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lunedì 17 agosto 2020

Porfiri, inculturazione tra pericolo ed opportunità


Un'interessante analisi del Maestro Porfiri.
Luigi

[...]

Il Concilio Vaticano II, nel paragrafo 119 della costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium, affronta il problema della musica nelle missioni. In pratica viene affrontato quello che in epoca più tarda sarà uno dei problemi chiave della riforma liturgica: l’inculturazione. Tradurre il messaggio del vangelo in culture diverse e a volte lontane, è una sfida enorme che la liturgia ha dovuto affrontare repentinamente e con una certa impreparazione non appena si è affacciata l’opportunità di celebrare nelle lingue volgari. Vediamo cosa dice il paragrafo 119 del VI capitolo:
“In alcune regioni, specialmente nelle missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale, la quale ha grande importanza nella loro vita religiosa e sociale. A questa musica si dia il dovuto riconoscimento e il posto conveniente tanto nell’educazione del senso religioso di quei popoli, quanto nell’adattare il culto alla loro indole, a norma degli articoli 39 e 40. Perciò, nella formazione musicale dei missionari si procuri diligentemente che, per quanto è possibile, essi siano in grado di promuovere la musica tradizionale di quei popoli, tanto nelle scuole, quanto nelle azioni sacre.” Ora alcuni aspetti vanno subito rilevati; ci sono termini che vanno evidenziati per porli sotto una luce speciale: missioni, tradizione musicale, vita religiosa e sociale, dovuto riconoscimento e posto conveniente, senso religioso, indole. Ognuno di questi termini meriterebbe una trattazione accurata ed esaustiva, che ne rilevasse anche i cambiamenti semantici occorsi da cinquanta e più anni a questa parte. Le Chiese allora oggetto di missione, sono oggi spesso più fiorenti e vivaci di molte Chiese della vecchia e cristiana Europa e hanno sviluppato forme cultuali proprie. Non perdiamo la sottolineatura iniziale del paragrafo: si dice in “alcune regioni” (e quindi non in tutte), “specialmente” (ma non esclusivamente) nelle missioni, ci sono popoli con una propria “tradizione musicale”. Quando si affrontano termini come “tradizione” o “cultura” è già quasi sicuro che ci saranno contrapposizioni violente tra coloro che ne danno interpretazioni dissimili e difformi. Noi spesso pensiamo alle missioni e ci immaginiamo sperduti villaggi africani o atmosfere asiatiche. Ma in realtà il mondo è molto cambiato dai tempi di questo documento, e questo ci porta a dover guardare in prospettiva alcune delle cose che vengono dette, come per esempio quella che riguarda le missioni. Ovviamente, per via di processi economici, sociali e antropologici, il mondo missionario di una volta non è più quello che è oggi. Quindi, il missionario si trova a dover operare in una nuova situazione.


Certo, l’attenzione tutta particolare che la SC dedica al tema della musica nelle “missioni” (e che è riflesso dell’attenzione del Concilio per il ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo) pone problemi nuovi e importanti, spesso ardui. Bisognerebbe rendersi conto di cosa dobbiamo intendere per “propria tradizione musicale”. Io credo che si possa intendere come una trasmissione di musiche che un popolo sente come proprio. Ora, venendo anche alla nostra società, dovremmo interrogarci se per tutti è così pacifico quello che da molti musicisti (e dalla SC stessa) viene intesa come “tradizione musicale”. Per un certo numero di musicisti di Chiesa, essa coincide con il canto gregoriano e con la polifonia, e del resto questo ci viene dal magistero stesso della Chiesa. Ma questo mondo musicale appartiene a tutti? Io (a malincuore) ho i miei seri dubbi, e in questo vedo una chiara defezione del compito educativo della Chiesa stessa..

