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martedì 8 gennaio 2019

Commento al Pater Noster di S. Tommaso d'Aquino


A proposito di "non ci indurre in tentazione" (punto 6 più sotto).
Da Una Vox.
Luigi
Tratto dal sito Amici Domenicani




Introduzione al Pater Noster


Tra tutte le preghiere la più eccellente è certamente quella del “Signore”, o “Padre nostro”. 
Essa possiede in sommo grado i cinque requisiti che ogni preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata, devota e umile.

1. E’ sicura
La preghiera, infatti, deve darci la sicurezza di poterci accostare “con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4, 16), e “con fede, senza esitare”, perché, come dice San Giacomo, “non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile” (Gc 1, 7-8). 

Ebbene, questa preghiera dà senz’altro molta fiducia perché è stata composta dal nostro Avvocato presso il Signore, l’Intercessore sapientissimo “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2, 3) e del quale si dice: “Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2, 1-2). Giustamente San Cipriano dice: “Avendo come avvocato dinnanzi al Padre, Cristo, che è difensore per i nostri peccati, lasciamo parlare il nostro Avvocato”. 

La sicurezza diventa ancora più grande e la nostra fiducia viene poi ulteriormente incoraggiata se si pensa a questo: che colui che ci ha insegnato questa preghiera, è lo stesso che, insieme al Padre, ha il compito di esaudirla, adempiendo quanto è detto nel salmo 91, 15: “Mi invocherà e gli darò risposta”. 
Per questo San Cipriano dice: “È una preghiera da amico e da familiare quella con la quale preghiamo Dio usando le sue stesse parole”. 
E indubbiamente è questa la ragione per cui questa preghiera non si recita mai senza frutto, sicché essa ci ottiene tra l’altro, come dice San Agostino, anche la remissione dei peccati veniali.

2. E’ retta
Ogni preghiera deve essere retta. Infatti ogni persona che prega deve chiedere a Dio le grazie che sono un bene per lui. San Giovanni Damasceno insegna che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi”. 
Ecco perché molte volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose che non sono un bene per noi, come dice San Giacomo: “Chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4, 3). 

Sapere che cosa chiedere è difficilissimo, perché è difficilissimo conoscere quali siano i veri beni da desiderare. Si chiede infatti lecitamente nella preghiera solo quello che è lecito desiderare. Lo rilevava già San Paolo quando scriveva ai Romani: “Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8, 26). 
Cristo però, che è nostro Maestro, ci ha personalmente insegnato quello che dobbiamo chiedere quando i discepoli gli chiesero: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11, 1). Perciò la nostra preghiera è rettissima quando chiediamo al Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere. Insegna in proposito Sant’Agostino: “Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto nella Preghiera del Signore”.

3. E’ ordinata
La preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio. 
Ebbene: il giusto ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelli della terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6, 33). E questo ordine appunto il Signore ci ha insegnato ad osservare nella sua preghiera, nella quale ci fa domandare prima i beni celesti e poi quelli terreni.

4. E’ devota
La preghiera deve essere anche devota, perché l’abbondanza della devozione rende il sacrificio dell’orazione accetto a Dio, secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sal 63, 5-6). 

La devozione si stempera se la preghiera è prolissa. Per questo il Signore stesso ci ha comandato di evitare lungaggini. “Pregando non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7). 
Sant’Agostino, scrivendo a Proba, le dà il seguente avvertimento: “Lungi dalla preghiera le molte parole. Non manchi però il molto supplicare finché dura il fervore”. Ecco perché il Signore ha voluto che questa preghiera fosse breve. 
La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall’amore di Dio e del prossimo. E questi due amori vengono raccomandati nella preghiera del Pater. 

L’amore di Dio viene stimolato quando, rivolti a Lui, lo chiamiamo “Padre”. 
L’amore del prossimo invece viene stimolato quando, in comunione con tutti, preghiamo per tutti dicendo al plurale: “Padre Nostro”. E “rimetti a noi i nostri debiti”. L’amore del prossimo infatti conduce a questo.

5. E’ umile
Da ultimo, la preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell’umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102, 18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 10-14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt9, 11). 
E questa umiltà viene osservata nel Padre Nostro. Infatti si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole.

La preghiera del Pater è la più eccellente fra tutte anche perché produce tre vantaggi.
Quanto ai vantaggi, questa preghiera procura tre grandi benefici.

1. E’ rimedio utile ed efficace contro il male perché: 
libera dai peccati commessi: “Tu hai perdonato la malizia del mio peccato. Per questo ti prega ogni fedele” (Sal 32, 5- 6). 
Il ladrone in croce pregò così e ottenne il perdono: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23, 43), e per la sua preghiera il pubblicano tornò a casa giustificato (cf. Lc 18, 14). 

Libera inoltre dalla paura dei peccati imminenti, dalle tribolazioni e dalle tristezze. Dice la Scrittura: “Uno di voi è triste? Preghi” (Gc 5, 13). 

Libera infine dalle persecuzioni e dai nemici. Diceva al riguardo il salmista: “Invece di volermi bene, mi colpivano; ma io pregavo” (Sal 109, 4).

2. E’ il mezzo efficace e utile per ottenere tutto ciò che desideriamo.
 Lo ha promesso Gesù: “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11, 24). 
Se poi non veniamo esauditi, è perché non ci atteniamo alla esortazione del Signore di “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18, 1). 
Oppure perché non chiediamo quello che è meglio per la nostra salvezza, come dice Sant’Agostino: “È buono il Signore, il quale spesso non ci dà quel che vogliamo, per darci quello che dovremmo preferire”. Ciò si riscontra in San Paolo, che per tre volte chiese di venire liberato da una spina nella carne, ma non fu ascoltato (cf. 2 Cor 12, 7). 

3. E’ utile poi perché ci rende familiari a Dio, così da potergli dire con confidenza: “Come incenso salga a te la mia preghiera” (Sal 141,2).

Padre

Su questa invocazione facciamo due riflessioni: in che senso Egli è Padre e quali siano i nostri doveri verso di Lui in quanto Padre.

Viene detto nostro Padre innanzitutto in ragione del modo speciale con cui ci ha creati, perché ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1, 26): il che non fece invece con le altre creature. Così infatti la Scrittura: “É lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito” (Dt 32, 6). 
Viene poi detto Padre per il modo speciale con cui ci governa. 

Governa, è vero, anche tutti gli altri esseri, ma governa noi lasciandoci padroni di noi stessi. Gli altri, invece, li governa come schiavi. Questa cosa è bene espressa dal Libro della Sapienza: “Tutto è governato, o Padre, dalla tua Provvidenza... Tu ci tratti con grande riverenza” (Sap 14, 3; 12, 18). 


Viene detto Padre anche per averci adottati. Se, infatti, alle altre creature egli ha fatto dei regalini, a noi invece ha dato l’eredità. E questo perché siamo suoi figli, e “se figli, siamo anche eredi” (Rm 8,17). Sicché l'Apostolo può dire: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi e di paura, ma avete ricevuto lo Spirito dei figli adottivi che ci fa esclamare ‘Abbà, Padre’” (Rm 8, 15).

Da parte nostra quattro sono i doveri che derivano da questa paternità

1. Gli dobbiamo anzitutto onore. 
Dio dice per bocca di Malachia: “Se io sono il Padre, dov’è l’onore che mi spetta?” (Ml 1, 6). E questo onore si deve manifestare in tre modi. 

Primo, nel dare lode a Dio, come dice il salmista: “Chi offre il sacrificio di lode, questi mi onora” (Sal 50, 23). Lode, però, che non deve essere solo un omaggio delle labbra ma del cuore, per non meritare il rimprovero che Dio rivolgeva al popolo ebraico: “Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is29, 13). 

Secondo, lo onoriamo in noi stessi accogliendo l’esortazione di San Paolo: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6, 20). 

Terzo, lo onoriamo nel prossimo col giudicarlo equamente, perché Dio è un “Re potente che ama la giustizia” (Sal 99, 4).

2. Inoltre dobbiamo imitarlo. 
Dio dice a Geremia: “Voi mi direte: ‘Padre mio’, e non tralascerete di seguirmi” (Ger 3, 19). 

Questa imitazione si attua in tre modi: 

Primo, con l’amarlo, come ci ricorda San Paolo: “Fatevi imitatori di Dio quali figli carissimi, e camminate nella carità” (Ef 5, 1). Questo amore deve essere evidentemente nel nostro cuore. 

