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mercoledì 18 aprile 2018

Opzione Benedetto e Comunità di Destino

Con grande piacere vi trasmetto la magistrale lezione che il grande e compianto amico Marco TANGHERONI - grande storico e medievista -  tenne a Ferrara nel 1998, in occasione dell'inaugurazione della Scuola di Educazione Civile.

Non la conoscevo, e me ne rammarico, perciò ho pensato di divulgarla -, tanto mi pare meritevole di lettura. Marco aveva già colto il testo fondativo dell'Opzione Benedetto - come oggi resa famosa da Rod Dreher - il "Dopo la virtù" di Alasdair MacIntyre. All'epoca credo che nemmeno ne conoscessi l'esistenza, e comunque certo non ne sapevo niente. 
L


COMUNITÀ DI DESTINO, DESTINO DELLE COMUNITÀ

prof. Marco Tangheroni

Nell’occasione di questa lezione inaugurale della Scuola di Educazione Civile non terrò il tono alto di una prolusione accademica, ma un tono colloquiale simile a quello che userò la prossima settimana all’Università, nel primo giorno di lezione, coi miei studenti. Come sono abituato con loro, così farò anche oggi, partendo da qualche esempio concreto.

Una fortuna – tale la reputo – è per me il fatto di vivere in un piccolo paese, ancorché a pochi chilometri da una città, Pisa, che pure grande non è. Ciò mi consente di fornirvi, prima ancora di trovare una precisa definizione, un primo esempio di “comunità di destino”. Questo paese che per me è bellissimo – anche se penso che quasi nessuno lo conosca – si chiama Asciano Pisano ed è lì che sono nato, in una casa senza riscaldamento né bagni. La mia famiglia, essendo io ancora bambino, si trasferì in città, a Pisa, e successivamente in Sardegna, dove son vissuto per nove anni. Nel 1975 io, i miei fratelli e mio padre tornammo ad Asciano Pisano. Mio padre morì purtroppo l’anno dopo e al suo funerale rimasi sorpreso nel vedere una corona il cui nastro recava la scritta “Il vicinato”. Come giovane storico del Medioevo, la parola stessa “vicinato” mi colpì, perché era una parola che ritrovavo frequentemente nei documenti medievali. Il rapporto col Medioevo – è quello che dico sempre il primo giorno di lezione ai miei studenti – è diverso da quello che noi possiamo avere con altri periodi storici. Con la storia contemporanea siamo evidentemente in diretta continuità, ma con le storie antiche – fatti salvi gli elementi che costituiscono eredità culturale – siamo in evidente rottura. Se, ad esempio, camminiamo per Via dei Fori Imperiali a Roma, avvertiamo certamente di essere di fronte ad una grande civiltà, ma anche alle sue rovine. Al contrario le cattedrali in cui oggi preghiamo sono ancora le cattedrali costruite nel Medioevo. Anche dal punto di vista del costume il Medioevo è finito pochi decenni fa e a volte, per semplificare, dico che è finito – per l’evidente contributo al mutamento dei rapporti sociali – con l’avvento della televisione. Per altri versi e nello stesso tempo, si tratta di un periodo molto lontano da noi e occorre allora fare uno sforzo per capirlo.


Ora il “vicinato” è un bellissimo esempio di continuità non solo di un concetto, ma anche di una realtà. Nel corso del Duecento e del Trecento, in molte città comunali italiane, furono emanate leggi definite “antisuntuarie”, volte cioè a limitare le spese eccessive per gli oggetti di lusso, come ad esempio abiti, copricapi, cinture, gioielli. Le leggi antisuntuarie – ho presenti qui un esempio di Lucca e uno di Siena del XIV secolo – colpirono anche le spese eccessive fatte per i funerali. Essi costituivano sì occasione di socializzazione, ma, a giudizio delle autorità comunali,  per essi si spendeva troppo. In tali leggi – questa è la cosa interessante –  si dice che ai funerali possono partecipare soltanto i parenti e i vicini, dando quindi ai vicini – a quel “vicinato” di quella corona funebre da cui sono partito – una specie di riconoscimento istituzionale.

