di questioni serie e da ponderare attentamente. Bisogna anche mettersi un poco in prospettiva e considerare che è un testo scritto più di 50 anni fa, in una situazione che non è la nostra di oggi e che quindi deve essere letto anche alla luce di quanto si è poi mutato. Questo non significa, attenzione, che il testo può e deve essere stravolto, ma va inquadrato in un mutamento significativo della società pur se la sua sostanza deve rimanere salvaguardata.
“I musicisti animati da spirito cristiano comprendano di essere chiamati a coltivare la musica sacra e ad accrescere il suo patrimonio”
Ho qui volutamente isolato quel “comprendano”. Ma che cosa? Che hanno una duplice chiamata: coltivare la musica sacra e accrescerne il patrimonio con nuove composizioni che, rimane implicito, siano degne di stare alla pari delle composizioni che ne formano il già citato “patrimonio”. Chi deve fare questo? I musicisti animati di spirito cristiano. Ora, su queste poche righe si giocano liti pluriennali, tra chi dice che queste costituiscono la prova che la SC non ha mai voluto mettere da parte il “patrimonio della musica sacra” e chi vede in quell’”accrescere” l’invito ad aprirsi a linguaggi più vicini alla sensibilità di un certo mondo moderno. La mia opinione e che innanzitutto bisogna fare un po’ di chiarezza sui termini. E comincerei proprio con quelle due parole che tanto hanno fatto combattere e dividere: “musica sacra.”
Il sacro, innanzitutto
Non sarà sbagliato farci un’idea più precisa su quello che oggi le moderne scienze identificano come “sacro”, termine con cui il compositore di musica per la liturgia si scontra e incontra continuamente. Termine forse anche abusato per far passare istanze che con il “sacro” poco hanno a che fare. Innanzitutto dare un senso assoluto del “sacro” è culturalmente difficile: “La nozione e l’esperienza del sacro sono talmente legati all’orizzonte di comprensione religiosa e culturale che una società ha di se stessa e al contesto storico con i vari riflessi personali e sociali, che il voler prescindere da questi legami per poter isolare un significato unitario di ‘sacro’, non soggetto a variabili, comprometterebbe già sul nascere la volontà di dire qualcosa di serio su questa categoria religiosa o pre-religiosa.” (A. N. Terrin, « Sacro » in Nuovo dizionario di liturgia a cura di Domenico Sartore e Achille M. Triacca, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pag. 1217). La stessa definizione non molto aiuta per una maggiore chiarezza: “Un primo rilievo di scienza delle religioni, infatti, riconosce nel sacro ciò che è separato, che si nasconde, che si deve sottrarre alla vista, che è ‘differente’ e straordinario secondo l’etimologia sacer (latino), o qadosh (ebraico), o haram (arabo), mentre il profano è ciò che si trova davanti (pro-) al tempio (fanum) e cioè fuori dall’ambito del sacro. Ora, questa peculiarità intrinseca, questa riservatezza rende ulteriormente difficile una chiarificazione esauriente del significato del sacro. Come chiarire ciò che di sua natura appare non chiarificabile? Come dire del sacro se deve mantenere la sua intimità ‘differente’, ‘straordinaria’, ‘altra’?” (A. N. Terrin, op. cit., pag. 1217). Pur essendo questo concetto, quindi, da maneggiare con cautela, esso esprime la presenza di qualcosa che è “altro” rispetto alla realtà tangibile. Quindi, la liturgia è il luogo del sacro: “Soltanto dove c’è esperienza del sacro vi è ritualità.” (A. N. Terrin, op. cit., pag. 1227). Ma, attenzione, il sacro richiede un certo pudore, non si addomestica facilmente. Proprio perché è un concetto che può sembrare sfuggente e che va oltre l’orizzonte culturale della nostra religione può prestarsi a molteplici interpretazioni. Non hanno forse un’atmosfera “sacra” le partite di calcio, le sfilate, certe trasmissioni televisive, fatte di riti istituzionalizzati e “officiate” da figure che agli occhi di molti hanno qualità che li innalzano rispetto a quello che è l’uomo comune? Quindi il termine a volte è ambiguo e può essere frainteso: “Nel cristianesimo non è possibile ammettere una sacralità assoluta (di carattere luminoso, mitico, cosmovitale ecc.) che non distingua la realtà sacra dal divino; si può ammettere solo una sacralità relativa che rispetti la trascendenza e si ponga come mediazione ed irraggiamento del divino per mezzo di riti, persone, luoghi, tempi, cose che mettono l’uomo in contatto con Dio e perciò vengono chiamati, con significati non univoci, ‘sacri’. La stessa opposizione sacro-profano, affermata a livello storico religioso, non può render conto dell’originalità cristiana, che è determinata dall’incarnazione del Verbo.” (D. Sartore, « Sacro /Prospettive teologico-liturgiche» in Nuovo dizionario di liturgia a cura di Domenico Sartore e Achille M. Triacca, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pag. 1229). Insomma, secondo alcuni autori è pericoloso voler farsi padroni del sacro in quanto il termine è “non univoco”. Insomma, sì al sacro ma attenzione a non assolutizzare e “sacralizzare” forme espressive della cultura umana che sono un mezzo per noi di santificazione, se ben comprese e ben usate, ma non ne sono il fine. Infatti, “va sempre evitato il rischio di un sacro ‘cosista’, che diventa fine a se stesso, o di un sacro puramente ‘cerimoniale’, che va continuamente vagliato secondo il criterio di una vera significatività cristiana e di una concreta intelligibilità. Anche in questo – possiamo concludere con Y. Congar – “non avremo mai finito di divenire cristiani, liberi cittadini di un popolo messianico, in cammino su questa terra verso il Santo dei santi, al quale, già fin d’ora, abbiamo spiritualmente accesso.”” (D. Sartore, op. cit., pagg. 1229-1230).