Secondo, lo dobbiamo imitare nell’esercitare la misericordia, come ci ha ordinato il Signore: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6, 36). 

Terzo, lo imitiamo tendendo alla perfezione, perché l’amore e la misericordia devono essere perfetti: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48).

3. Dobbiamo obbedirgli. 
E’ infatti nostro Padre. Come dice San Paolo “Noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita?” (Eb 12, 9). Questa obbedienza gli è dovuta per tre motivi. 

Primo, per il dominio che ha su di noi, essendo egli il Signore di tutte le cose, per cui “quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24, 7). 

Secondo, per l’esempio che il suo vero Figlio ci ha dato “facendosi obbediente al Padre fino alla morte” (Fil 2, 8). 

Terzo, per il vantaggio che ne ricaviamo, come rispose Davide a Mikal che lo disprezzava per aver ballato davanti all’Arca: “L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre” (2 Sam 6, 21).

4. Dobbiamo essere pazienti nelle prove che ci manda. 
Dice infatti il Libro dei Proverbi. “Figlio mio, non disprezzare l'istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3, 11- 12).

Nostro

Da questo aggettivo scaturiscono due doveri verso il prossimo.
1. Il primo è l’amore, perché sono nostri fratelli in quanto tutti gli uomini sono figli di Dio e “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4, 20).
2. Il secondo è il rispetto, perché sono figli di Dio. Per cui Malachia si chiede: “Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?” (Ml 2, 10). San Paolo ci esorta: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12, 10). 

Ciò ridonda a nostro vantaggio, perché “per tutti coloro che gli obbediscono egli divenne causa di salvezza eterna” (Eb 5, 9).

Che sei nei cieli

Molte sono le cose necessarie per chi si mette a pregare.
Ma la più importante è la fiducia. San Giacomo dice: “Chieda con fede, senza esitare” (Gc 1, 6). 
Perciò il Signore, insegnandoci a pregare, presenta anzitutto le due realtà che servono per generare in noi la fiducia: la benignità del Padre e il suo immenso potere.
La benignità del Padre è messa in risalto dall’invocazione iniziale “Padre Nostro”. Egli infatti ha detto: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Lc 11, 13).
L’immensità del suo potere è messa in risalto dalle parole “che sei nei cieli”. A questo allude il salmo quando dice: “A te levo i miei occhi, a te che abiti nei cieli” (Sal 123, 1).

L’espressione “che sei nei cieli” si riferisce a tre cose.

In primo luogo alla preparazione di chi si mette a pregare, secondo l’ammonimento che ci viene dalla Scrittura: “Prima dell’orazione prepara l’anima tua, per non essere come uno che tenta Dio” (Sir 18, 23). 
Sicché nell’espressione “nei cieli”, che si può intendere per “gloria celeste”, possiamo vedere un richiamo a quel premio che il Signore ha promesso agli Apostoli quando disse: “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5, 12).
E questa preparazione deve avvenire imitando gli esseri del cielo, ossia del Padre celeste, perché il figlio deve imitare il Padre, secondo quanto dice S. Paolo: “Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 Cor 15, 49).

La preparazione alla preghiera si fa anche tramite la contemplazione delle realtà celesti, perché gli uomini sogliono dirigere con più frequenza il loro pensiero là dove hanno il padre e le altre cose che amano. Infatti “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 21). A ragione dunque San Paolo diceva che “il nostro interesse sta nei cieli” (Fil 3, 20).
Infine la preparazione all’orazione si fa col desiderio e col tendere alle cose del cielo, in modo che a Colui che è nei cieli chiediamo soltanto beni celesti, secondo quanto si legge nella lettera ai Colossesi: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo” (Col 3, 1).

L’espressione “che sei nei cieli” indica anche la facilità con la quale il Signore ci ascolta, perché ci è vicino.
 In tal caso per cieli vanno intesi i santi, nei quali Dio abita, perché, secondo quanto dice Geremia, egli abita in mezzo a noi (cfr. Ger 14,9). E anche quando il salmista dice: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19,2), la parola cieli va presa per santi.
Dio abita nei santi in tre modi:
mediante la fede, per cui S. Paolo esorta gli Efesini: “Cristo abiti per la fede nei vostri cuori” (Ef 3, 17);
mediante l’amore, perché “chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16);
e infine mediante l’osservanza dei comandamenti, perché dice il Signore: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23).

L’espressione “che sei nei cieli” allude anche al particolare potere di Colui che ci esaudisce. 
In tal senso la parola cieli indica i cieli materiali, non quasi volessimo affermare che Dio vi sia contenuto, essendo scritto di Lui, che “i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti” (1 Re, 8, 27); ma per significare che Dio 
è perspicace nello sguardo, perché vede dall’alto, come dice il salmista: “Egli si volge alla preghiera del misero e non disprezza la sua supplica... si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra” (Sal 102, 18-20); 
è sublime nel potere, perché “ha stabilito nel cielo il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103, 19); 
è stabile nella sua eternità perché di lui dice ancora il salmista: “I tuoi anni durano per ogni generazione... i tuoi anni non hanno fine” (Sal 102, 25-28). 
E di Cristo si dice che “il suo trono durerà come i giorni del cielo” (Sal89, 30). 
E Aristotele dice che, per la loro incorruttibilità, tutti i popoli ritennero che i cieli fossero la sede degli esseri spirituali.
Per questo le parole “che sei nei cieli” ci danno fiducia nel pregare per tre ragioni: 
per il potere di Colui al quale ci rivolgiamo, per la familiarità di Colui al quale chiediamo, e per le condizioni richieste per la preghiera.

Il potere di Colui al quale ci rivolgiamo emerge chiaramente se per cieli intendiamo i cieli fisici, quantunque Dio non vi risieda né sia racchiuso in essi secondo quanto egli dice di sé: “Non sono forse io a riempire i cieli e la terra?” (Ger 23, 24).

Affermando che Egli è nei cieli vengono suggeriti due suoi attributi: la virtù della sua potenza e la sublimità della sua natura.

La virtù della sua potenza elimina l’errore di quanti pensano che tutto succeda per necessità, quasi in forza di un destino derivante dagli astri. Per costoro sarebbe inutile chiedere qualcosa a Dio nella preghiera. Ma questa è una opinione stolta, perché quando si dice che egli è nei cieli, si vuole affermare che egli vi è come Signore dei cieli e delle stelle, secondo quanto afferma anche il salmo: “Il Signore ha stabilito nei cieli il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo” (Sal 103, 19). 


Il secondo attributo divino, e cioè la sublimità della sua natura, è contro l’abitudine di coloro che nel pregare costruiscono fantasie materialistiche riguardo a Dio. Si dice nei cieli perché, indicando ciò che è il più alto tra le cose sensibili, si viene ad affermare la sua divina sublimità che tutto trascende, compresi l’intelligenza e i desideri umani. Sicché qualunque cosa si possa pensare o desiderare è sempre meno di Dio, come mettono in evidenza questi testi della Sacra Scrittura: “Ecco, Dio è così grande che non lo comprendiamo” (Gb 36, 26); “Su tutti i popoli eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria” (Sal 113 [112], 4); “A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto?” (Is 40, 18).


L’espressione “che sei nei cieli” indica la familiarità con Lui, se per cieli si intendono i Santi. 
Poiché alcuni, a causa della divina trascendenza, affermarono che Dio non si cura delle cose umane, occorre considerare quanto invece egli sia vicino a noi, anzi intimo. Per questo si dice che è nei cieli, cioè nei santi, secondo il significato di questa parola del salmo sopra citato: “I cieli narrano la gloria di Dio” (Sal 19, 2). Vicinanza e intimità che ci vengono ricordate anche dal profeta Geremia quando afferma: “Tu sei in mezzo a noi, Signore” (Ger 14, 9).

Queste considerazioni infondono fiducia in chi prega per due motivi. 

Primo, perché ci rassicurano della vicinanza di Dio, come dice il salmo: “Il Signore è vicino a quanti lo invocano” (Sal 145, 18) e come afferma Gesù: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera”, ossia nella camera del tuo cuore (Mt 6, 6). 

Secondo, perché l’intercessione degli altri santi ci fa ottenere quanto desideriamo, secondo il consiglio dato a Giobbe: “Rivolgiti a qualcuno dei Santi” (Gb 5, 1) e l’esortazione di San Giacomo: “Pregate gli uni per gli altri... molto vale la preghiera del giusto” (Gc 5, 16).