La musica è un linguaggio, è un codice espressivo attraverso cui un messaggio da un soggetto dato che chiameremo A arriva ad un ricevente dato che chiameremo B. Il contenuto intellettuale/emotivo del messaggio, viene mediato da un codice, cioè un suo modo di essere che rende riconoscibile il messaggio a chi lo deve ricevere. Quindi, il ricevente deve riconoscere il codice usato per “decodificare” il messaggio, altrimenti ne rimane all’oscuro. Facciamo un esempio con questo articolo: letto da un Italiano, viene perfettamente compreso, in quanto utilizzo una lingua comune alla quasi totalità dei fruitori della rivista. Se lo legge un tedesco che non sa l’Italiano, non c’è possibilità di comunicazione. Il codice stesso poi, si presta a diverse accentuazioni che chiameremo per facilitare il discorso, “espressive”. Io posso dire “la musica liturgica in Italia ha molti problemi”, posso dire “la musica liturgica in Italia è un disastro”, posso dire “la musica liturgica in Italia fa pietà!” Ho espresso più o meno lo stesso concetto ma il messaggio comunica sensazioni diverse a chi lo riceve. Veniamo a noi. Il Concilio ha inserito quel paragrafo che abbiamo letto prima insieme proprio per dire: nelle terre che ignorano i nostri codici, cercate di inculturare la musica nei loro. Non dimentichiamo quanto ebbe a dire Paolo VI a Kampala in occasione del Simposio dei vescovi africani: “L’espressione, cioè il linguaggio, il modo di manifestare l’unica fede può essere molteplice e perciò originale e conforme alla lingua, allo stile, all’indole, al genio, alla cultura di chi professa quell’unica fede. Sotto questo aspetto un pluralismo è legittimo, anzi auspicabile.” da “Encicliche e discorsi di Paolo VI”, vol. XIX, Paoline, Roma 1970, pp. 48-54 in “Credere oggi-Correnti teologiche del novecento” di G. Canobbio, pag. 23. Ma non cadiamo nell’errore di pensare che bisogna buttare alle ortiche tutto quello che di buono la nostra tradizione ci ha consegnato. Infatti, il vero progresso anche nelle missioni, passa attraverso l’incontro fra quello che di buono si può trovare nella loro tradizione musicale e quello che di grande e buono offre la grande tradizione della Chiesa cattolica. Purtroppo, questo senso buono dell’inculturazione è stato quasi completamente ignorato.


Ma è anche un problema nostro?

Abbiamo visto, sino ad ora, il problema “inculturazione”, sempre riferendoci a culture lontane da quella occidentale che è stata plasmata dalla cultura cristiana. Ma oggi, questa cultura, ha acquisito numerosi altri elementi che in un certo senso ne hanno cambiato notevolmente alcune caratteristiche e di certo rendono molto meno riconoscibile l’eredità cristiana (come detto in precedenza). Questo vale anche per la musica. La musica cosiddetta “leggera”, commerciale, è di certo il linguaggio musicale più diffuso nella società (e, come tutti sanno, non solo nella nostra), tanto che anche le poche persone che non la seguono assiduamente alla fine conoscono le canzoni per via della loro martellante diffusione tramite radio e televisione. Ora, non si vuole dire che questo sia un bene o un male, di certo questo è un fatto innegabile. La gran parte delle persone che vengono in Chiesa non ascolta musica classica e tanto meno musica “sacra”. Oggi, da noi, quanti riconoscono di per sé il codice chiamato “canto gregoriano” o “musica polifonica”? Si dirà che bisogna educare le persone a questo e io rispondo: giusto, anzi sacrosanto! Ma chi lo fa? Non certo lo stato, che togliendo il latino dalle scuole ci ha privati dell’aggancio fondamentale con il mondo classico, con le nostre radici. E l’educazione musicale nelle scuole non è certo orientata a questo. Purtroppo non lo fa la stessa Chiesa cattolica, come detto, che spesso cavalca l’onda delle mode giovanili (anche musicali) e non tenta neanche un opera di educazione del gusto musicale e liturgico. Quanti sacerdoti e vescovi latitano su questo punto. Qualche anno fa ho avuto un colloquio informale con un altro musicista che ha più contatto con alcuni vescovi rispetto a me; gli ho detto “perché non gli porti davanti la drammaticità della situazione, non gli fai capire le brutture che si cantano nella chiesa”, lui mi ha risposto che lo ha fatto ma che per loro va bene così (cioè per loro quello che si fa non è ne drammatico ne brutto). Il dramma enorme è successo proprio qui: la Chiesa, con la riforma liturgica si è imbarcata in una “battaglia” culturale enorme ma lo ha fatto con le armi spuntate. Invece di un rinnovato sforzo per potenziare gli strumenti atti a rendere le liturgie più belle, partecipate ed efficaci, si sono devastati gli arredi e i vecchi paramenti, venduti candelabri e libri liturgici preziosi, dispersi archivi musicali preziosissimi, licenziati maestri di cappella, organisti e cantori e sciolte anche venerabili istituzioni musicali. Poi, ed è importante, si è fatto passare per tradizione musicale quello che è soltanto musica commerciale. La musica commerciale non è tradizione musicale di un popolo nel senso che intendeva il documento conciliare, ed essa, pure se contiene elementi che certamente si possono apprezzare, è fatta con scopi e mezzi che divergono in modo molto deciso da quelli che dovrebbe usare la Chiesa cattolica per le sue liturgie. Ma l’aver tolto di mezzo i musicisti professionisti, ha reso ancora più pericoloso l’uso di musica di tipo commerciale nelle liturgie, anche se con testi liturgici o simil liturgici. Il musicista professionista, se ben preparato alla musica sacra, sa capire e distinguere ciò che è buono e ciò che non lo è.


