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domenica 22 marzo 2020

Salviamo Fabrizio de André da chi lo vuole "santificare"


Talvolta anche MiL si occupa di musica moderna.
L'amico Valerio Pece sulla Bussola ci spiega bene l'ubriacatura ideologica di molti prelati (anche vestiti di rosso) che li fa raccontare menzogne, dando patenti di cattolicesimo a chi - purtroppo - cattolico non è mai stato. Ovviamente anche mons. Galantino non si smentisce mai nel proporre fesserie.
Chi vi scrive è andato a molti concerti di Fabrizio de Andrè e ricorda il disprezzo profondo che il cantante aveva soprattutto per la Chiesa gerarchica (oltre ad essere quasi perennemente - purtroppo - ubriaco).
Luigi


Lo spettacolo di un Fabrizio De André usato e strumentalizzato dalla Chiesa è il contrario dell’omaggio che bisognerebbe riservare al cantautore per i suoi 80 anni dalla nascita (18 febbraio 1940).
Che il cantautore fosse un uomo in ricerca - seppur con le cautele che vedremo - lo attestano diversi elementi. Ne ricordiamo due.

UN’INDAGINE STATISTICA SUI TESTI

Dal suo primo album, “Volume I”, all’ultimo, “Anime salve”, passano 128 canzoni; la prima porta il titolo di Preghiera in gennaio, l’ultima, Smisurata preghiera. La vita artistica del cantautore è racchiusa tra due preghiere, di cui la seconda è in crescendo, smisurata. Non è una casualità, certamente. C’è poi un’interessante ricerca filologica. Ettore Cannas, nel suo libro “La dimensione religiosa nelle canzoni di Fabrizio De André”, ha catalogato i termini contenuti nei testi di De André. Si è scoperto che i quattro termini più utilizzati dal cantautore nell’intera sua produzione sono stati: “Dio/Signore”, “Amore”, “Cielo” e “Vento”; questi ultimi utilizzati sovente in senso metafisico (vento è spesso usato nel significato biblico di ruah, il soffio dello Spirito). Inoltre la terminologia politica è quasi del tutto assente: Cannas fa notare che mancano del tutto termini quali “borghesia”, “ribellione”, “anarchia”, “dittatura”, “fascista,” “marxista”, “operaio”, “politica”, “proletario”.

GLI ESTREMISMI DI DON GALLO

Seppur in ricerca, De Andrè rimane però un cantautore, forse il migliore. Ma questo a molti non basta. Lo sforzo è quello di arruolarlo, di mitizzarlo, di trasformarlo in una sorta di profeta. Addirittura, come fece don Andrea Gallo, in un nuovo evangelista: «I Vangeli? Sono cinque: Marco, Luca, Matteo, Giovanni. E il Vangelo secondo De André. In fondo, In direzione ostinata e contraria non è la sintesi del Vangelo di Gesù?».

Eppure De André affermò che aveva «urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo», e che «i vangeli apocrifi sono una lettura con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica». Ora, se per il laico De André certe sbandate dottrinali potevano essere ampiamente previste («di teologia non ci capisco nulla», ammise lui stesso in un’intervista) è imbarazzante assistere oggi alla sua celebrazione religiosa. Non foss’altro perché De André, semplicemente, non credeva nella divinità di Cristo. Cantava infatti in “Si chiamava Gesù” : «Non intendo cantare la gloria / né invocare la grazia e il perdono / di chi penso non fu altri che un uomo».

CENTO SIGARETTE AL GIORNO

Quanto sia debole e perdente la posizione di certi catechisti e sacerdoti intenti a pubblicare libri, organizzare lezioni e seminari sull’opera del cantautore genovese, lo conferma non solo Dori Ghezzi, seconda moglie di De Andrè, che invita a non fare del suo compagno “un santino”, ma anche e soprattutto Massimo Bubola, colui che con De André ha scritto due album e canzoni memorabili come Rimini, Fiume Sand Creek, Don Raffaè, Hotel Supramonte, Andrea e molte altre.