L’espressione “che sei nei cieli” indica infine l’adeguatezza e l’idoneità della nostra preghiera. 
Infatti la nostra preghiera ha le dovute condizioni se nella formula “che sei nei cieli” prendiamo i cieli per i beni spirituali ed eterni, nei quali è riposta la nostra eterna felicità. E questo per due motivi. 

Primo, perché così si accende in noi il desiderio delle realtà celesti. Il nostro desiderio deve essere rivolto là dove abbiamo il Padre, perché là c’è la nostra eredità. Dicono gli Apostoli: “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3, 1) e “per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1 Pt 1, 4). 

Secondo, perché così la nostra vita si modella fino a diventare celeste, e noi diventiamo conformi al Padre celeste, secondo quanto si legge: “Quale è il Celeste, così anche i celesti” (1 Cor 15, 48). 
Infatti il desiderio di cose celesti e una vita celeste sono le due cose che rendono l’orante idoneo a chiedere. E per esse la preghiera ha quello che deve avere per domandare.

1 - Prima domanda: sia santificato il tuo nome

È questa la prima domanda della preghiera insegnataci dal Signore, con la quale chiediamo che il nome di Dio si manifesti e risplenda in noi.

Ora, il nome di Dio è meraviglioso: perché opera meraviglie in tutte le creature. Dice infatti Gesù nel Vangelo parlando dei futuri credenti: “Nel mio nome scacceranno i demóni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati, e questi guariranno” (Mc 16, 17).

Il nome di Dio è amabile: perché “non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At4,12). E la salvezza tutti dobbiamo amarla. 
Abbiamo in proposito l’esempio del Santo vescovo Ignazio, il quale amò tanto il nome di Cristo che, quando Traiano gli chiese di rinnegarlo, rispose: “Non riuscirai a togliermelo dalla bocca”. 
E quando minacciò di tagliargli la testa per levarglielo dalla bocca, egli rispose: “Anche se tu me lo togliessi dalla bocca, non potrai togliermelo dal cuore”. Allora Traiano gli volle tagliare la testa e comandò che gli fosse estratto il cuore: e fu trovato che recava il nome di Cristo a caratteri d’oro. Il martire l’aveva messo sul proprio cuore come un sigillo (Ct 8, 6).

Il nome di Dio è venerabile. 
Dice San Paolo: “Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni alto nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2, 9-10). 
Gli esseri dei cieli sono gli Angeli e i beati, e si inginocchiano per amore. 
Gli esseri della terra sono coloro che vivono in questo mondo e lo fanno per il desiderio di conquistare la gloria e per fuggire la pena. 
Gli esseri che stanno sotto terra sono i dannati, che lo fanno per paura.

Il nome di Dio è ineffabile: perché ogni lingua è incapace di esprimerlo. Per questo la Scrittura a volte ricorre a metafore prese dalle creature. Così nel Vangelo per la sua fermezza viene detto Pietra, come nella frase: “su questa Pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18). Oppure per la sua virtù purificatrice viene detto fuoco, perché, come il fuoco purifica i metalli, così Dio purifica i cuori dei peccatori: “Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore” (Dt 4, 24). E per la sua virtù di illuminare viene detto luce, perché, come la luce illumina le tenebre materiali, così Dio illumina quelle della mente. Per questo il salmista diceva: “Tu, Signore, sei luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre” (Sal 18, 29).

Per tutte queste ragioni chiediamo che questo santo nome sia a tutti manifestato e da tutti sia riconosciuto e tenuto per santo.
Santo ha tre significati. 

Innanzitutto può indicare ciò che è sancito, e perciò fermo, stabile. Si comprende allora perché i beati del cielo siano chiamati santi, per la loro stabilità nella eterna felicità. Sulla terra, invece, non possiamo essere santi in quanto siamo continuamente instabili, come rilevava Sant’Agostino di se stesso: “Signore, sono scivolato lontano da te e ho troppo errato, sono stato incostante lontano dalla tua stabilità”.

Santo può significare anche “non terreno”. I Santi che stanno in cielo non hanno più alcun affetto per le cose del mondo. Ad essi si può infatti applicare quello che San Paolo diceva di sé: “Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura” (Fil 3, 8).
Va notato che qui per terra sono da intendere i peccatori. E per tre motivi. 

Primo, per la somiglianza che c’è tra questi e quelli. I peccatori assomigliano alla terra in ragione del frutto. Infatti la terra se non viene coltivata produce soltanto rovi e spine, come si legge nella Scrittura: “Spine e rovi produrrà per te” (Gen 3, 18). Analogamente l’anima del peccatore, se non è coltivata dalla grazia, produce solo i rovi e le punture del peccato. 

Secondo, a motivo dell’opacità: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso” (Gen 1, 2). 

Terzo, per l’aridità. La terra infatti è un elemento secco ed è portato a sfaldarsi se non è tenuto compatto dall’umidità dell’acqua. Ed è per questo che la natura pose la terra vicino alle acque, secondo quanto dice il salmista: “Ha stabilito la terra sulle acque” (Sal 136, 6), perché l’umore dell’acqua elimina l’aridità o secchezza della terra. Analogamente il peccatore ha l’anima secca e arida, come dice il salmista: “Sono davanti a te come terra riarsa” (Sal 143, 6).

Infine il termine santo significa ciò che è tinto dal sangue. Perciò i santi del cielo vengono chiamati santi perché tinti dal sangue, secondo quanto sta scritto: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7, 14). E del Signore possono dire: “Ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Ap 1, 5).

2 - Seconda domanda: venga il tuo Regno

Lo Spirito Santo ci insegna ad amare, desiderare e chiedere rettamente. E in questo modo produce in noi il dono del Timore, dal quale siamo spinti a chiedere che il nome di Dio sia santificato. 
Egli produce anche un secondo dono, ed è quello della Pietà, la quale propriamente è un dolce e devoto affetto verso il Padre e verso qualsiasi persona che soffre. Dio è nostro Padre, e verso di lui non dobbiamo avere soltanto rispetto e timore, ma anche un dolce e pio affetto.
E questo affetto ci spinge a chiedere che venga il regno di Dio vivendo “con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio” (Tt 2, 12-13).

Qualcuno potrebbe obiettare: “Il Regno di Dio c’è sempre stato: perché allora chiedere ancora che esso venga?”. Ebbene, la nostra richiesta si può intendere in tre modi.

1°- Un re può aver diritto a un regno e a governarlo. Ma può capitare che il suo potere non sia ancora effettivo, perché le persone del regno non gli sono ancora soggette. Il suo regno sarà reale solo quando le persone di quel regno gli saranno sottomesse. 
Ora Dio per sua natura è già Signore di tutti gli esseri. E lo è anche Cristo in quanto Dio. Ma in quanto uomo, sebbene Dio gli abbia dato “potere, gloria e regno” (Dn 7, 14), il suo regno non è ancora effettivo. È necessario pertanto che tutti gli esseri gli siano soggetti e questo avverrà alla fine dei tempi: “Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi” (1 Cor 15, 25). Ecco perché possiamo dire: “Venga il tuo regno”.
E lo diciamo per tre finalità: per la conversione dei giusti, la punizione dei peccatori, la distruzione della morte. 

In effetti gli uomini saranno assoggettati a Cristo in due modi: spontaneamente o contro la loro volontà. 
Siccome la volontà di Dio è talmente efficace da doversi compiere in ogni caso ed egli vuole che tutti gli esseri vengano sottomessi a Cristo, non resta agli uomini che questa alternativa: o fare la volontà di Dio sottoponendosi spontaneamente, come fanno i giusti, alle sue disposizioni, oppure subirla quando Dio imporrà loro la sua volontà, come fa coi peccatori e coi suoi nemici, punendoli. 
Ma questo avverrà alla fine dei mondo, quando egli “porrà i suoi nemici a sgabello dei suoi piedi” (Sal 110, 1). 
Di conseguenza mentre è cosa dolce per i santi chiedere che venga il Regno di Dio, perché è chiedere di essere totalmente assoggettati a lui, per i peccatori invece è cosa spaventosa, perché per loro, chiedere che venga il Regno di Dio equivale a chiedere di essere sottoposti alle pene che infliggerà loro la volontà di Dio. 
A costoro si rivolgeva minaccioso il profeta Amos quando diceva: “Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che sarà per voi il giorno del Signore? Sarà tenebre e non luce” (Am 5, 18). 
E con ciò stesso sarà distrutta anche la morte. Infatti essendo Cristo la vita stessa, non può esservi nel suo regno la morte che è negazione della vita. Per questo San Paolo dice: “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Cor15, 26). La distruzione della morte avverrà nella risurrezione, quando il Signore Gesù “trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3, 21).