Musica “sacra”?
Siamo nel 1971, a pochi anni dalla Sacrosanctum concilium. Una prestigiosa rivista liturgica francese, La Maison Dieu, pubblica un interessante numero sulla musica liturgica, facendo il punto sulla situazione nell’immediato post-concilio. In esso troviamo vari interventi sull’argomento e si nota specialmente la presenza di scritti elaborati da appartenenti ad una associazione di studio sulla musica e la liturgia costituitasi a Lugano nel 1966 e che molta influenza avrà (e questo lo si deve ammettere, che piaccia o no) sul cammino della riforma liturgica in molti paesi del mondo: Universa Laus. La rivista è certo molto interessante per gli addetti ai lavori ed è per noi ancora più interessante proprio a causa di un articolo specifico, a firma di Nicolas Schalz: “La nozione di “musica sacra”. Una tradizione recente.” (Nicolas Schalz, La notion de “musique sacrée”. Una tradition recente, in La Maison Dieu, n.108, 1971, pagg: 32-57). Cosa ci dice questo articolo? Vediamo velocemente. Dice che la nozione di “musica sacra” è “giovane”. Il termine rimonterebbe al diciassettesimo secolo, nato in seno al protestantesimo tedesco, anche se la sua precisazione concettuale non sarà che nel diciottesimo secolo. Per la prima volta il termine apparirebbe nell’opera Syntagma musicum (1614) di Michael Praetorius (1571-1621) . Il primo tomo di questo lavoro prenderà il titolo: “De musica sacra et ecclesiastica”. L’autore del nostro articolo asserisce che questa definizione servirà esclusivamente a delineare una differenza pratica tra musica sacra e profana, anche se poi non servirà a definire una differenza di stili tra i due repertori. Lo sviluppo del termine si intreccerà anche con le evoluzioni stilistiche della composizione musicale, segnatamente nelle lotte, nel periodo barocco, tra i sostenitori della “prima prattica” e la “seconda prattica” (vista dagli avversari come uno stile compositivo che tradiva la “gravità” delle antiche composizioni e che avrà notevoli sviluppi grazie soprattutto alla musica profana) ai tempi di Claudio Monteverdi. Ancora nel 1749, nell’enciclica Annus qui di papa Benedetto XIV, la nozione di “musica sacra” non sembra essere preminente e infatti vi è pochissimo impiegata. La stessa nozione si affermerà con forza nel Motu proprio “Tra le sollecitudini” di Pio X del 22 novembre 1903, anche in virtù dell’elaborazione che della stessa nozione si farà all’interno del vasto movimento riformistico, nato in Germania nella metà del diciannovesimo secolo e che verrà conosciuto meglio come “Movimento ceciliano”. A questo punto Schalz espone le sue tesi sull’elaborazione del termine “musica sacra” nell’ambito del movimento ceciliano e che qui, per ragioni di spazio, dobbiamo forzatamente tralasciare, pur se interessanti. E tralasciamo anche le sue interessanti valutazioni sul Motu proprio di cui sopra ma che vi invito a leggere direttamente nell’articolo. La conclusione dell’autore è che la nozione “musica sacra” ha un carattere “evolutivo e relativo” e che non può essere usata per assolutizzare repertori o atteggiamenti stilistici (La parte che per ragioni di spazio abbiamo dovuto saltare, analizza il Motu proprio di Pio X alla luce delle istanze del Movimento ceciliano e ne mostra una sorta di reciproca influenza. Visto che questo argomento è molto delicato, anche per motivi contingenti del presente, invito chiunque fosse interessato a procurarsi l’articolo e a leggerselo con calma e a fare poi le proprie valutazioni personali in piena e assoluta libertà. Un altro importante studio da non tralasciare è quello di Gino Stefani, “Il mito della ‘musica sacra’: origini e ideologia” in “Nuova Rivista Musicale Italiana” X, 1976. Vedi anche una interessante relazione tenuta da Felice Rainoldi alla giornata di studi dal titolo “Musica e spiritualità” tenutasi a Torino il 28 novembre 2000. La relazione ha il seguente nome: “Musica “amica templis”. Quali templi? Quale amicizia?”).