D’altronde, quando noi studiamo le lotte politiche nelle città medievali, vediamo che le fazioni  sono spesso identificabili topograficamente, perché il legame di vicinato nasce anche da una solidarietà politica, da rapporti di clientela, da legami familiari preesistenti e crea a sua volta degli obblighi di solidarietà e di aiuto. Basti pensare, ad esempio,  che in una città come Genova le fazioni – proprio negli Statuti – vengono identificate col nome di alberghi, cioè con un nome che rimanda a una vera e propria realtà fisica.

Per avvicinarmi ulteriormente al concetto di comunità di destino, faccio ricorso ad un altro esempio, quello di una nave e in particolar modo di una nave medievale. Pensate che Cristoforo Colombo è andato in America con una nave ammiraglia che poteva stazzare centoventi tonnellate e solo settanta le altre due caravelle. Si trattava veramente di gusci di noce! Molti non sanno che nella fase centrale del Medioevo – e quindi anche all’epoca della grande espansione delle città marinare come Pisa, Genova e Venezia – nella conduzione di queste navi il capitano non possedeva un imperium assoluto, a differenza dell’età moderna ed anche di quella antica. Se ad esempio c’era la necessità di scegliere se affrontare una tempesta o rifugiarsi nel porto più vicino oppure se fuggire di fronte ad una nave corsara o attaccarla, il capitano non poteva prendere lui solo la decisione, ma doveva consultare tutti quelli che erano a bordo, compresi i mercanti con le loro merci. La nave medievale è  un bell’esempio di comunità di destino. Tutti coloro che sono a bordo di questo guscio di noce affrontano insieme quella che nel Medioevo si chiamava la “fortuna di mare”, avendo in comune le prospettive e le speranze per le quali si sono imbarcati.

Forse è una cosa nota e la dico tra parentesi, ma poiché sono tanti i luoghi comuni sul Medioevo penso non sia inutile ricordare che anche i rematori delle galere erano degli uomini liberi, dei salariati, quindi dei marinai e che è solo con l’età moderna che sono stati utilizzati i prigionieri. Anche i rematori avevano dunque diritto a partecipare alle decisioni, poiché erano membri di questa comunità di destino.

Vi propongo ora un altro esempio che è poi una consuetudine alla quale ho dovuto adeguarmi, della gente di Asciano Pisano, dove ci sono tre macellai. Ebbene, gli abitanti del mio paese tendono normalmente a servirsi di carne or da uno or dall’altro, mostrando così, nei fatti, l’interesse per la sopravvivenza della propria comunità. 

Nel volume Diagnosi edito da Volpe nel 1972 e scritto dal filosofo “contadino” francese Gustave Thibon, si trova, posto in appendice, un articolo intitolato proprio “La comunità di destino”, dove l’autore fa notare il rapporto che un tempo, in una piccola comunità, esisteva fra un commerciante e il raccolto dei contadini. Oggi, anche nel mio paese, il buono o cattivo raccolto non va al di là – quanto a interesse – di qualche chiacchiera fatta al bar. Ma un tempo coloro che vivevano in un paese, compreso il medico che spesso era pagato più con prodotti in natura che non con soldi, facevano parte di una comunità di destino che è bene illustrata da questi versi di La Fontane: “Se il tuo vicino viene a morire, è su di te che cade il fardello”, a significare che la crisi di una famiglia o di un certo settore alla fine viene a colpire tutti.