2°- Per Regno di Dio si può intendere la gloria del Paradiso. 
Non sembri strana questa interpretazione perché dire regno è dire regime. Ora il miglior regime è quello dove non si fa nulla contro la volontà di chi governa. 
Ebbene Dio vuole la salvezza degli uomini: “Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). 
Ma questo si avvera in modo perfetto in Paradiso, dove nulla contrasterà più la salvezza degli uomini: “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità” (Mt 13, 41). 
In questo mondo, invece, molti sono gli impedimenti che ostacolano la salvezza degli uomini. 
Pertanto, quando nella preghiera diciamo “venga il tuo Regno”, chiediamo di essere fatti partecipi del Regno celeste e della gloria del Paradiso.
E questo Regno è sommamente desiderabile per tre motivi. 

Primo, per la somma giustizia che vi regna, perché lì si avvera quanto ha detto il profeta: “Il tuo popolo sarà tutto di giusti” (Is 60, 21). Mentre quaggiù i buoni sono mescolati coi cattivi, lassù invece non vi sarà nessun peccatore o malvagio. 

E’ desiderabile poi per la perfettissima libertà che lì c’è. Mentre infatti qui in terra non c’è libertà, nonostante che per impulso naturale tutti la desiderino, in cielo vi sarà totale libertà contro ogni sorta di schiavitù: “la creazione stessa attende con impazienza... di essere liberata dalla schiavitù della corruzione” (Rm 8, 19-21).
Anzi in Paradiso tutti non soltanto saranno liberi, ma regneranno. Dice infatti l’Apocalisse: “Li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra” (Ap 5, 10). 
E ne è motivo il fatto che tutti avranno una volontà sempre all’unisono con quella di Dio, in quanto Dio vuole quello che vogliono i santi e questi quello che vuole Dio; sicché la volontà di Dio diventa loro volontà. 
Perciò tutti regneranno, perché sarà fatta la volontà di tutti e Dio sarà la corona di tutti: “In quel giorno sarà il Signore degli eserciti una corona di gloria, uno splendido diadema per il resto del suo popolo” (Is 28, 5). 

Questo regno sarà infine desiderabile per la mirabile abbondanza di beni: “Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori dite, abbia fatto tanto per chi confida in lui” (Is 64, 3). E ancora: “Egli sazia di beni i tuoi desideri” (Sal 103, 5). 

Si noti che l’uomo troverà solo in Dio tutti i beni e in una misura tanto più eccellente e perfetta di quanto si possa desiderare in questo mondo. 
Vai tu in cerca del piacere? Lo troverai in Dio in sommo grado. 
Desideri le ricchezze? Avrai in abbondanza quei beni a cui le ricchezze sono ordinate. 
E così si dica di ogni altro bene. 
Sant’Agostino dice nelle sue Confessioni: “L’anima quando col peccato si allontana da te va cercando al di fuori di te quella purezza e quella limpidità che si può trovare se non tornando a te”.

3° C’è poi un terzo modo di intendere il Regno di Dio. Talvolta in questo mondo a regnare è il peccato. E questo succede quando l’uomo è disposto a seguire e ad assecondare pienamente l’inclinazione al peccato, mentre San Paolo ammonisce: “Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri” (Rm 6, 12). 
Dio invece deve regnare nel tuo cuore, come dice Isaia: “dice a Sion, ‘regna il tuo Dio’” (Is 52, 7). E questo avviene quando l’uomo è pronto ad obbedire a Dio e ad osservare i suoi comandamenti. 

Quando preghiamo che venga il Regno di Dio, noi chiediamo che non regni in noi il peccato, ma Dio. 
Questa richiesta ci fa giungere alla beatitudine menzionata da Matteo 5, 4: “Beati i miti”. 
Infatti, dal momento che l’uomo desidera che Dio sia Signore di tutti, non si vendica da sé delle offese ricevute ma riserva tutto ciò a Dio. 
Se infatti ti vendicassi, non chiederesti che venga il Regno di Dio. 
Inoltre se tu aspetti il Regno di Dio, cioè la gloria del Paradiso, non devi preoccuparti della perdita delle cose del mondo. 
E infine se tu chiedi che in te regni Dio e regni Cristo, dal momento che Cristo è stato mitissimo, anche tu devi essere mite: “Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore” (Mt11, 29). E “avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi” (Eb 10, 34).

3 - Terza domanda: sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra 

Il terzo Dono prodotto in noi dallo Spirito Santo è il Dono della Scienza. 
Lo Spirito Santo, infatti, non solo produce in noi il Dono del Timore e della Pietà, la quale, come si è detto, è un dolce affetto verso Dio, ma fa sì che l’uomo diventi anche sapiente. Questo chiedeva Davide quando diceva: “Insegnami il senno e la saggezza, perché ho fiducia nei tuoi comandamenti” (Sal 119, 66). E questa è la Scienza insegnataci dallo Spirito Santo per la quale l’uomo vive bene. 
Ora tra i vari insegnamenti che riguardano la scienza e la sapienza dell’uomo, il più alto è quello che insegna a non confidare nel proprio giudizio, come dice il Libro dei Proverbi: “Non appoggiarti sulla tua intelligenza” (Pr 3, 5). 
Infatti quelli che presumono nel proprio giudizio al punto da non credere agli altri, ma solo a se stessi, sono sempre trovati e giudicati stolti. Si legge nei Proverbi: “Hai visto un uomo che si crede saggio? È meglio sperare in uno stolto che in lui” (Pr 26, 12). 

E’ proprio dell’umiltà che l’uomo poi non creda solamente al proprio giudizio: questa infatti ha la sua radice nella sapienza, come si legge in Pr 11, 2: “i superbi confidano troppo in se stessi”. 
Questo ce lo insegna lo Spirito Santo col Dono della Scienza, affinché non facciamo la nostra volontà ma quella di Dio. E in forza di questo Dono chiediamo a Dio che si faccia la sua volontà come in cielo così in terra.

In questo si manifesta il Dono della Scienza: perché quando chiediamo a Dio che si faccia la sua volontà, noi ci mettiamo press’a poco nell’atteggiamento di un malato che per guarire chiede al medico qualcosa. E non chiede specificando che cosa vuole, ma si rimette alla sua volontà. Diversamente se facesse solo di sua testa, sarebbe uno stolto. Così anche noi dobbiamo chiedere a Dio nient’altro al di fuori del compimento della sua volontà, e cioè che la sua volontà si compia in noi.
Solo allora infatti il cuore dell’uomo è retto: quando concorda con la volontà divina. 
Così ha fatto Cristo: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 6, 38). Cristo infatti, in quanto è Dio, ha la medesima volontà del Padre. Ma, in quanto uomo, ha una volontà distinta da quella del Padre. E secondo questa volontà dice di non fare la volontà propria ma quella del Padre. E perciò ci insegna a pregare e a chiedere: “Sia fatta la tua volontà”.

Ma qual è il significato di questa domanda? Non dice forse il salmista che “tutto ciò che vuole il Signore lo compie in cielo e sulla terra” (Sal 135, 6)? Se Egli fa tutto quello che vuole sia in cielo che in terra, quale senso può avere il chiedere che si faccia la sua volontà?
Per capire questo, bisogna sapere che Dio nei nostri riguardi vuole tre cose. E noi chiediamo che queste tre cose si realizzino.

La prima cosa che Dio vuole da noi, è che noi possediamo la vita eterna. Chi fa una cosa per un determinato scopo, vuole che quella cosa raggiunga lo scopo. Ora Dio ha fatto l’uomo, ma non senza uno scopo, per il nulla. Dice il Salmo: “Forse che hai creato invano tutti i figli degli uomini?” (Sal 88, 48). 
Ebbene, Egli ha creato gli uomini per un fine: non però per le voluttà dei sensi, perché queste le possiedono anche gli animali, ma perché possiedano la vita eterna. 

Il Signore dunque vuole che l’uomo abbia la vita eterna. Ora, quando un essere consegue il fine per cui è stato fatto, si dice che si salva, e quando non lo consegue si dice che si perde. E siccome Dio ha fatto l’uomo per la vita eterna, questi si salva quando la consegue. E questo Dio vuole: “Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 6, 40). 
Questa volontà è già compiuta negli Angeli e nei santi che sono nella Patria celeste perché vedono Dio e fruiscono di lui. Ma noi desideriamo che la volontà di Dio si compia in noi che siamo in terra così come si è compiuta nei santi in cielo. 
E questo chiediamo quando diciamo: “Sia fatta la tua volontà”.