Dunque, con l’aiuto di questo articolo di una cinquantina di anni fa che abbiamo troppo velocemente sintetizzato, possiamo vedere che alcuni usano qualche cautela nell’uso della nozione “musica sacra”, con la consapevolezza che il contenuto con cui spesso ci viene presentata non è dogmatico ma, secondo questi, relativo a situazioni storiche ben precise. Il cammino che si è fatto negli ultimi decenni per precisare il ruolo della musica nella liturgia ha voluto meglio focalizzare, anche dal punto terminologico, la funzione rituale che essa svolge. Ma da parte di alcuni, il parlare di “musica sacra” sembra collegarsi ad una realtà intoccabile, fatta di precisi indirizzi stilistici e repertori che non possono essere elusi, pena lo scadimento nel “profano”. Quindi la liturgia non è il luogo vivo dove lo stile musicale prende forma, ma il contenitore di forme e stili (meglio se del rassicurante “passato”) che vengono visti in opposizione totale con forme e stili “altri”, appartenenti alla sfera mondana. Un compositore inglese molto apprezzato ed eseguito nel mondo anglosassone, Paul Inwood (anche lui appartenente ad Universa Laus…) ci da questa opinione: “Questo dibattito si estende ad oggi dalla metà del diciannovesimo secolo. Fino ad allora, la musica usata in chiesa era stata al passo con quello che si usava nel mondo secolare, rifletteva la pratica musicale secolare. Effettivamente, essa aveva precorso pioneristicamente nuove vie per lo sviluppo di forme rinnovate di espressione musicale, che il mondo secolare aveva copiato. Quello che è accaduto nel periodo di Dom Prosper Guéranger in Francia e con il movimento Ceciliano in Germania è stata una confusione tra idioma e valore. Non sono riusciti a vedere che anche nel glorioso repertorio del canto gregoriano ci sono quantità ampie di canto piano che sono in effetti abbastanza mediocri. Non sono riusciti a vedere che oltre ai capolavori polifonici dei grandi del sedicesimo secolo, esiste un corpus ampio di scrittura polifonica scadente che è francamente tediosa e annoiante. La sistemazione di questi due stili o idiomi su di un piedistallo non ha necessariamente garantito la qualità che stavano cercando. In effetti questo potrebbe condurre alla sterilità, ad adorare lo stile come se fosse in una teca. Questa era un’epoca dove domande come “per che cosa è la musica nella liturgia?” o “la musica che utilizziamo scaturisce dal rito in se?” non erano ancora fatte con la stessa comprensione che abbiamo oggi. Dobbiamo riconoscere che c’è musica buona, cattiva e mediocre in tutti gli stili ed idiomi che sono attualmente in uso e lo stesso è vero per la musica usata nelle nostre chiese. Non è lo stile in sè che determini la qualità, ma l’arte del compositore all’interno di quello stile ed il contesto in cui la musica è usata – un fattore importante che mai realmente è stato considerato prima di SC 112.” (Aurelio Porfiri a colloquio con Paul Inwood. Tra tradizione e innovazione, pubblicato nell’anno 2003 nella rivista La vita in Cristo e nella Chiesa).
Una musica per la liturgia oggi
Molto modestamente, io credo che la musica per la liturgia si distingue non tanto per la sua appartenenza ad uno stile o a un epoca, ma per la sua appartenenza a quello che il rito le chiede in quel momento, anche storico. Se nel Rinascimento il Sanctus richiedeva molto più tempo perché il sacerdote intanto recitava alcune preghiere, oggi un Sanctus molto lungo (e per di più se affidato alla sola “Schola”) sarebbe una contraddizione con quanto il rito in vigore attualmente pretende. Visto che la musica esiste in funzione del rito, e non il contrario, questo dovrebbe spingere molti compositori a riflettere sul loro ruolo nell’accrescere questo patrimonio. Significherà coazione a ripetere per paura dell’inquieto presente? Si preferirà rifugiarsi nel rassicurante passato, di cui si elaborano solo le cose che ci tranquillizzano, tralasciando quanto di non piacevole vi si trovava? Quando penso al mio personale passato, penso molto spesso ai soli momenti felici e mi viene da pensare: “come era bello quando….”. Ma se sono onesto con me stesso devo riconoscere anche quanto di spiacevole c’era. E’ solo che il passato è, appunto, passato, non ci presenta inconvenienti o paure perché esse sono già risolte nel marasma della storia e vivono inerti nella tomba del ricordo. Ma il presente, certo che il presente ci fa paura, l’oggi incerto e forse anche deludente ci opprime. Lo cambieremo usando categorie adatte a epoche passate? Non saranno i compositori moderni come quei capitani coraggiosi che si buttano in mare e sfidano la tempesta? O il vero compositore di “musica sacra” è solo colui che accetta modelli precostituiti, anche se concepiti per progetti liturgici non più attuali? Sono bravo se compongo un mottetto alla maniera rinascimentale perché così dimostro una forte tecnica o sono bravo se compongo un bell’introito in cui partecipano Schola, assemblea, strumentisti, dimostrando la mia forte e definitiva partecipazione al rito nell’oggi? Certo, posso fare tutte e due le cose.
