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martedì 12 maggio 2020

Il Governo si occupa di Liturgia e la Chiesa lascia fare. Parla il Giudice Giacomo Rocchi.

Un'interessante intervista di Stefano Fontana (QUI) al giudice Giacomo Rocchi  sulle ultime vicende dell'intromissioni statali sulla vita e liturgia della Chiesa in Italia.
Luigi

5 maggio 2020
Non c’è dubbio: il governo è intervenuto sulla liturgia e la Chiesa ha lasciato fare
Intervista al giudice Giacomo Rocchi
di Stefano Fontana

“Siamo all’inquadramento burocratico dei Vescovi nella apposita Direzione Centrale per gli affari di culto, con il funzionario che risponde ai quesiti del Presidente della Conferenza Episcopale, stabilendo che l’organista può essere presente la notte di Pasqua ma non durante i matrimoni!”

“La rinuncia a denunziare le violazioni del Concordato sulla questione delle celebrazioni liturgiche renderà certamente più difficili future denunzie di altre violazioni”
*****
Al giudice Giacomo Rocchi, Consigliere della Corte di Cassazione, figura eminente tra i giuristi cattolici, impegnato su molti fronti della giurisprudenza, soprattutto quello della vita, che ringraziamo per questa ampia e illuminante intervista, chiediamo: le disposizioni governative in merito alla sospensione delle Sante Messe contraddicono il testo del Concordato del 1984 tra Stato e Chiesa?

Assolutamente sì: l’art. 2 dell’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana, che ha apportato modificazioni al Concordato (18/2/1984), dopo aver stabilito che “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione”, aggiunge: “In particolare, è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica.”. La sospensione delle Sante Messe riguarda il pubblico esercizio del culto, sul quale lo Stato non ha alcun potere. La previsione è coerente con l’art. 7 della Costituzione, in base al quale “lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”: il pubblico esercizio del culto riguarda l’ordine della Chiesa che, quindi, è “indipendente” e “sovrana”. Sottolineo questo ultimo termine, che indica l’impossibilità per lo Stato di entrare sulle questioni liturgiche: di “sovrani” ce ne può essere solo uno.
Nel corso di questi mesi, la palese violazione del Concordato è divenuta ancora più esplicita.
In effetti, con la prima norma – quella che disponeva la sospensione di tutte “le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri” (DPCM dell’8 marzo), pur palesemente illegittima – a mio parere la sospensione non era consentita dal decreto legge del 23 febbraio, che permetteva soltanto la sospensione di “manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere religioso” – il Governo non dava alcuna indicazione in ordine alle liturgie pubbliche, limitandosi a vietarle. Nelle settimane successive è emerso, però, che la sospensione delle cerimonie non era considerata tassativa: alcuni Sindaci avevano celebrato matrimoni, in presenza di più persone.
Ecco che, con la nota del 27 marzo, il Ministero dell’Interno precisava che “le celebrazioni medesime non sono in sé vietate, ma possono continuare a svolgersi senza la partecipazione del popolo”, con l’ulteriore aggiunta che, oltre ai celebranti, è permessa la presenza degli “accoliti necessari per l’officiatura del rito”, fino a giungere – con un effetto davvero grottesco, tenuto conto dell’Ufficio che emanava la nota – a stabilire regole per la Settimana Santa: “Le considerazioni fin qui esposte inducono a ritenere che il numero dei partecipanti ai riti della Settimana Santa ed alle celebrazioni similari non potrà che essere limitato ai celebranti, al diacono, al lettore, all’organista, al cantore ed agli operatori per la trasmissione”; analogamente i matrimoni “non sono vietati in sé”, purché “il rito si svolga alla sola presenza del celebrante, dei nubendi e dei testimoni”. Come si vede, l’Autorità civile dava indicazioni – in realtà mancanti di ogni base normativa – distinguendo i vari riti: ci si potrebbe chiedere, infatti, perché la celebrazione di un matrimonio sarebbe lecita, mentre non lo sarebbe, ad esempio, il Battesimo o la Cresima.
La volontà del Governo di dettare indicazioni cogenti sulle liturgie ammesse e su quelle vietate e perfino sulle modalità con cui i riti devono essere celebrati ha trovato la definitiva conferma nel DPCM del 26 aprile che, confermando la sospensione delle cerimonie civili e religiose, ha però previsto che “sono consentite le cerimonie funebri con l’esclusiva partecipazione di congiunti e, comunque, fino ad un massimo di quindici persone, con funzione da svolgersi preferibilmente all’aperto […]”: quindi lo Stato “concede” alla Chiesa di celebrare solo i funerali, per di più imponendo determinate modalità (ovviamente la norma è dettata anche per i funerali civili): la “sovranità” e “indipendenza” della Chiesa sono ormai scomparse dalla mente del Governo…
Si potrebbe aggiungere che le norme fin qui descritte risultano chiaramente illogiche alla luce di quelle – dettate fin dai primi giorni dell’emergenza – secondo cui “l’apertura dei luoghi di culto è condizionata all’adozione di misure organizzative dell’emergenza tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro”: se tali misure erano state adottate, perché vietare le cerimonie (il confronto con i supermercati è fin troppo facile e illuminante)?.
Infine, l’irruzione di forze di polizia all’interno delle Chiese per turbare o impedire celebrazioni, oltre a costituire reato (art. 405 cod. pen.), viola l’art. 5, comma 2, dell’Accordo, in base al quale “salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica”.