La seconda cosa che Dio vuole da noi, è che osserviamo i suoi comandamenti. 
Chi infatti desidera una cosa non solo vuole ciò che desidera, ma anche i mezzi per conseguirla. Anche il medico, che vuole la guarigione del malato, vuole nello stesso tempo la dieta, le medicine e quanto altro è necessario per la sua salute. 
Ebbene, come Dio vuole che noi conseguiamo la vita eterna, così vuole anche che facciamo quanto è necessario per conseguirla, e la conseguiamo osservando i suoi comandamenti. Dice il Signore: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” (Mt 19, 17). E San Paolo: “Sia razionale il vostro culto... per ravvisare quale sia la volontà di Dio, buona, gradevole e perfetta” (Rm 12, l 2). 
Buona perché è utile, in quanto, come dice Isaia: “Io sono il Signore tuo Dio che ti insegno per il tuo bene, che ti guido per la strada su cui devi andare” (Is 48, 17). 

Gradevole perché, anche se non è piacevole per gli altri, è dilettevole per chi ama Dio. Si legge nel Salmo: “Una luce si è levata per il giusto, gioia per i retti di cuore” (Sal 97, 11). 

Perfetta perché è bella spiritualmente, in quanto il Signore ci vuole “perfetti com’è perfetto il Padre celeste” (Mt 5, 47). 

Perciò quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, noi chiediamo di poter osservare i comandamenti di Dio. Ma questa volontà di Dio mentre si compie nei giusti, che vengono indicati con la parola cielo, non si compie ancora nei peccatori, indicati con la parola terra. Pertanto chiediamo che si compia la volontà di Dio in terra, ossia nei peccatori, come in cielo, ossia nei giusti.

Anche dalla terminologia adoperata ci viene un insegnamento. Non dice: fa’, e neppure facciamo; ma sia fatta la tua volontà, perché per avere la vita eterna sono necessarie due cose: la grazia di Dio e la volontà dell’uomo. Infatti sebbene Dio abbia creato l’uomo senza l’uomo, tuttavia non lo giustifica senza la sua cooperazione. Dice Sant’Agostino: “Chi ha creato te senza di te, non giustificherà te senza di te”, perché egli vuole che l’uomo cooperi. “Convertitevi a me e io mi rivolgerò a voi” (Zc 1, 2); e San Paolo: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana” (1 Cor 15, 10). 
Non presumere perciò di te stesso ma confida nella grazia di Dio, e non essere negligente, ma impegnati. Per questo non si dice facciamo, affinché non sembri che nulla operi la grazia di Dio, e neppure fa’, affinché non sembri che nulla operino la nostra volontà e il nostro sforzo, ma sia fatta, cioè per la grazia di Dio e per l’impegno e lo sforzo nostro.

La terza cosa che Dio vuole per noi è che siamo restituiti allo stato e alla dignità in cui fu creato il primo uomo: stato e dignità così grandi, che il suo spirito e la sua anima non provavano nessuna ribellione da parte della carne e della sensualità. Finché la sua anima rimase soggetta a Dio, anche il corpo rimase così soggetto allo spirito da non sperimentare alcuna corruzione, né di morte, né di malattia, né di altre passioni. 

Da quando invece lo spirito e l’anima, che era intermediaria tra Dio e la carne, col peccato si è ribellata a Dio, anche il corpo si è ribellato all’anima e da allora cominciò a sperimentare la morte e la malattia e una continua ribellione della sensualità allo spirito. Descrivendo questa condizione San Paolo dice: “Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente” (Rm 7, 23) e “la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17). 
Vi è dunque una continua lotta tra la carne e lo spirito, e l’uomo con il peccato va sempre più peggiorando. È pertanto volontà di Dio che l’uomo venga restituito allo stato primitivo, in modo che nella carne non ci sia nulla che contrasti lo spirito: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Ts 4, 3). 


Questa volontà di Dio non potrà realizzarsi in questa vita, ma solo nella risurrezione dei santi, quando il corpo risorgerà glorificato e sarà incorruttibile e nobilissimo, perché “si semina ignobile e risorge glorioso” (1 Cor 15, 43). 
Essa, quanto allo spirito, si compirà nei giusti mediante la giustizia, la conoscenza e la vita. 
E perciò, quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, preghiamo che essa si compia anche nella carne, dove con la parola cielo intendiamo lo spirito e con terra intendiamo la carne. 
Questo allora il significato: “Sia fatta la tua volontà”, “così in terra”, ossia nella nostra carne, “come in cielo”, ossia nel nostro spirito mediante la giustizia. 

Grazie a questa invocazione, noi giungiamo a quella beatitudine del pianto di cui ha parlato il Signore: “Beati gli afflitti perché saranno consolati” (Mt 5, 4). 

E ciò si verifica in ciascuna delle tre spiegazioni.
In base alla prima: poiché desideriamo la vita eterna, il vederla differita ci è causa di afflizione, come dice anche il Salmo: “Ahimè, è stato prolungato il mio soggiorno” (Sal 120, 5). Questo desiderio del cielo nei santi è stato talvolta tanto grande da far loro desiderare la morte, che di per sé andrebbe evitata. Dice San Paolo: “Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore” (2 Cor 5, 8). 

Ma anche in base alla seconda interpretazione, quelli che osservano i comandamenti di Dio sono anch’essi nell’afflizione, perché per quanto essi siano dolci all’anima, sono però amari per la carne, che è continuamente macerata. Dice il Salmo: “nell’andare, se ne va e piange” quanto alla carne, “ma nel tornare, viene con giubilo” quanto all’anima (Sal 126, 6). 

Ugualmente in base alla terza spiegazione, dalla lotta che c’è continuamente tra la carne e lo spirito, ne deriva l’afflizione. È impossibile infatti che l’anima non rimanga ferita dalla carne, almeno per quanto riguarda i peccati veniali. E, dovendoli espiare, è nel pianto. Dice il salmista: “Ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio”, cioè le oscurità del peccato, “irroro di lacrime il mio letto” (Sal 6, 7), cioè la mia coscienza. 
E coloro che in questo modo piangono, giungono alla Patria, alla quale ci conduce Dio.

4 - Quarta domanda: dacci oggi il nostro pane quotidiano

La domanda è formulata in virtù del dono della fortezza.
Capita molte volte che una persona divenga timida per la sua grande scienza e sapienza e che perciò le sia necessaria la fortezza del cuore perché non si abbatta nelle difficoltà. Ebbene, questa Fortezza la infonde lo Spirito Santo, il quale “dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Is 40, 29) e di cui dice Ezechiele: “uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi” (Ez 2, 2).

Infusa dallo Spirito Santo, questa Fortezza fa sì che il cuore dell’uomo non si deprima per paura delle prove, ma abbia ferma fiducia che quanto gli è necessario gli verrà dato da Dio. Ecco perché lo Spirito Santo, che dona tale Fortezza, ci insegna a chiedere a Dio il nostro pane. E perciò si chiama “Spirito di Fortezza”.

Nelle prime tre domande si chiedono beni spirituali i quali, sebbene abbiano inizio in questo mondo, avranno il loro conseguimento perfetto solo nella vita eterna. Quando dunque diciamo “sia santificato il nome di Dio”, noi chiediamo che la santità di Dio venga riconosciuta; quando diciamo “venga il tuo Regno”, chiediamo di venire resi partecipi della vita eterna; quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, chiediamo che la sua volontà abbia il suo compimento in noi.

Tutte cose queste che, pur cominciando a realizzarsi in questo mondo, non possono avere la loro piena realizzazione che nella vita eterna. Era perciò necessario che chiedessimo a Dio alcune cose che si possono avere in modo perfetto anche nella vita presente.
 
A tal fine lo Spirito Santo ci ha insegnato a chiedere le cose necessarie alla vita presente, che possiamo avere pienamente in questo mondo, anche per dimostrarci che pure i beni temporali ci vengono dati da Dio. Ed Egli fa questo facendoci dire: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

Con le parole “dacci oggi il nostro pane quotidiano” lo Spirito Santo ci insegna ad evitare cinque peccati nei quali siamo indotti dal desiderio delle cose temporali.