Agire in tempo di crisi

Allora bisogna chiedersi se è meglio agire in tempo di crisi per risollevare la situazione o ritirarsi sdegnosamente su un qualunque “Aventino”, aspettando che i tempi mutino. Io, lo avrete capito, penso che la situazione migliore sarebbe la prima, anche se con gli anni che passano divento enormemente più pessimista. Ma bisogna distinguere tra ciò che è moda e ciò che permane. Sempre nella storia della musica liturgica, si è cercato di adeguare la musica liturgica ai codici delle persone che ne fruivano: la grandezza era che questi artisti trasformavano in grande musica gli impulsi culturali che la società gli trasmetteva, spesso ritrasmettendoli alla società, quindi trasformandola. Oggi la gran parte della musica che gira nelle nostre parrocchie è “passiva”. Si accontenta di “parlarsi addosso”, non è che l’autocelebrazione di qualche gruppo o categoria sociale, ma non ha in se i semi della risurrezione e quindi della trasformazione. Questo perché si è scelto di costruire sulla sabbia, buttando via tutti i modelli mirabili che la tradizione ci aveva trasmesso. Questo, come detto sopra, non per riproporli necessariamente tout court ma per fare in modo che essi servissero da esempio e da indicatore di percorso, perché in piedi sulle spalle di questi giganti (per citare un immagine famosa), potessimo guardare ancora più lontano. Per dire la verità tutta intera, non possiamo ignorare la cosiddetta società postmoderna in cui viviamo; il postmoderno, come caratteristica importante, ha proprio quello della relativismo esasperato, per cui si tende ad evitare che esista una verità unica, ma si apprezza che ognuno ha la sua. Certo, questo è in forte contrasto con quello in cui crediamo in quanto cattolici, ma anche all’interno della Chiesa questa mentalità ha influito e influisce molto sul comportamento generale. In seguito a questo sembra difficile pensare che si possa accettare un modello di riferimento per la musica liturgica, ognuno ha i suoi modelli che si è procurato in quello che la società gli ha offerto fino a quel momento e, quasi mai, tra questi modelli c’è il canto gregoriano o la musica polifonica. Bisognerebbe essere in grado di superare questo problema, facendo capire che quanto la Chiesa insegna non è europeo o occidentale ma è cattolico, quindi è sovranazionale.