Facciamo ora un passo avanti mediante una citazione di San Tommaso: “L’uomo non appartiene alla comunità nell’interezza dell’essere suo, perché l’interezza dell’essere suo appartiene solo a Dio”. E’ una frase, questa, che mette in guardia contro ogni forma di totalitarismo, innanzitutto ed evidentemente totalitarismo statale. In una di quelle scritte fasciste che su qualche casa di campagna, ai lati delle strade, erano ancora visibili non molto tempo fa, si leggeva: “Tutto per lo Stato, niente fuori dallo Stato”. Per fortuna degli Italiani di allora il Fascismo, nella sua applicazione, non fu in realtà così totalitario, ma certamente il totalitarismo presuppone che l’uomo appartenga ad una comunità – in questo caso statale -  nell’interezza dell’essere suo. Ebbene, questo non è accettabile non solo per la comunità statale, ma per tutte, poiché le prospettive dell’uomo non possono esaurirsi all’interno di una comunità. La frase di San Tommaso rimanda chiaramente ad una prospettiva cattolica. Tuttavia, rileggendo Ragione ed esistenza – libro del ’39 tradotto in Italiano nel ’42 – di Karl Jaspers, un filosofo che non ha certo una prospettiva tomistica o comunque cattolica, anche se sensibile ai temi religiosi, ho potuto trovare questa osservazione, vale a dire che la comunità umana, a differenza di quella animale non si attua con immediatezza, ma è condizionata dal riferimento ad un’altra realtà, da comuni e chiari scopi del mondo, dal riferimento alla verità, dal riferimento a Dio. Insomma, il vero fondamento della comunità umana è da trovarsi fuori di esso. Questo, dirà qualcuno, perché la si colloca in una prospettiva religiosa. Io direi che questo vale anche “a cielo chiuso”, vale a dire “tamquam Deus non esset”, come se Dio non esistesse. L’osservazione di Jaspers ci ricorda la vocazione dell’uomo all’apertura, all’universalità che è propria della natura ontologica dell’uomo, del soggetto uomo che non può esaurire il suo essere, come un animale di branco, all’interno della comunità. È tanto facile dire: “Io amo l’umanità!” e a forza di dire “Io amo l’umanità” si finisce per non amare l’uomo vero e reale che è accanto a noi, così che molti teorici della solidarietà universale non sono poi capaci del più piccolo gesto di concreta solidarietà.

Nel saggio che più sopra ricordavo Gustave Thibon avverte: “Gli uomini sono nati per amare le grandi cose attraverso le piccole”. Mi pare una bella frase che Thibon pone quasi a commento del noto passo evangelico che recita: “Chi non ama suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede?”, da lui felicemente definito “una delle frasi più incarnate della Scrittura”. Dunque se da un lato l’uomo per realizzarsi non può essere chiuso, limitato dalla comunità – caratteristica del mondo d’oggi è il dover condividere lo stesso destino anche senza avere medesime idee o medesima visione del mondo – è vero d’altro canto che l’uomo è, secondo una celebre definizione, un animale sociale che sviluppa le sue potenzialità a partire dalla comunità più naturale di tutte, vale a dire la famiglia. Charles Maurras diceva che il piccolo d’uomo, appena nasce, emette un pianto, a segnalare il suo aver bisogno – e per quanti anni! – di una educazione. Egli non è come il piccolo di un animale che può esser svezzato presto e presto mandato dalla madre al suo destino.

Esistono tuttavia, con ogni evidenza, anche le comunità geografiche. Ha significato nascere in un certo luogo, come hanno d’altronde significato le comunità volontarie – quelle in cui si sceglie di entrare volontariamente – perché l’uomo diventa pienamente persona in seno a varie comunità. Alcune di queste possono essere anche parzialmente coatte. In Israele, ad esempio, esistono certi kibbutz – in piccolissima percentuale, ma interessante – in cui l’ideale egualitario è perseguito con un tale rigore che i figli, a quattro giorni dalla nascita, vengono tolti alle madri, perché non debbono avere il vantaggio di una madre più intelligente di un’altra. Comunità totalmente coatte erano sicuramente i kolchoz nell’Unione Sovietica. 

Che l’uomo si sviluppi come animale sociale in una serie di comunità non è un’ideologia e in un certo senso neppure una dottrina. A mio parere, francamente, è una constatazione che nasce dalla osservazione del reale. 

Ritorno un attimo al Medioevo perché ci offre un esempio di piena consapevolezza della possibilità di appartenere a diverse comunità senza contrasto fra di loro. Chi conosce Dante sa benissimo che egli ha tre patrie. Firenze innanzitutto – patria certamente ingrata, ma in cui spera di ritornare, un giorno, glorioso – poi l’Italia, presente non solo nella coscienza, ma anche nelle parole di Dante e infine il mondo. Tuttavia Dante non è un caso isolato, perché nella metà del Trecento il tribuno Cola di Rienzo che fu per qualche anno, di fatto, Signore di Roma, si definì, in una sua lettera, Liberator Urbis, Zelator Italiae, Amator Orbis. 