1° - Il peccato di chi, spinto da smodata bramosia, cerca ciò che è al di là del suo stato e della sua condizione, non contento di quanto gli spetta. Per esempio, uno che è soldato, non vuole abiti da soldato, ma da conte; uno che è chierico, non vuole vestiti da chierico, ma da vescovo.
 Questo difetto distoglie gli uomini dai beni spirituali, perché il loro desiderio è troppo legato ai beni temporali.

Il Signore ci ha insegnato a evitare questo difetto chiedendoci di domandare solo il pane, cioè l’indispensabile alla vita presente, secondo la condizione di ciascuno. Non ci insegnò, quindi, a chiedere cose delicate, scelte e raffinate, ma il pane, senza del quale la vita dell’uomo non può sussistere ed è indispensabile per tutti, come dice il Siracide: “indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito” (Sir 29, 28). Per questo San Paolo esorta: “Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo” (1 Tm 6, 8).

2° - Un secondo peccato è quello di coloro che, per acquisire beni temporali, danneggiano gli altri e li defraudano. E questo è un vizio tanto più pericoloso, quanto più è difficile che il maltolto venga restituito. Dice Sant’Agostino che “i peccati non vengono rimessi se non si restituisce il maltolto” (Ep. 153, 6, 20) e San Gregorio “i ladri mangiano un pane di iniquità”. Ebbene ci viene insegnato a evitare questo vizio, facendoci chiedere il pane “nostro”, non quello degli altri. I ladri, infatti, non mangiano il proprio pane ma quello degli altri.

3° - Un terzo vizio è il soverchio affannarsi.
 Ci sono persone che non sono mai contente di quello che hanno, ma vorrebbero avere sempre di più: cosa questa certamente sregolata, perché regola del desiderio è la necessità. Il Saggio chiedeva al Signore: “Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi” (Pr 30, 8-9). Gesù ci ha insegnato a evitare questo vizio facendoci chiedere il nostro pane “quotidiano”, cioè quello che basta per un giorno o per un solo periodo.

4° - Un quarto vizio è l’ingordigia.
 Ci sono persone che vogliono consumare in un solo giorno quanto basterebbe loro per molti giorni. Costoro non chiedono davvero il pane quotidiano, ma il pane di dieci giorni. E poiché per procurarselo spendono troppo, succede che spendano quanto possiedono. La Scrittura dice: “L’ubriacone e il ghiottone impoveriranno” (Pr 23, 21) e ancora: “Un operaio ubriacone non arricchirà” (Sir 19, 1).

5° - Il quinto vizio è l’ingratitudine.
 Chi ha ricchezze facilmente si insuperbisce e non riconosce che tutto quello che ha gli viene da Dio. Questo è un male molto grande, perché tutti i beni che abbiamo, siano essi spirituali o materiali, ci provengono da Dio, come afferma giustamente il re Davide: “Tutto è tuo, Signore... tutto proviene da te” (1 Cr 29, 11-14). Per rimuovere questo vizio ci è perciò stato insegnato a dire: “Dacci il nostro pane”, affinché impariamo che tutte le nostre cose sono da Dio.
 
E di questo abbiamo anche una prova. Accade talvolta che qualcuno possieda molte ricchezze, eppure da esse non tragga alcuna utilità, ma anzi soltanto danno spirituale e temporale. Alcuni sono infatti periti proprio a causa delle loro ricchezze. Racconta infatti il Qoelet: “Un brutto malanno ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a proprio danno. Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani” (Qo 5, 12-13). E ancora: “Un altro male ho visto sotto il sole, che pesa molto sopra gli uomini. A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, perché è un estraneo che ne gode” (Qo6, 1).

Dobbiamo perciò pregare che le nostre ricchezze tornino a nostra utilità. Questo noi chiediamo quando diciamo: “Dacci il nostro pane” vale a dire: “fa che le nostre ricchezze ci siano utili”. 
Eviteremo così che capiti anche a noi quanto si legge: “Il suo cibo gli si guasterà nelle viscere, veleno d’aspidi gli sarà nell’intestino. I beni divorati ora rivomita, Dio glieli caccia fuori dal ventre” (Gb 20, 14-15).

6° - Un altro vizio troviamo poi nelle cose del mondo, l’eccessiva preoccupazione.

Ci sono alcuni, infatti, che già da oggi si preoccupano di ciò che potrà succedere tra un anno e vi pensano continuamente, sempre inquieti, contrariamente a quanto esorta il Signore: “Non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” (Mt 6, 31). Per questo il Signore ci insegna a chiedere che ci sia dato oggi il nostro pane, ossia quanto ci è necessario al presente.

Ma ci sono anche altre due specie di pane: quello sacramentale e il pane della Parola di Dio (San Cipriano, De oratione dominica).
Ebbene, noi chiediamo il nostro Pane sacramentale, che la Chiesa consacra ogni giorno, perché come lo riceviamo nel Sacramento, così ci giovi per la nostra salvezza. “Io sono il pane disceso dal cielo. - dice Gesù - Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6, 51). Ma San Paolo avverte: “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 29).
L’altro pane è la Parola di Dio, dato che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Quando gli chiediamo di darci il pane, chiediamo perciò a Dio che ci dia la sua parola. Da essa proviene quella beatitudine promessa a chi ha fame di giustizia. Infatti, una volta ottenuti i beni spirituali, li desideriamo ancora di più. Da questo desiderio nasce la fame, e dalla fame quella sazietà della vita eterna, alla quale noi tendiamo.

5 - Quinta domanda: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Vi sono persone che possiedono grande sapienza e fortezza, ma confidano troppo nelle proprie forze e pertanto, non comportandosi saggiamente in quello che fanno, non portano a termine i loro propositi e non tengono conto dell’avvertimento: “Pondera bene i tuoi disegni, consigliandoti” (Pr20, 18).

Bisogna perciò che lo Spirito Santo, che elargisce il Dono di Fortezza, dia anche quello di Consiglio, perché ogni buon consiglio riguardante la salvezza degli uomini viene dallo Spirito Santo.
 Il dono del consiglio è indispensabile all’uomo quando è nella prova. Come egli ha bisogno di ricorrere al consiglio del medico quando è ammalato, così quando è spiritualmente infermo a causa del peccato, per guarirne deve chiedere consiglio.
Che il dono del consiglio sia necessario al peccatore, lo dimostra anche Daniele quando scrive: “Accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti” (Dn4, 24). Ottimo consiglio contro i peccati è quindi quello di fare elemosina e di usare misericordia. 
Per questo lo Spirito Santo insegna ai peccatori di chiedere nella preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti”.

Nei confronti di Dio siamo debitori dei suoi diritti quando lo defraudiamo. È diritto di Dio che noi facciamo la sua volontà, preferendola alla nostra. Quando noi preferiamo la nostra volontà alla sua, lo defraudiamo di un suo diritto, e questo è peccato. 
I peccati sono allora nostri debiti nei riguardi di Dio. Di essi lo Spirito Santo ci consiglia di chiedere il perdono. E noi lo facciamo dicendo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.

Su questa richiesta possiamo farci tre domande:
1) per quali ragioni si faccia tale richiesta; 
2) quando si adempia; 
3) che cosa si esige da parte nostra perché si adempia. Ed ecco le risposte.

Da questa richiesta noi possiamo raccogliere due ammaestramenti che sono necessari agli uomini in questa vita.
Il primo, è che gli uomini devono mantenersi sempre nel timore e nell’umiltà. 
Ci furono infatti alcuni tanto presuntuosi da insegnare che l’uomo è in grado di vivere in questo mondo riuscendo con le sue sole forze a evitare il peccato. Ma questo non fu mai concesso ad alcuno, tranne a Cristo, che possedette lo Spirito senza misura (Gv 3, 34), e alla beata Vergine, che fu piena di grazia e nella quale non ci fu alcun peccato, come dice Agostino: “Quando si parla di peccati non voglio che ella sia neppure nominata” (De natura et gratia 36, 42).
 Ma a nessun altro santo fu dato di non incorrere almeno in colpe veniali, per cui S. Giovanni poté scrivere: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1, 8). E ne è conferma anche la presente domanda. 
Sicché ovviamente, conviene a tutti i santi e a tutti gli uomini recitare il Pater Noster, dove appunto si dice: “Rimetti a noi i nostri debiti”, riconoscendo così e confessando di essere debitori e di conseguenza peccatori. Se quindi tu sei peccatore, devi temere e umiliarti.