Certo, non sarebbe male che i musicisti di Chiesa si preoccupassero di leggere i documenti del magistero che riguardano il loro lavoro (o quello che ne rimane, anche dei musicisti). Come non nominare, in un articolo consacrato all’inculturazione, la quarta istruzione per la corretta applicazione della SC e che è specificamente dedicata a questo tema. Leggendola si possono trovare utili considerazioni e consigli di pratica attuazione. Ma soprattutto alcune messe in guardia rispetto all’idea invalsa in più di qualcuno, anche dentro le mura vaticane, sulla fondamentale bontà della cultura moderna. Attenzione, perché se tanto c’è di buono, altrettanto c’è di pericoloso. Ecco perché la formazione e la formazione a livello professionale degli operatori della liturgia è l’unica strada percorribile per sperare in una ripresa di fervore nella vita liturgica dei fedeli. Non bastano le belle parole, le celebrazioni, i convegni, gli studi specialistici…bisogna sporcarsi le mani e sporcarsele anche per bene, perché dal terreno coltivato nascano nuovi frutti.

Inculturazione e acculturazione

Ci troviamo di fronte a due modelli: l’acculturazione e l’inculturazione (Ricky Manalo, CSP, “Moving beyond tokenism” in “Today’s liturgy”, settembre-novembre 2003. Questo articolo affronta questi argomenti in una maniera molto interessante e da esso prendo alcuni dei concetti che esprimo su acculturazione e inculturazione). La prima è, per usare una formula matematica, quando A+B è uguale a AB. Siamo nella nostra bella parrocchia e il coro giovani ci dà giù con la chitarra e propone un canto dalle movenze pop, mentre 10 minuti dopo il coro polifonico ci fa sentire un pezzo di severa polifonia rinascimentale. Questo è fatto ed accettato da molti ma io ho sempre trovato tutto ciò di cattivo gusto. Le culture non si fecondano ma si frequentano forzatamente, ognuna rimanendo sulle sue. Nell’inculturazione invece A+B è uguale a C, cioè ad una nuova espressione che sintetizza il meglio delle due o più culture da cui scaturisce. E, per fare questo, non ci illudiamo, ci vogliono musicisti preparati e disposti ad ascoltare, che sappiano fecondare il nuovo con l’antico e dare vita a nuove forme di arte. Mi colpì leggere questa frase in un opuscolo comprato in una libreria evangelica a Hong Kong e in cui l’autrice pensa alla riconquista della leadership culturale da parte dei musicisti di Chiesa: “Prova a immaginare! I musicisti di musica profana che spendono ore a studiare i nostri album, a provare di capire le nostre ultime tecniche!” (Beverly Anne Sumrall, “The musician’s ministry”, Using your gift series, Filippine 1993, pag. 5). Certo sarebbe proprio bello!

Cieli e terre nuove

Ecco cosa ci chiede questa sfida: ci chiede di avventurarci per scoprire cieli e terre nuove, consapevoli che ad un cristiano nulla deve far paura, se non di mancare di coraggio nell’affrontare il mondo. Cristo non lo ha già vinto? Come diceva Sant’Agostino, il sangue dei martiri feconda la Chiesa. Nel piccolo del nostro mondo, offriamo anche noi le nostre fatiche, i nostri studi, le nostre rinunce, le nostre incomprensioni perché questi piccoli martirii diano fecondità per una rinnovata cultura liturgica, che sia veramente segno profondo di una fede vissuta e vivente. Che si torni a cantare con arte, con arte e con suono melodioso. Al suono dell’organo, dei violini, dei timpani si innalzi a Dio quel “Canticum Novum” che i grandi amanti della liturgia hanno intravisto e per cui hanno combattuto e che ora solo aspetta di essere portato a compimento. Chi farà questo al posto nostro?

Aurelio Porfiri

1 commento:

  1. Allora, se non si gradisce l'inculturazione bisogna convertirsi al protestantesimo evangelico. La chiesa cattolica e da Nicea in poi la chiesa universale che incultura.

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