La musica nella liturgia è strumento di santificazione del fedele (e, si spera, di chi la fa), non è un repertorio proveniente da realtà “mitiche” ma sforzo del lavoro umano, mediante il quale l’uomo cerca la sua salvezza. Quindi la musica liturgica diviene via di santificazione. Dire musica “sacra” non è sbagliato di per sé, anche se può condurre alcuni a mitizzare e assolutizzare qualcosa che non è né mitico, né assoluto. Certo non dimentico che esiste anche movimento molto forte che si oppone alla nozione di “musica sacra” in moto preconcetto, come se essa fosse il male assoluto da combattere. Questo è certo profondamente sbagliato e io sono in completo disaccordo con quanto gli alfieri di questo movimento vanno portando avanti, una musica per la liturgia slegata dal passato e dalla tradizione, una musica inventata per un “oggi” a sua volta mitico. Quindi questo vizio di mitizzare i periodi storici non è soltanto da ascrivere ad alcuni che sostengono una certa nozione di “musica sacra”, ma anche ai partigiani di un “oggi” che non può avere consistenza.
Lo spirito cristiano
Già, lo spirito cristiano. No, non l’ho dimenticato. È solo che anche in queste due parole ognuno ci mette quello che vuole. Ma per me un musicista che lavora per la liturgia ha lo spirito cristiano quando fa sua una delle più belle frasi di Gesù: “io non sono venuto per essere servito, ma per servire.” Il musicista non cerca gloria e onori, ma la sua gloria e il suo onore è quello di servire la celebrazione e di aiutare il popolo riunito nel nome di Cristo a conoscerlo ed amarlo sempre più. Quindi le proprie capacità e conoscenze vanno messe al servizio dello scopo maggiore, che è quello di servire la celebrazione (“In generale è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella.” Questo è sempre il famoso e spesso impropriamente sbandierato Motu proprio di san Pio X…). Noi dovremmo sempre ripeterci che dobbiamo servire la Chiesa e non servirci della Chiesa. Mi hanno riferito tempo fa di un convegno, in cui un musicista ha inveito contro il concilio “colpevole” di aver estromesso la “musica sacra” dalle celebrazioni. Ma il concilio questo non lo ha mai fatto e non era suo primo scopo quello di difendere la “musica sacra”. Il suo scopo era quello di aggiornare alcune istituzioni della Chiesa che risentivano un po’ del tempo che passava; qualcosa, nella forma, si è sacrificato, ma non si era inteso sacrificare la sostanza, anche se poi questo si è fatto. Stabilito che la sostanza di una celebrazione non è la “musica sacra” (inteso come repertori del passato immutabili e indiscutibili) si può discutere di cosa veramente il concilio chiedeva. La musica liturgica costituisce parte integrante della liturgia solenne e la riforma liturgica ci chiede anche qui di fare uno sforzo di aggiornamento che, senza eliminare quanto del patrimonio del passato si può ancora impiegare (e, se fatto con intelligenza e misura, da impiegare c’è ancora moltissimo), ci porti a celebrare con lo stesso senso di dignità e bellezza che avevano i nostri padri. Così si serve veramente la Chiesa, non nascondendosi dietro la propria “cultura”, usandola come una barriera che mi divide dagli altri (il “sacro” come separazione) piuttosto che come una porta che apre agli altri dimensioni sconosciute (il “sacro” come partecipazione).
Parlando del concilio, argomento oggi al centro di tanti dibattiti, non possiamo negare che esso deve veramente essere esaminato criticamente. Infatti, dal concilio sono partiti tanti degli impulsi che hanno portato anche alla crisi attuale della Chiesa, crisi enorme, crisi direi spaventosa. Crisi che non va letta come un prodotto di qualcosa accaduto recentemente, ma va letta come risultato di un movimento precedente al concilio e che lo stesso, indirettamente, ha favorito. Si deve poter parlare del concilio, senza paura. Bisogna stare attenti a coloro che pretendono quasi “dogmatizzare“ la comprensione di questa assise ecumenica, come se essa vada sottratta ad una valutazione storica per preservare certi equilibri dei decenni recenti.