L’altro ammaestramento è l’esortazione a vivere sempre nella speranza, perché, quantunque peccatori, non dobbiamo disperare, per evitare che la disperazione non ci spinga a commettere altri e più gravi peccati, come accadde ai pagani dei quali dice l’Apostolo: “Presi dalla disperazione, si abbandonarono alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile” (Ef 4, 19).
 Perciò è molto utile sperare sempre, perché, per quanto sia peccatore, l’uomo deve avere fiducia che, se si pente perfettamente, Dio gli perdonerà. E questa speranza si rafforza in noi quando chiediamo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Questa speranza fu negata dai Novaziani, i quali insegnavano che se uno peccava anche una sola volta dopo il Battesimo, non poteva mai più ottenere perdono. Ma ciò non è vero, perché Cristo ha detto: “Io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato” (Mt 18, 32). Perciò otterrai da Dio perdono da qualsiasi peccato se, pentito, glielo chiederai.
 Da tale invocazione nascono dunque il timore e la speranza, dal momento che tutti i peccatori, purché contriti e confessati, ottengono misericordia. 
Ecco perché questa invocazione era necessaria.

Quanto alla seconda domanda, si deve sapere che nel peccato bisogna distinguere due cose: la colpa con la quale si offende Dio e la pena dovuta per la colpa.
 Ebbene, la colpa è rimessa per la contrizione, congiunta col proposito di confessarsi e di soddisfare, come dice anche il salmista: “Ho detto: confesserò al Signore le mie colpe, e tu hai rimesso la malizia del mio peccato” (Sal 31, 5). Non c’è quindi motivo di disperare, dato che per la remissione della colpa è sufficiente la contrizione col proposito di confessarsi.

Ma qualcuno potrebbe obiettare: se per ottenere il perdono della colpa basta la contrizione, a che cosa serve il sacerdote? Al che si risponde, che per la contrizione Dio rimette sì la colpa, ma la pena eterna viene tramutata in temporale; per cui il peccatore resta ancora obbligato a scontare questa pena. Se perciò egli morisse senza confessione, non per averla disprezzata ma per non aver avuto modo di farla, andrebbe in purgatorio, dove la pena, al dire di Agostino, è grandissima. Quando dunque tu ti confessi, il sacerdote ti assolve da questa pena per il potere delle chiavi perché a lui ti sottometti confessandoti. Cristo infatti disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20, 22-23). Pertanto quando uno si confessa una volta, gli viene condonata parte di questa pena, e così quando si confessa di nuovo; di modo che si potrebbe confessare tante volte fino a che non gli è rimessa completamente la pena.

I successori degli Apostoli hanno escogitato anche un’altra maniera per rimettere questa pena, ossia col beneficio delle indulgenze, le quali, per quanti vivono nella carità, hanno valore nella misura e alle condizioni in cui sono concesse. Che il Papa possa concederle è fuori dubbio. Molti fecero infatti numerose opere buone, senza che essi avessero peccato, almeno mortalmente. Le loro opere buone le fecero perciò a beneficio della Chiesa. Similmente, il merito di Cristo e quello della Beata Vergine costituiscono un tesoro comune. Di conseguenza, il Sommo Pontefice, e colui al quale egli ne abbia dato facoltà, può dispensare tale tesoro quando lo crede necessario.
 In tal modo i peccati vengono perdonati quanto alla colpa con la contrizione, quanto alla pena con la confessione e per mezzo delle indulgenze.

Quanto alla terza domanda, va notato che da parte nostra si esige che noi perdoniamo al nostro prossimo le offese da lui fatteci. Per questo diciamo: “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Diversamente Dio non ci perdonerebbe. Sta scritto infatti: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore?” (Sir 28, 2-3).
 E ancora: “Perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6, 37). Ed è questo il motivo per cui soltanto in questa domanda è posta la condizione “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
Se quindi non perdoni non sarai perdonato.
 Potresti però obiettare: io pronuncerò la prima parte della preghiera, ossia “rimetti a noi i nostri debiti”, omettendo la seconda “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Ma credi forse di poter ingannare Cristo? Lui, che compose questa preghiera, ben la ricorda e quindi non potrai ingannarlo. Quello che dici con la bocca, cerca perciò di adempierlo col cuore.
Ma ci si può domandare se chi non si propone di perdonare al suo prossimo, debba dire ugualmente le parole “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Sembrerebbe di no, perché in tal caso pregherebbe che i suoi debiti non gli vengano perdonati. Si deve invece rispondere che deve dirle, perché egli non prega a nome proprio, ma a nome della Chiesa che non si inganna. Per questo la domanda viene fatta al plurale.
Bisogna poi anche considerare che il perdono agli altri può venire accordato in due modi.
 Uno è quello dei perfetti e si ha quando è lo stesso offeso che va a cercare chi lo ha offeso, secondo il consiglio del salmista: “Cerca la pace e perseguila” (Sal 33, 15).

L’altro è quello comune a tutti e al quale tutti siamo tenuti, e consiste nel concedere il perdono a chi lo chiede, secondo quanto dice il Siracide: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati” (Sir 28, 2).

A questa domanda si connette la beatitudine: beati i misericordiosi. Perché è la misericordia che ci fa aver pietà del nostro prossimo.

6 - Sesta domanda: e non ci indurre in tentazione

Alcuni peccano e poi, desiderando di ottenere il perdono dei loro peccati, li confessano e se ne pentono, senza però impegnarsi a fondo, come dovrebbero, per non ricadervi.
 
Ma non è davvero bello che uno, da una parte, pianga i propri peccati quando si pente, e dall’altra accumuli motivi di pianto tornando a peccare. Infatti sta scritto: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni, dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1, 16).

Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.

A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:
1) che cos’è la tentazione, 
2) come e da chi l’uomo viene tentato, 
3) come viene liberato dalla tentazione.

Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Stà lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33, 15).

La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare. 
Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio. 
Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4). 
Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.
Nell’altro caso, la virtù dell’uomo viene messa a prova dall’istigazione al male. Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande. Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1, 13).

In risposta al secondo interrogativo (come e da chi l’uomo viene tentato), si noti che l’uomo viene tentato al male in tre modi:
 dalla propria carne, dal diavolo
 e dal mondo.
Dalla carne viene tentato in due maniere.
 La carne infatti istiga al male, perché ricerca sempre i propri piaceri nei quali, trattandosi di piaceri carnali, spesso c’è il peccato per il fatto che chi si lascia assorbire da essi trascura quelli dello spirito. Dice al riguardo San Giacomo: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato” (Gc 1, 14).
La carne poi tenta distogliendo l’uomo dal bene. Mentre infatti lo spirito, per quanto dipende da lui, si diletta sempre dei beni spirituali, la carne col suo peso gli è di impaccio, perché “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9, 15). 
San Paolo scrive in proposito: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7, 22-23).

E questa tentazione della carne è molto grave perché questo nostro nemico, cioè la carne, è congiunto a noi; e, come dice Boezio, “non c’è per noi peste più nociva di un nemico che sia della nostra famiglia” (De consolatione philosophiae III, 5). 
Contro la carne perciò si deve vigilare: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26, 41).

A sua volta, il diavolo tenta con estrema violenza.
 Una volta infatti che si abbia vinta la carne, si scatena questo altro nostro nemico, il diavolo, contro il quale dobbiamo sostenere una grande battaglia: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6, 12).
 Per questo satana è detto espressamente il tentatore (Mt 4, 3; I Ts 3, 5). 
Il diavolo nel tentare usa molta astuzia. Come un abile capitano che assedia una fortezza, prima studia il punto debole della persona che vuol far cadere e poi la tenta là dove la scorge più vulnerabile.
 Perciò una volta che gli uomini hanno resa inoffensiva la propria carne, Satana li tenta in quei vizi verso i quali sono più inclinati, quali l’ira, la superbia ed altri vizi spirituali. Dice S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5, 8).
Quando poi egli tenta, mette in atto due espedienti.
 Da principio non propone subito alla persona tentata un oggetto palesemente cattivo, ma qualcosa che abbia l’apparenza di bene, per stornarla inizialmente in tal modo dal suo proposito fondamentale e poterla poi in seguito indurre più facilmente al peccato, una volta che è riuscito a distoglierla sia pure di poco dal bene: in altre parole, “Satana si maschera da angelo di luce” (2 Cor 11, 14).

In seguito poi, quando l’ha indotta al peccato, la lega talmente alla colpa da impedirle di distaccarsene, perché, al dire di Giobbe, “i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi” (Gb 40, 17). Cosicché due cose fa il diavolo: prima inganna e poi trattiene nel peccato chi ha ingannato.