Se la Chiesa permette che lo Stato legiferi nel campo che le è proprio, non cade automaticamente anche la possibilità di firmare concordati?

Tutti i trattati internazionali – tale è il Concordato – sono soggetti al rischio della disapplicazione e della desuetudine: per mantenerli “vitali”, non è sufficiente la loro pacifica applicazione da parte dei contraenti nei periodi “normali”; è necessaria, piuttosto, la denuncia – nelle forme dagli stessi Trattati previste o comunque conosciute dal diritto internazionale – delle violazioni e delle disapplicazioni, per costringere il contraente inadempiente a ritornare sui suoi passi ovvero a manifestare la sua posizione (ad esempio, quella di far cadere l’accordo con l’altro Stato).
L’Accordo di revisione del Concordato del 1984 prevede espressamente che “se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione o di applicazione delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un’amichevole soluzione ad una Commissione paritetica da loro nominata” (art. 14), disponendo ancora che “ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana”: quindi esiste una via formale per denunciare “difficoltà di applicazione” delle norme, anche se dettata per giungere – come è opportuno – a una “amichevole soluzione”. Si tratta di una norma in linea con l’art. 7 della Costituzione che prevede “modificazioni dei Patti Lateranensi, accettate dalle due parti”.
La mancata reazione alla violazione del Concordato, a ben vedere, fa intravedere rischi ulteriori: l’accordo del 1984 contempla altri temi assai delicati, come il divieto di requisizione, occupazione, espropriazione o demolizione degli edifici aperti al culto in mancanza di previo accordo con la competente autorità ecclesiastica (art. 5), la garanzia “ai cattolici e alle loro associazioni ed organizzazioni della piena libertà di riunione o di manifestazione del pensiero” (art. 2), la garanzia per gli ecclesiastici di non essere tenuti a dare ai magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero (art. 4), le norme sulle università cattoliche e sul riconoscimento dei titoli accademici (art. 10).
Ho menzionato norme che, come dimostrano le esperienze in altre parti del mondo, possono risultare molto importanti per impedire persecuzioni e discriminazioni ai danni dei cattolici, sacerdoti e laici; la rinuncia a denunziare le violazioni del Concordato sulla questione delle celebrazioni liturgiche renderà certamente più difficili future denunzie di altre violazioni.

Ancora di più: se la Chiesa si fa normare dallo Stato “in sacriis”, non rinuncia al suo status di soggetto giuridico internazionale a cui non aveva mai rinunciato nemmeno dopo la perdita dello Stato pontificio? Non riduce se stessa ad un qualsiasi soggetto della società civile che opera sotto il controllo del potere politico?

Distinguerei due ambiti: quello del diritto internazionale, nel quale non intravedo – almeno per il momento – una rinuncia allo status di soggetto giuridico internazionale da parte della Chiesa Cattolica, e quello del diritto interno, in cui questo rischio sussiste.
Vorrei richiamare quel documento del Ministero dell’Interno del 27 marzo in cui si dettavano le norme sulle celebrazioni di cui abbiamo parlato prima, per sottolineare un dato: chi lo ha sottoscritto. La nota è redatta dal Direttore Centrale della Direzione Centrale per gli affari di culto: se noi esaminiamo la struttura gerarchica del Ministero dell’Interno, possiamo vedere che, sotto il Ministro, i Viceministri e i Sottosegretari, vi sono ben cinque Dipartimenti; a sua volta, il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione è composto da sei Direzioni centrali, oltre ad altri Uffici. In altre parole: a dettare le norme sulla Settimana Santa è stato un dirigente del Ministero non certamente apicale, essendo posto al vertice di una delle 32 Direzioni centrali esistenti.
Quindi: siamo ben al di là di un controllo del potere politico sulla Chiesa Cattolica (controllo cui i provvedimenti che abbiamo commentato mirano): siamo all’inquadramento burocratico dei Vescovi nella apposita Direzione Centrale per gli affari di culto, con il funzionario che risponde ai quesiti del Presidente della Conferenza Episcopale, stabilendo che l’organista può essere presente la notte di Pasqua ma non durante i matrimoni!
Ma quella Nota costituiva una risposta ai quesiti che i Vescovi avevano posto! Il Funzionario estensore è molto attento nel ricordarlo indicando l’oggetto del documento: “Quesiti in ordine alle misure di contenimento e gestione dell’emergenza” e, di fronte ai quesiti, “fornisce i chiarimenti richiesti”. Comprendiamo, quindi, l’opera di “autoriduzione” che sta a monte del documento.

