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sabato 2 novembre 2019

Aldo Maria Valli: una testimonianza sui seminari new wave

Una bella e dolorosa testimonianza raccolta da Aldo Maria Valli.
Luigi

“Ecco come non sono diventato prete”

Cari amici di Duc in altum, vi propongo la testimonianza di un giovane che racconta la sua esperienza in seminario. Parole che non hanno bisogno di commenti.

A.M.V.

***
Gentile dottor Valli, ho letto gli interventi, da lei riportati, di giovani sacerdoti che hanno descritto le peripezie vissute in seminario, riuscendo infine a diventar sacerdoti. Io invece sono stato mandato via, alla fine del secondo anno di teologia, da un seminario regionale dell’Italia meridionale.
Cercherò ora di descrivere per sommi capi ciò che ho vissuto in quei due anni.

Dopo aver frequentato assiduamente la mia parrocchia di appartenenza, dal settembre del 2013 mi sono avvicinato all’ambiente del seminario
diocesano. Lì, attraverso la partecipazione agli incontri mensili di un gruppo di giovani come me, sperimentai tutta la bellezza del pregare insieme agli altri ascoltando le storie dei mei coetanei.

Così l’anno successivo, dopo alcuni colloqui con il vescovo e il parroco, decisi di entrare nel seminario minore.

I tre anni trascorsero davvero serenamente. Tempo di preghiera ben scandito, incontri formativi assidui, vita comune vissuta in un autentico spirito di comunione, educatori che non si limitarono a instaurare un rapporto freddo e formale, ma crearono le condizioni affinché io e i miei fratelli di comunità fossimo stimolati ad aprirci.

A conclusione di questo bel tempo, e in concomitanza con l’esame di maturità, mi fu posta la domanda: “Cosa avverti di dover fare?”. Domanda alla quale risposi affermando che volevo ancora mettermi in gioco dinnanzi al Signore Gesù, cercando di comprendere sempre meglio che cosa lui desiderasse dalla mia vita e quanto i miei sentimenti potessero coincidere con i suoi disegni.

La fine del terzo anno di seminario minore e del quinto anno scolastico, ma soprattutto l’estate successiva, rappresentarono per me un momento decisivo. Dopo l’esame di maturità, un pellegrinaggio a Lourdes mi diede coraggio.

Approdai così al seminario maggiore, dove, pensavo, sarei stato guidato verso la meta del presbiterato. Ma bastò poco tempo per rendermi conto che le cose non stavano proprio così.

Prima di tutto mi accorsi che la parola “sacerdote” non veniva mai pronunciata. Poi iniziai a notare alcune stranezze nel vivere i quattro “pilastri” indicati dai formatori: spirituale, pastorale, umano e culturale.

Aspetto spirituale

Quando mi parlarono di “aspetto spirituale” pensai che si riferissero al mio rapporto con la Parola, alla meditazione personale, al pregare con maggior amore e profondità il breviario, alle pratiche come il Santo Rosario e la Via Crucis. Scoprii presto che, al contrario, di breviario non si poteva neppure parlare (“lo fanno solo i pre-conciliari”, mi dissero) e che la vita spirituale era considerata in realtà l’ultimo, non il primo, dei quattro pilastri. Infatti chi si impegnava “troppo” nella vita spirituale non era lodato, ma giudicato “spiritualista”.

“Spritualista”, secondo l’educatore, era anche pretendere di ricevere la comunione in bocca e non sulla mano, recitare il Santo Rosario, eseguire canti mariani al termine della Santa Messa, indossare i paramenti liturgici per la preghiera del Vespro e di Compieta.

Di qui la nostra paura (mia e di altri seminaristi) che, recitando il Rosario in camera, potessimo essere scoperti e additati come “spiritualisti”.

Dopo che, nel mese di ottobre, il Papa invitò i fedeli a pregare l’Arcangelo Michele, io e altri seminaristi esprimemmo il desiderio di farlo anche nei mesi a seguire, ma la risposta dell’educatore fu: “Non esageriamo con le preghiere. Solo quelle necessarie”. E in base alla stesso logica fummo invitati a non portare in seminario immagini sacre o statuette devozionali.

Frequentemente accadde che la maggior parte della comunità non si presentasse alla celebrazione comunitaria delle lodi (ogni giovedì alle 7:30), ma nessuno riprese mai gli assenti. Al contrario, fu giudicato molto disonorevole non prendere il caffè tutti insieme, “un momento importantissimo – ci venne spiegato – per fare comunità”.

Un mio compagno di corso non partecipò per una settimana intera alle meditazioni in cappella, ma l’educatore non gli chiese alcuna spiegazione.