“Compongano melodie che hanno le caratteristiche della vera musica sacra”
Dunque. Per capire quali devono essere le caratteristiche di queste melodie, cioè quelle caratteristiche che le fanno essere apparentate alla “vera musica sacra” mi voglio rifare proprio al solenne Motu proprio di san Pio X del 1903 già citato sopra. Egli afferma nel primo capitolo, al punto due, che: “La musica sacra deve per conseguenza possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità. Deve esser, santa, e quindi escludere ogni profanità, non solo in sé medesima, ma anche nel modo onde viene proposta per parte degli esecutori. Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull’animo di chi l’ascolta quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte di suoni. Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all’udirle debba provarne impressione non buona.” Dunque le caratteristiche richiamate sono essenzialmente tre: santità, bontà di forme e universalità. Bisogna vederle con un attimo di calma. La santità, anche vista nell’ottica di cui sopra, vuol dire che quelle melodie saranno anche strumento di santificazione per coloro che partecipano alla celebrazione. Sono dette “sante” in quanto “santificanti”. Quindi sarà musica “santa” se terrà conto delle esigenze rituali in cui è inserita, proprio perché queste la renderanno più efficace. Questo è richiesto anche dalla bontà delle forme, non solo forme artistiche, ma bontà di forme artistico-rituali. Certo la tecnica deve essere conosciuta da chi fa musica per la liturgia, ma essa deve essere subordinata a quanto il rito chiede in quel preciso momento. Se faccio un Gloria pieno di contrappunti difficilissimi ma che non è ritualmente accettabile, non corrispondo alla precisa richiesta fatta dalla nozione “bontà di forme”. Universalità ha certo un significato diverso da quello che poteva avere 100 anni fa. Io direi che esso significa oggi che, qualunque siano le inflessioni culturali di un determinato popolo, esse devono essere subordinate a caratteristiche rituali della musica per la liturgia molto precise. Insomma, non avrò scandalo se sento un canto con un particolare “mood espressivo” tipico di un certo popolo, se quel canto aderisce pienamente in quella determinata chiesa e cultura alle esigenze del rito inscritte nelle esigenze della vera arte cattolica.
L’esperienza del canto gregoriano
Non sarà infruttuoso, come detto in precedenza, per il compositore di musica liturgica, il continuo riferimento al canto tradizionale della Chiesa romana: il canto gregoriano. Esso è veramente modello di composizione liturgica. In esso la melodia sposa il testo nella forma più intensa e profonda. Due illustri studiosi della materia, Luigi Agustoni e Johannes Berchmans Goschl, ci offrono questa bella meditazione: “Il canto gregoriano vive della parola. Più esattamente, partecipa della funzione della parola in quanto costitutiva di un concreto contesto liturgico. Infatti è il contesto liturgico ad originare e determinare una tipica strutturazione formale. Dalla parola ritualmente contestualizzata derivano le diverse forme dei canti e dipendono i relativi stili musicali. Qui sta il fondamento di quella differenziazione stilistica e morfologica che, ad es., si individua tra i canti che sono finalizzati ad accompagnare un rito (Introito e Communio) ed un Graduale, chiamato invece a sostenere, nella liturgia della Parola, la funzione di annuncio e di risposta.
La parola è, in definitiva, la forza creatrice del complesso evento acustico-musicale dei canti; i neumi ne sono l’espressione pittografica.” (Luigi Agustoni – Johannes Berchmans Goschl, “Introduzione all’interpretazione del canto gregoriano – I principi fondamentali”, Edizioni Torre d’Orfeo, Roma 1998, pag. 30).
Quindi le melodie della musica per la liturgia devono sgorgare dal testo sacro come da limpida sorgente.
“Che possano essere cantate non solo dalle maggiori “scholae cantorum” ma che convengano anche alle “scholae” minori, e che favoriscano la partecipazione attiva di tutta l’assemblea dei fedeli”
Qui si è di certo frainteso lo spirito di questa affermazione. Molti impugnano questa parte della SC, come se volesse dire che la musica liturgica doveva essere oramai ridotta a melodie “sempliciotte”, evitando una tecnica compositiva più raffinata. Ma in realtà, tutto il paragrafo smentisce fortemente questa interpretazione. Prima, come abbiamo visto, si è detto che bisogna conservare ed incrementare il patrimonio della musica sacra; poi qui si dice che queste nuove composizioni non devono essere solo limitate alle possibilità delle formazioni corali più agguerrite, ma convenire anche alle compagini corali con possibilità ridotte. Già, ma come è possibile? Chi ha esperienza di corali parrocchiali, sa che la differenza che ci potrebbe essere tra una corale “agguerrita” e una modesta può essere anche molto grande. Esistono corali parrocchiali che hanno mezzi tecnici veramente modesti (e in un paese dove non è diffusa la cultura del canto corale, come lo è invece nei paesi di cultura anglosassone, sono più di quello che si pensa). La soluzione adottata da qualcuno è stata quella di appiattire tutto sulle corali con mezzi modesti. Io, personalmente, non credo che questa sia una soluzione adeguata e che non corrisponde allo spirito dell’istanza conciliare. Come fare?