Cosa consiglia di fare ai vescovi italiani?

In primo luogo, dovrebbero guardarsi indietro, all’immediato passato, ai primi giorni di marzo.
La nota del 15 marzo della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana (pubblicata da Stilum Curiae il successivo 20 marzo) ricorda che, fin dal 2 marzo il card. Bassetti aveva espresso la “doverosa disponibilità a condividere fino in fondo le difficoltà che il Paese sta attraversando” raccomandando, il successivo 4 marzo, la sospensione delle messe feriali nelle tre province allora colpite dal virus; per tutta risposta il Governo aveva adottato la sospensione di tutte le celebrazioni con i DPCM dell’8 e del 9 marzo.
È molto interessante la narrazione dell’atteggiamento dei Vescovi in quei giorni: “ripetuti contatti (informali) con la Presidenza del Consiglio dei Ministri e con alcuni ministri”, al fine di “evitare che venga proibita la celebrazione della Santa Messa”; contatti e raccomandazioni inutili, perché il testo veniva inviato già confezionato alla Segreteria in piena notte, ma già, alle 23 del 7 marzo “ci era stato richiesto di inviare un comunicato con procedura d’urgenza a tutti i vescovi perché proibissero in tutto il Paese le Sante Messe fin da quelle del primo mattino della stessa domenica”. In sostanza, il Governo, alle 23 aveva chiesto questa proibizione, alle 3,30 del mattino aveva ordinato la sospensione delle messe e “entro le ore 8,30 di domenica 8 un Vescovo di ciascuna Conferenza Episcopale Regionale è raggiunto da un messaggio che gli condivide il provvedimento”; nel corso della mattinata (come molti fedeli hanno potuto accertare personalmente) i parroci vennero raggiunti a loro volta dall’ordine di sospendere la celebrazione delle messe.
La Segreteria racconta di una “riunione chiarificatrice” fissata dal Governo alle 13 (molti Vescovi avevano espresso “stupore, criticità e contrarietà”), al termine della quale “il Tavolo governativo chiude definitivamente la discussione”.
Quali caratteristiche ha questo atteggiamento, fallimentare nell’esito finale? Centralizzazione dei rapporti con l’Autorità civile del vertice della C.E.I., con l’esclusione dei Vescovi “sul campo”; informalità dei rapporti, basati sulle conoscenze e sui Ministri “amici” (anche l’ultimo provvedimento era stato preceduto da rassicurazioni da parte del Ministro dell’Interno, non a caso intervistata il 23 aprile da Avvenire); posizione di chi chiede e raccomanda, guardandosi bene dal rivendicare, puntualizzare, formalizzare; immediato ossequio (poche ore in piena notte!) alle decisioni dell’Autorità civile; definitiva umiliazione derivata dalla fissazione di una riunione in cui l’Autorità civile aveva “chiuso la discussione”.
Questo atteggiamento – che, appunto, si è ripetuto anche in occasione dell’ultimo DPCM del 26 aprile con identico esito – ha totalmente dimenticato il Concordato ma anche i diritti dei fedeli, privati della Santa Messa e sostanzialmente impediti a reagire: in effetti, se è vero che il Concordato si basa sulla indipendenza e sovranità della Chiesa e dello Stato, i fedeli cattolici hanno diritto, anche costituzionale, a esercitare il culto.

Cosa dovrebbero fare i vescovi italiani?