Nel settembre del 2018, in un’intervista radiofonica condotta da chi scrive, Bubola si lasciò andare a una confessione inedita e ardita, che da sola dovrebbe far riflettere sulla leggerezza con cui preti e teologi continuano ad abusare del “Magistero” di Fabrizio De André. Massimo Bubola affermò candidamente che il suo compagno d’avventura era «una persona complessa, molto sofferente e travagliata». Aggiungendo: «Chi fuma 100 sigarette al giorno non sta bene né con se stesso, né col suo corpo, né con la sua anima». Nell’intervista (il cui passaggio su De André è possibile ascoltare qui dal min. 1.10.20) si è mostrato convinto che, in quello che lui stesso ha chiamato «processo di beatificazione di De André», troppe cose non fossero state inquadrate a dovere. Non ultimo il fatto che De André fosse «figlio dell’altissima borghesia, con una casa a Milano con attico e super attico e con la servitù». «Più volte – ricorda il cantautore veronese – durante il mio lungo sodalizio artistico con Fabrizio mi sono trovato a cena con l’altissima finanza italiana nella splendida villa al mare del padre». «Del resto essere alcolista per 40 anni – continua Bubola - non è certamente la scelta di una persona serena». «É da 40 anni – chiosa l’autore del Cielo d’Irlanda – che su Fabrizio fanno apologesi fuori luogo, io conoscevo le virtù e anche qualche difetto. Il rischio è finire per mettergli una lampadina come con Padre Pio e buonanotte, ma siamo nati per la verità». Massimo Bubola, dunque, svela un uomo fragilissimo, ricordando cose che tanti non vogliono vedere.

MONS. GALANTINO, AMMIRATORE SMISURATO

Intanto su De André è uscito l’ennesimo libro di un sacerdote, “Dio del cielo vienimi a cercare”. L’autore è don Salvatore Miscio, assistente regionale dei giovani di Azione Cattolica della Puglia, che su De André confessa: «A me ha cambiato la vita di credente e di prete». La prefazione al libro è di mons. Nunzio Galantino, per il quale l’opera del cantautore genovese porta – udite udite - «a cogliere il senso profondo della vita», e rappresenta «quelle istanze profonde di autenticità e di amore che sono, al tempo stesso, una chiara denuncia della mediocrità borghese […] o di chi, peggio, giustifica il sopruso con la tradizione, con la legge e… con la religiosità». Tombola! Un De André (notare i puntivi sospensivi) presentato addirittura come difensore della vera religione. Ancora una volta, insomma, parole in perfetta coerenza con la critica mainstream; senza distinguo, avvertenze, prudenza. Probabilmente è anche così che la Chiesa ha perso credibilità, pensando, al contrario, di essere à la page.

RATZINGER E L'UMANO CHE DIVENTA BESTIALE 

Un’ultima annotazione può forse non essere del tutto inutile. Quando si parla di De Andrè, da qualsiasi parte il discorso provenga, è tutto un insistere e perdersi sul concetto di “umanità”. Ma è proprio intorno a questo nodo che si gioca un grosso fraintendimento.

In “Dogma e predicazione”, Joseph Ratzinger - spiegando come la grazia, cioè l’incontro dell’uomo con Dio, non distrugge la realtà umana, ma la salva e la completa - fa una lunga citazione del cardinale francese Jules Saliège, che andrebbe sottoposta a chi con troppa naturalezza si è innamorato dell’umano, compreso, appunto, quello del cantautore genovese. «Con l’espressione ‘questo è umano’ – riporta Ratzinger - oggi si giustifica tutto. Si cerca il divorzio: è umano. Si beve: è umano […] Si sciupa la propria giovinezza nel vizio: è umano. Si è gelosi: è umano. […]. Non esiste nessun vizio che non si giustifichi con questa formula. Con il termine ‘umano’ si caratterizza così ciò che di più caduco e meschino esiste nell’uomo. A volte diventa addirittura sinonimo di bestiale».

Per concludere poi così: «Che bizzarro modo di esprimersi! L’umano è proprio quello che ci distingue dalla bestia. Umano è l’intelletto, il cuore, la volontà, la coscienza, la santità. Questo è umano». Non succederà, ma la speranza è che il combinato disposto delle parole di Massimo Bubola e della coppia Ratzinger-Saliège possa almeno procastinare l’uscita editoriale dell’ennesimo “Vangelo secondo De André”.

A Fabrizio De André, poeta che continua ad attraversare le generazioni con la forza evocativa della sua scrittura, dobbiamo solo gratitudine. Ma una gratitudine artistica. Ad una sua canzone, “Anime salve”, il cantautore affidò una sorta di domanda-testamento: «Quale sarà la mano che illumina le stelle?». Siamo certi che ora conoscerà la risposta.