Un problema di comunicazione?
Ci renderemo conto che può trattarsi anzitutto di un problema di comunicazione, della maniera in cui il compositore si relaziona all’assemblea per cui scrive. Intanto ascoltiamo l’opinione di un rappresentante significativo del mondo anglosassone, Paul Inwood, già ascoltato sopra: “L’arte del compositore è, a mio parere, uno dei fattori determinanti per stabilire se la musica riuscirà, senza riguardo a quale stile musicale si sta usando. Se un compositore ha buone basi nella tecnica compositiva (armonia e contrappunto compresi), anche la qualità della musica sarà buona in qualsiasi stile sarà scritta. Purtroppo, molti compositori oggi non hanno queste solide basi, specialmente nell’armonia. Ma l’arte del compositore non può essere di per sé garanzia di buona qualità – infatti alcuni compositori scrivono spesso musica di alta qualità che è tuttavia completamente inadatta per essere usata nel rito, perché non sono riusciti interamente a considerare il contesto e per che cosa è la musica. I compositori colti, per esempio, possono scrivere musica che è eccellente in sè ma l’assemblea non può associarsi a cantarla perché il compositore non sa (o non si cura di sapere) come le menti musicali della gente ordinaria funzionano.” (Aurelio Porfiri a colloquio con Paul Inwood, op. cit.). Quest’ultima frase ci da lo spunto importante per dire una cosa importante: cosa fa il musicista che compone per la liturgia? Egli è una sorta di mediatore culturale tra la bellezza e la profondità del rito e l’assemblea celebrante. Egli “decodifica” con il codice chiamato “musica” funzioni e messaggi del rito e li trasmette all’assemblea. Ma l’assemblea non è un ammasso indistinto e a-storico. Essa vive nell’oggi sociale e culturale (da non mitizzare, come detto). Dunque chi decodifica deve conoscere il “materiale” che deve decodificare, deve conoscere la tecnica del codice che usa, ma deve conoscere anche i destinatari della decodificazione. Insomma, non è che si compone per assemblee perse nel tempo, ma per gente che vive nell’oggi, si è formata in quest’atmosfera culturale e che segue leggi di apprendimento influenzate dalla cultura massmediatica in cui è, non dimentichiamolo mai, totalmente immersa. Questo corrisponde alle basilari leggi della comunicazione: “La seconda ‘condizione’ per cui possa realizzarsi una comunicazione umana autentica è che siano in atto processi di codificazione e decodificazione adeguati. Con questa affermazione si prende contatto con un settore molto ampio, che conviene analizzare per parti. Precisiamo innanzitutto che per ‘codificazione’ e per ‘decodificazione’ si intende il doppio processo, di cui vive la comunicazione, attraverso il quale, da una parte, si affidano contenuti mentali ad elementi percepibili (scritture, gesto, parola, immagini…); dall’altra, partendo da queste tracce sensibili, si ricostruiscono i significati ad esse affidati: per indicare ‘divieto di transito’ metto un certo segnale stradale (codificazione), da questo segnale l’autista capisce che è proibito passare.” (F. Lever, Rilevanza della messa come comunicazione in: Nuovo dizionario di liturgia a cura di Domenico Sartore e Achille M. Triacca, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pag. 1128). E’ lo stesso caso che riguarda un sacerdote che deve tenere un omelia: “Di fronte al sacerdote c’è un’assemblea che fatica a porsi sulla lunghezza giusta per godere dell’ascolto. E’ gente bombardata da centinaia di messaggi per tutta la settimana. Gente che, inoltre, ha imparato a “cambiare canale”, non solo quando una questione non la interessa, ma soprattutto quando il linguaggio non raggiunge la lunghezza d’onda dell’interlocutore.” (Manlio Sodi, Il rito e il messaggio, Piemme, Casale Monferrato 2000, pag. 32). Insomma, il “messaggio” mi sembra chiaro…e se questo era vero 20 anni fa, al tempo di questo testo, lo è molto di più oggi.