Il Comunicato stampa emanato la sera del 26 aprile, subito dopo la conferenza stampa del Presidente del Consiglio che confermava la sospensione delle cerimonie religiose, ad eccezione di quelle funebri, sembrava segnare un cambio di passo: collegialità (“I vescovi italiani non possono accettare”), formalità e pubblicità della presa di posizione, rivendicazione di uno status (si fa riferimento alla “Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia”) e dei diritti (“ I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto”), quindi con il richiamo al Concordato e alla Costituzione.
Nel sito web della Conferenza Episcopale non sono più riuscito a reperire il Comunicato… è ovvio che, una volta lanciato il sasso, la mano non può essere ritirata, se non a costo di una ulteriore (definitiva?) umiliazione da parte dell’Autorità civile. Sul sito web, non a caso, è in bella vista la risposta al “quesito in ordine alla celebrazione della cerimonia funebre”, sottoscritta dal capo del Dipartimento del Ministero dell’Interno che abbiamo già conosciuto: il documento, fra l’altro, vieta assembramenti o cortei di accompagnamento al trasporto del feretro e raccomanda che la cerimonia “si svolga in un tempo contenuto”…
Personalmente sostengo l’iniziativa del Centro Studi Rosario Livatino di proporre un ricorso al TAR. del Lazio avverso il DPCM del 26 aprile: tuttavia è evidente che, se i Vescovi – aggiungo: ciascun Vescovo, le cui funzioni non sono affatto limitate dalla Conferenza Episcopale – non ribadiranno la propria autonomia e sovranità nella liturgia, sarà una iniziativa parziale, benché doverosa. Consigli? Protestare formalmente e pubblicamente per l’irruzione nelle chiese, convocando la controparte e minacciando denunce penali; assicurare pubblicamente il sostegno all’impugnazione delle sanzioni amministrative contestate in relazione alla celebrazione delle messe o all’ingresso nelle chiese; perché no? Ordinare ai propri parroci di celebrare le messe a porte aperte, non impedendo l’ingresso nella chiesa. Comprendo che quest’ultimo provvedimento sarebbe “forte”, ma esso potrebbe essere adottato, ad esempio, da Vescovi di zone del Sud Italia sostanzialmente immuni dal virus, per le quali la sospensione delle celebrazioni è ancor più illogica.

Nella prospettiva del prossimo avvenire, come vede lo sviluppo di questa nuova tendenza a normare, controllare, ispezionare anche la vita religiosa da parte del potere politico?

Pur non essendo uno storico, a me sembra che la tendenza dello Stato – democratico o meno – ad allargare il proprio potere e il proprio controllo sulla vita dei cittadini sia insito nella sua natura; lo Stato tendenzialmente è accentratore e vuole coprire tutti i settori della vita dei cittadini (in questo periodo lo vediamo bene anche dai contrasti con le Regioni che, rivendicando il loro spazio riconosciuto dalla Costituzione, pretendono di limitare l’azione del Governo centrale).
La religione ha sempre giocato un ruolo importante nella vita delle Nazioni e degli Stati; avere una “Chiesa di Stato” è molto utile a chi governa. Sia chiaro: penso che la collaborazione tra lo Stato e la Chiesa (e anche le altre confessioni religiose) sia positiva per la società e possa contribuire alla pace sociale e al bene comune: ma, appunto, il modello deve essere quello del Concordato, della piena libertà e autonomia della Chiesa.
Quindi, la tendenza a normare la vita religiosa dei cittadini, da una parte è una tendenza “istintiva” dello Stato (come mai esiste una Direzione Centrale degli Affari dei culti presso il Ministero dell’Interno?) e, a volte, è giustificata (si pensi ai predicatori d’odio dei quali si deve disporre l’espulsione dal territorio nazionale), dall’altra deve essere bloccata quando non è giustificata in alcun modo (l’art. 19 della Costituzione riconosce a tutti il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, ponendo come unico limite quello dei “riti contrari al buon costume”).
Per impedire eccessi, però, occorre una controparte “forte”.
Vorrei concludere ricordando che la fede cattolica ci permette di avere una grande libertà nel valutare la società, la vita pubblica e l’azione delle Autorità civili: davvero i cattolici non sono “conformisti”, davvero pensano con la propria testa, ragionano, vagliano tutto, non hanno totem da difendere; stupisce, però, che, talvolta, i loro Pastori non li sostengano e non si comportino nello stesso modo.

(Intervista a cura di Stefano Fontana)

3 commenti:

  1. La CEI, guidata dal Vaticano, ha calato, violando norme giuridiche e canoniche, le manzoniane b. all'utorità statale attualmente chiaramente laicista, svendendo perfino la basilica di S. Pietro da sempre area autonoma e immune da qualsiasi autorità che non sia quella papale. Già, se una basilica è papale Bergoglio la può anche svendere ma compie un sacrilegio sulla tomba di Pietro. Il Vaticano aveva l'obbligo di decidere autonomamente le misure da adottare, come u qualsiasi stato sovrano.

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    1. Se alla vigliaccheria, aggiungi l'assuefazione al potere, capisci bene che da certi figuri non potevi aspettarti altro.

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  2. normare la vita religiosa da parte del potere politico. ma sapete quanti italiani vanno a messa? il 10% e di questi quanti ci vanno con consapevolezza e non perché in Italia la domenica si va alla messa? di che state parlando? del nulla! il Papa ha ragione una religione macedonia è maglio.

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