Nel tempo di Quaresima la Via Crucis tradizionale fu giudicata “troppo devozionale” e così ci venne chiesto di reinventarla e abbreviarla, per un massimo di cinque o sei stazioni.

Processioni? Neanche a parlarne: “Ricordate: la tradizione è un albero che voi cercate di mantenere, ma che prima o poi cadrà”.

Aspetto pastorale

La vita pastorale, altro pilastro, ci fu presentata come qualcosa da fare perché si deve fare. Punto.

Io, per un po’ di pratica, fui inviato in una parrocchia della stessa città del seminario e mi trovai benissimo. Doposcuola con i bambini, gruppo chierichetti, oratorio, incontri sulla Parola: tutto bello ed edificante. Ma quasi quasi venni scoraggiato. “Ti devi domandare – disse l’educatore – come mai ti rechi così presto in parrocchia”. Per lui era meglio prendere il caffè con gli altri in seminario. E quando, nel giorno della candelora, raccontai della bella celebrazione in parrocchia, mi gelò con questa osservazione: “Le candele? Si fanno ancora queste cose?”.

Ricordo anche che una volta un seminarista malato mi pregò di portargli la comunione in camera. Chiesi dunque il permesso all’educatore e questi osservò: “Lascia perdere. Non succede nulla se per un giorno non riceve l’ostia”.

Aspetto umano

Questo fu decisamente il “pilastro” considerato più importante in seminario: il pilastro dei pilastri.

Ma più che di aspetto umano bisogna parlare di aspetto psicologico, perché era la psicologia (a dire il vero molto spicciola) a dominare incontrastata.

Per esempio, vedendomi molto aperto verso il prossimo, l’educatore mi prese da parte e mi impose di farmi alcune domande, le stesse, mi disse, che il suo psicologo aveva consigliato a lui. Quando mi relaziono, perché lo faccio? Dove voglio arrivare? Se provo sentimenti positivi, perché li provo?

E se poi, con altri seminaristi, cercavo di immaginare il nostro futuro da preti, ecco l’ammonimento: “Non si devono toccare questi argomenti”.

Non so se lo facesse per le sue ricerche psicologiche, sta di fatto che l’educatore pretendeva di entrare in qualsiasi momento nelle nostre stanze, con una singolare motivazione: “Per poter diventare sempre più uniti, non dovremo più chiudere le nostre camere. Dobbiamo fidarci”.

Fu così che, in mia presenza, si permise di aprire l’armadio del mio compagno di camera, scattò alcune foto e poi raccomandò: “Noi non ci siamo mai visti”.

Se qualcuno di noi mostrava una predilezione per un altro seminarista, con il quale vivere un rapporto più stretto di amicizia e fraternità, subito arrivava la stroncatura: “Relazione morbosa”. Alla faccia della psicologia.

Aspetto culturale

Insieme a quello spirituale, questo fu il pilastro meno considerato. C’era sempre qualcosa di più importante da fare rispetto allo studio. Essere comunità, solo questo contava. E se qualcuno osava far presente che si perdeva tempo, la risposta era: “Tanto lo sappiamo che non studiate”.

Ecco, questi sono pochi accenni su quanto ho vissuto in seminario, prima dello stop che mi è stato imposto. La motivazione che mi fu data? “Non sei riuscito a comprendere cosa significhi la vera formazione”. Tutto qua. Ma che significa?

Quello che ho capito è che l’ossessione psicologica faceva cadere nello psicologismo. Mentre chi aveva a cuore la spiritualità era bollato come “spiritualista”. Di fatto in due anni non ascoltai mai un solo discorso dedicato a che cosa significhi diventare prete. Né mi furono mai raccontate vite di santi e di bravi sacerdoti.

Mi spiace dirlo, ma vissi quei due anni con la tristezza nel cuore, perché tutti i miei slanci furono repressi. Mai Gesù ci venne proposto come modello. E mai, nonostante l’enfasi sulla vita comunitaria, si instaurò un clima di fraternità.

Sfornare psicologi dilettanti, non ministri di Dio: questo l’obiettivo. Ricordo ancora una frase dell’educatore: “Non possiamo vivere di spiritualità. Troppo bigotti diventereste”. E se qualcuno osava indossare la talare, ecco il rimbrotto: “Vi siete messi l’abito da sera? Ma pensate alle cose essenziali”.

Fu così che venni mandato via, perché ritenuto non idoneo. Eppure sono un giovane che desidererebbe dedicarsi anima e corpo al ministero sacerdotale.

Lettera firmata

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