L’esperienza anglosassone
Non sarà sbagliato tenere presente l’esperienza anglosassone riguardante questo punto. Esperienza che, non dimentichiamolo, parte spesso dall’esigenza di fare cantare tutti i fedeli riuniti nella celebrazione, anche grazie all’esperienza forte in questo senso delle altre confessioni cristiane, che molto ha influito sulla prassi cattolica. Prendete un corale: esistono da loro molte possibilità di amplificazione, che permettono di far cantare uno stesso corale dall’assemblea sola accompagnata dall’organo, con l’aggiunta della realizzazione a 4 o più voci da parte di una Schola, con il supporto di strumenti, con l’aggiunta di un discanto dei soprani (solitamente sempre all’ultima strofa). La stessa versione si presta a molteplici impieghi che tengono presenti le possibilità esecutive della concreta assemblea. Nel Rinascimento non era proprio così, perché una messa a 4 voci era una messa a 4 voci, anche se…
Anche se bisogna stare un poco attenti a quella che era la reale prassi dell’epoca. Spesso queste composizioni venivano adattate ad esigenze esecutive diverse, uno strumento sostituiva una delle parti polifoniche se mancavano le voci, oppure si trasformava a 6 voci e basso continuo una composizione che originariamente era a 4 voci a cappella. Quindi, il germe di questa idea, l’abbiamo proprio nella nostra tradizione.
Quanto detto sopra può essere applicato anche ai salmi, agli inni, ai cantici…Questo principio che chiameremo di “amplificazione”, può andare incontro in maniera efficace a quello che la SC chiede. Starà all’arte del compositore di conciliare le esigenze esecutive che ha con le esigenze della bella forma e sostanza artistica. Quanto sono andato dicendo in questo scritto, naturalmente si applica principalmente alla forma ordinaria del rito romano, sapendo che nella forma straordinaria esiste una prassi musicale che ha ovviamente delle differenze importanti. Eppure, l’esigenza di fare in qualche modo partecipare l’assemblea, non è un’invenzione degli ultimi decenni, ma si trova, come abbiamo già visto in precedenza, anche nei documenti che si riferiscono alla liturgia preconciliare. Quindi, il fatto che chi partecipa alla celebrazione nella forma straordinaria possa in qualche modo partecipare con il canto, non è un’esigenza “progressista”, ma è già ben presente nel magistero pre-conciliare. Accanto alle composizioni riservata al coro, ci può essere spazio anche per brani che possano coinvolgere in qualche modo anche l’assemblea, come per esempio usando la forma dell’alternato, o quella responsoriale. Ma come esiste una mitizzazione da parte progressista, ne esiste un’altra da parte tradizionalista.
La partecipazione dei fedeli
Quando si parla della partecipazione dei fedeli bisogna stare attenti a intendere il vero senso di questa partecipazione. Partecipare non vuol dire soltanto “fare” qualcosa indistintamente. Partecipare significa “essere parte” di un’esperienza in modo totale e coinvolgente. Ad esempio: se io vado allo stadio, la mia partecipazione alla partita non consisterà nel giocare concretamente a pallone (che è il cuore di quanto lì avviene), ma la mia presenza non si potrà considerare un semplice assistere. Il tifo, i canti, gli slogan, gli incitamenti, l’attenzione spesso spasmodica mi portano a partecipare alla partita attraverso molteplici canali. Se vado ad un concerto, io magari non suono, ma quella musica mi prende e mi fa “partecipare” attraverso l’ascolto ad una esperienza “artistica” profonda. Così nella liturgia (in cui il nostro grado di partecipazione è comunque molto più profondo delle due esperienze precedentemente descritte), si partecipa facendo con atti esteriori (leggendo, cantando, suonando…) ma si partecipa anche e soprattutto con l’atto interiore dell’ascolto e dell’attenzione. Spesso il “partecipazionismo” prende il sopravvento per via anche di una certa influenza sessantottina che ancora spira nelle nostre chiese, ma questo è un atteggiamento che va corretto.
Questo per dire che al canto si partecipa…cantando, ma si partecipa anche ascoltando. Qualche volta mi è capitato di scontrarmi con intraprendenti liturgisti che negavano ad una Schola ben addestrata qualunque esecuzione che, almeno apparentemente, escludesse i fedeli dal canto. Ma questo non è mai stato detto da nessun documento conciliare e post conciliare. Salvo il principio che l’assemblea partecipi al canto in modo abbondante, ciò non significa che non si possa concedere alla Schola alcuni momenti nella celebrazione in cui possa eseguire un brano antico o moderno che sia pertinente a quanto si va svolgendo (e, se in lingua diversa da quella parlata dei fedeli, con traduzione fornita a parte). Quindi il compositore farà sempre bene a coltivare anche la musica polifonica e a scrivere mottetti, inni o altre forme che ritiene adeguate. Farà meno bene se comporrà musiche su testi che spettano in modo forte all’assemblea. Mi sta bene avere una meditazione polifonica alla comunione, all’offertorio, prima della messa…mi farà rifletterese il coro sottrae completamente al popolo il Gloria, il Sanctus, l’introito, il Credo in modo sistematico…In questo modo non si aderisce a quanto la SC chiede e non se ne rispettano le istanze fondamentali.