Il terzo tentatore è il mondo, il quale tenta anch’esso in due maniere.

Prima di tutto con un eccessivo e smoderato desiderio dei beni temporali, perché come dice l’Apostolo: “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6, 10).

Servendosi dei persecutori e dei tiranni, tenta poi anche incutendo terrore, per cui dice il Libro di Giobbe: “Anche noi siamo avvolti nelle tenebre” (Gb 37, 19) e San Paolo aggiunge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3, 12). 
Ma il Signore ci rassicura: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10, 28).
Dalle cose dette risulta perciò chiaro che cos’è la tentazione e come e da chi l’uomo viene tentato.

Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.

Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione.
 Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1, 2), e il Siracide aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2, 1).

Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e San Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Cor 10, 12).
 
Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.

Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”? 
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70, 9).

Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8, 7).
Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.

E, siccome Dio per bocca sua aveva promesso: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire” (Sal 31, 8), questo dono Davide lo chiedeva invocandolo: “Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: l’ho vinto” (Sal 12,4 5).

Noi otteniamo tutto questo col Dono dell’Intelletto, mediante il quale, se non consentiamo alla tentazione, conserviamo un cuore puro, del quale viene detto “Beati i puri di cuore” (Mt 5, 8).
 In questa maniera perverremo alla visione beatifica, alla quale ci faccia giungere il Signore.

7 - Settima domanda: ma liberaci dal male. Amen

Nelle due domande precedenti il Signore ci ha insegnato a chiedere il perdono dei peccati e il modo di evitare le tentazioni. 
Qui invece ci insegna a chiedere di essere preservati dal male.
Tale richiesta è generale, come fa osservare Agostino, perché riguarda tutti i mali, sia i peccati che le infermità, le avversità e le afflizioni.
 
Ma poiché del peccato e delle tentazioni si è già detto, ora non ci resta che parlare degli altri mali, ossia delle avversità e tribolazioni di questo mondo, dalle quali Dio ci libera in quattro maniere.

1 - Impedendo che ci colpisca l’afflizione. Ma capita di rado che i santi in questo mondo non siano afflitti, perché “tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3, 12). A qualcuno tuttavia Dio concede alle volte di non essere afflitto dal male, quando cioè lo sa impotente e incapace di sopportarlo, alla stessa maniera del medico, il quale non somministra medicine troppo forti a un malato debole. A questo modo di agire di Dio allude l’Apocalisse quando dice: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere perché hai poca forza” (Ap 3, 8).

In cielo invece sarà comune a tutti i beati l’esenzione da ogni afflizione. Si dice infatti che il Signore: “da sei tribolazioni ti libererà - quelle cioè della vita presente, che suole distinguersi in sei età - e alla settima non li toccherà il male” (Gb 5, 19), e ancora, che essi: “non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole né arsura di sorta” (Ap 7, 16).

2 - Consolandoci quando le afflizioni sopraggiungono.
 Se infatti Dio non lo consolasse, l’uomo non potrebbe resistere. L’Apostolo scriveva infatti di sé: “La tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze” (2 Cor 1, 8), ma aggiungeva: “Dio che consola gli afflitti ci ha consolati” (2 Cor 7, 6); e anche il salmista poteva dire di sé: “Quando ero oppresso dall’angoscia, il tuo conforto mi ha consolato” (Sal 93, 19).

3 - Concedendo agli afflitti tanti beni da far loro dimenticare i mali, sì da far dire a Tobia “Tu non ti diletti delle nostre afflizioni, ma dopo la tempesta fai tornare la tranquillità e dopo le lacrime e il pianto infondi la gioia” (Tb 3, 22).

Non sono dunque da temere le afflizioni e le tribolazioni di questo mondo perché sono facilmente tollerabili, sia per la consolazione che è loro unita, sia per la loro breve durata, come dice l’Apostolo: “Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4, 17). Per esse si perviene cioè alla vita eterna.

4 - Trasformando in bene tentazioni e tribolazioni.
 E’ per questo che non si dice “liberaci dalla tribolazione”, ma “dal male”, perché per i santi le tribolazioni servono alla loro corona, e quindi essi se ne gloriano, come se ne gloriava San Paolo quando diceva: “Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude” (Rm 5, 3-5). E Tobia diceva: “Benedetto sia il tuo nome, Dio dei nostri padri... che nel tempo della tribolazione perdoni i peccati” (Tb3, 13).

Dio, dunque, libera l’uomo dal male della tribolazione quando la volge in bene: e ciò è segno di massima sapienza, perché è proprio del sapiente ordinare il male al bene. E questo si ottiene mediante la pazienza che si esercita nelle tribolazioni. Mentre infatti tutte le altre virtù si servono dei beni dell’uomo, la pazienza usa invece dei mali, e perciò essa è necessaria solo nei mali, ossia nelle tribolazioni. Si legge infatti nel Libro dei Proverbi: “Dalla pazienza si conosce la saggezza dell’uomo” (Pr 19,11).
Questo lo Spirito Santo, mediante il Dono della Sapienza, ci fa chiedere: di poter pervenire a quella beatitudine alla quale ci ordina la pace, perché è per mezzo della pazienza che noi otteniamo la pace, sia nelle prosperità che nelle avversità. 
E si comprende così perché i pacifici siano detti figli di Dio, ossia simili a Lui, perché, come a Dio, anche a loro nulla può nuocere, né le cose prospere né quelle avverse. Perciò è detto: “beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9).

Chiudiamo quindi la nostra preghiera dicendo: Amen, quasi come sigillo di conferma di tutte le nostre domande.

Sintesi conclusiva

Volendo riassumere in breve quanto è stato detto sul Pater Noster, bisogna rilevare che nella Preghiera del Signore sono contenute tutte le cose da desiderare e tutte quelle da fuggire.
Tra le cose da desiderare, si desidera di più quella che più si ama, cioè Dio. Ecco perché chiediamo per prima cosa la gloria di Dio dicendo “sia santificato il tuo nome”.

A Dio vengono poi richiesti tre beni che riguardano te.
 
Il primo è quello di poter pervenire alla vita eterna, e tu glielo chiedi quando dici: “venga il tuo regno”.

Il secondo è che tu faccia la volontà e adempia la giustizia di Dio, e glielo chiedi quando dici: “sia fatta la tua volontà”.

Il terzo è che tu abbia le cose necessarie alla vita, e gliele chiedi quando dici: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

A questi tre beni allude il Signore quando dice: 
circa il primo “Cercate prima il regno di Dio”; 
circa il secondo: “la sua giustizia”,
 e circa il terzo: “e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 33).

Le cose invece da evitare e da fuggire sono quelle contrarie al bene.

E il bene che noi dobbiamo desiderare è quadruplice.

Il primo è la gloria di Dio. E ad essa nessun male è contrario perché risulta sia dal bene che dal male: dal male in quanto Dio lo punisce, dal bene perché lo premia. Perciò è detto: “Se pecchi, che gli fai?... Se tu sei giusto, che cosa gli dai?” (Gb 35, 67).

Il secondo è la vita eterna, e ad essa è contrario il peccato, perché col peccato si perde. 
Per rimuoverlo diciamo perciò: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Il terzo bene è costituito dalla giustizia e dalle opere buone, e a questo bene sono contrarie le tentazioni, perché esse ci impediscono di fare il bene. Per rimuovere questo male chiediamo: “non ci indurre in tentazione”.

Il quarto bene sono le cose necessarie alla vita, alle quali si oppongono le avversità e le tribolazioni. Per rimuoverle chiediamo: “liberaci dal ma le. Amen”



2 commenti:

  1. Mirabile commento del grandissimo Tommaso, ora dimenticato, perché fanno paura le sue rigorose argomentazioni ancorate alla Scrittura, contro il relativismo teologico ed esegetico, perseguito da litigiose e narcisistiche scuole in concorrenza. Un sacerdote mi disse che oggi la teologia non si fa più con il metodo aristotelico-tomistico senza dire quale metodo si segue oggi visto che ognuno segue il suo, inventato su basi ideologiche e non scientifiche, per tentare di avere ragione. Ne consegue il risultato oggi drammaticamente nefasto per la Chiesa: il dubbio sistematico, conseguenza della negazione del Cristo storico e della svolta antropologica, ideologie moderniste e nichiliste combattute da par suo dall'odiato papa Benedetto.

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  2. O san Tommaso d'Aquino o Bergoglio e la pletora di distruttori della Fede al suo seguito.

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