“I testi destinati al canti sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalle Sacre Scritture e dalle fonti liturgiche”
Il problema dei testi è un altro punto delicato. Quanti testi banali ci siamo dovuti sorbire da un quarantennio a questa parte. Anche qui, ad onor del vero, devo dire che non ci si possono addossare troppe colpe. Fino a cinquant’anni fa si celebrava solo in latino e i testi dei canti liturgici erano in latino. C’erano i canti popolari ma che non avevano una vera e propria valenza liturgica e così i loro testi erano pieni di buoni sentimenti religiosi e devozionali ma non erano tagliati per “sposare ritualmente” una celebrazione. E non dovevano, proprio per il loro ruolo. Il popolo semplice vi ritrovava la sua fede con parole piene di affetto e devozione. Dicevamo “Evviva Maria, Maria evviva, evviva Maria e chi la creò” oppure “Mira il tuo popolo, o bella Signora, che pien di giubilo, oggi ti onora!”. Questo, comunque, era il canto popolare religioso ed era (ed è) diverso da quello strettamente liturgico. Non peggiore, né migliore, semplicemente concepito con altre finalità. Diversamente, nelle chiese anglosassoni, si è sviluppata fin dalla riforma di Lutero una grandissima quantità di inni in lingua volgare per le celebrazioni liturgiche e la loro produzione ha raggiunto fino ad oggi quantità enormi. E alla grande quantità ha corrisposto, naturalmente, anche un incremento enorme della qualità. Io per esempio sono innamorato degli inni anglicani, con quelle melodie travolgenti e con quei testi densi e teologicamente ricchi. Da noi non ci sono stati molti autori di testi liturgici in lingua volgare. Tra i pochi da ricordare citerei senz’altro padre David Maria Turoldo, servita, pur se molto tendente a certe tematiche di una certa parte. Nella sua sterminata produzione si trovano testi per la liturgia veramente efficaci ed indovinati; ha senz’altro contribuito grandemente al rinnovamento della liturgia nel post-concilio, ma “una rondine non fa primavera”. Certo non è stato l’unico (anche se, di quel livello, non credo ce ne siano stati altri che gli possano stare accanto). Anche oggi qualcuno c’è, pur se capita che le musiche scelte per sposare questi testi non rendono giustizia ai testi medesimi.
Ancora il canto gregoriano…
Si deve ritornare al modello del canto gregoriano per dire qualcosa di molto importante sui testi da scegliere. Viene espressamente detto nel paragrafo in questione della SC che i testi devono essere presi “di preferenza dalle Sacre Scritture e dalle fonti liturgiche”. Bene, ma anche su questo ci si deve intendere e capire cosa significa. Certo, io posso prendere un salmo così come sta e musicarlo, ma nulla mi vieta (fatto salvo l’ortodossia, il senso e la consequenzialità del testo), di adattarlo a specifiche esigenze espressivo-musicali. Novità profana? Ma se lo si faceva anche nel canto gregoriano…”Per favorire una maggiore musicabilità della parola, i testi che sono alla base del canto gregoriano e desunti per la maggior parte dalla sacra Scrittura (di preferenza dai salmi), non di rado sono adattati o messi insieme con notevole libertà. La celebrazione è voluta come una comunicazione sotto ogni aspetto pregna di senso. Per quanto sia molto importante lo sforzo di comprendere i testi della sacra Scrittura deducendone il significato dal contesto letterario e storico, altrettanto importante è studiare come essi siano stati accomodati per le esigenze del canto, entro una convincente ritualità culturale. Il che non deve essere reputato né una scorrettezza biblico-esegetica, né uno svantaggio. Di analoghi procedimenti redazionali di adattamento dona testimonianza la stessa Bibbia, ad es. nel libro dei Salmi, quando si vuole un testo capace di offrire una più profonda visione di fede o più pregnante esperienza antropologica. Questi adattamenti, in definitiva, sono anche una scuola per imparare l’uso fruttuoso di una lettura spirituale della Scrittura, conforme alla plurisecolare tradizione della lectio divina nei suoi elementi: meditatio, oratio, contemplatio.” (Luigi Agustoni – Johannes Berchmans Goschl, op. cit., pagg. 29-30, nota 2).
L’attenzione alla tradizione della Chiesa cattolica (Sacra Scrittura e fonti liturgiche, appunto) ci permetterà di riscoprire moduli espressivi sempre efficaci, pur se aggiornati e riletti alla luce della sensibilità contemporanea e ci concederà di essere sempre degni di cantare al Signore quel “canticum novum” che, nei secoli, la comunità cristiana ha sempre innalzato a Colui che è luce delle genti ed è fonte di ogni bellezza.
Aurelio Porfiri