Nel Medioevo – cosa per noi oggi poco evidente – si riconosceva la pluralità degli ordinamenti giuridici, tanto che in un libro recente che si intitola L’ordinamento giuridico medievale, il professor Paolo Grossi dell’Università di Firenze sostiene che l’uso stesso della parola “Stato” applicata al Medioevo è da evitare. La questione si può discutere, perché evidentemente si tratta di intendersi sui concetti, ma la cosa interessante è, in questo libro, proprio il rimando alla pluralità degli ordinamenti giuridici, anche perché noi, oggi, siamo abituati a considerare come unica fonte di diritto lo Stato. Così non era assolutamente nel Medioevo e a ben guardare non è del tutto così neppure oggi, anche se – quanto agli ordinamenti giuridici – la preminenza del riferimento allo Stato è sicuramente innegabile. 

Il tema della “comunità” divenne oggetto di riflessione teorica da parte di Ferdinand Toennis in un libro uscito a Lipsia nel 1887 intitolato Gemeinschaft und Gesellschaft, cioè “Comunità e Società”. Devo dire che, a leggerlo tutto, risulta un po’ noioso e penso francamente che sia uno di quei libri più citati che letti. E’ un libro tuttavia importante in cui si contrappone la comunità caratterizzata da vita reale ed organica ad una società caratterizzata da una formazione che egli dice “ideale e meccanica”. Toennis contribuì, anche se in modo non esclusivo, alla liberazione da una tesi che si era ormai imposta, cioè quella del contrattualismo politico, l’idea cioè che lo Stato aveva una nascita contrattualistica, in cui gli elementi del rapporto erano soltanto due: lo Stato e l’individuo. Questo era evidentemente il frutto della Rivoluzione francese che a sua volta era stato  il frutto di correnti di pensiero politico di questo tipo. La comunità, dunque, ritorna con Toennis  ad essere oggetto di attenzione. 

Certo una definizione non è facile. Le definizioni non sono d’altronde mai facili, perché o sono troppo specifiche e allora diventano lunghe e minuziose o sono troppo generiche e ci sta dentro tutto. Ad esempio nel famoso “Dizionario critico di Filosofia” del Laland — che è un po’ un testo di riferimento —  alla voce comunità si legge: “Gruppo sociale caratterizzato dal fatto di vivere insieme sulla base di beni comuni o risorse che non sono proprietà individuali”. Ora questo vivere insieme sulla base di risorse che non sono di proprietà individuale, definisce solo un tipo di comunità, per esempio una comunità religiosa.. Un monastero è indubbiamente un insieme di uomini che vivono insieme con risorse comuni. La definizione è però troppo specifica. Potrei allora intendere questa definizione del Laland in senso lato. Anche lo Stato italiano è una realtà in cui noi viviamo tutti insieme e poiché ci sono dei beni demaniali, ci sono dei beni comuni. La definizione, in questo caso, è troppo generica. D’altro canto si parla di “comunità ebraica” a New York oppure – il riferimento è qui familiare perché mia moglie ne faceva parte – di “comunità italiana” al Cairo, che sono espressioni legittime, ma non pienamente rispondenti al tema della comunità di destino a cui cerco di avvicinarmi.

Per comunità di destino non intendo neppure il tipo proposto da “certi tecnici nichelati della pastorale moderna”, come dice Madiran. Ne ho conosciuti, mi è capitato di vederli all’opera, preti e non preti nel mondo cattolico, con i loro continui appelli al riscoprirsi come comunità, ponendo l’accento sul dato soggettivo e con la rimozione del dato fattuale, del dato oggettivo, del dato reale. In tal modo, infatti, si finisce per perdere due elementi che sono invece fondamentali nella nozione di comunità di destino, cioè l’esistenza di disuguaglianze e di gerarchie istituzionalizzate, vale a dire giuridicamente riconosciute. Il filone egualitario all’interno del mondo cattolico tende oggi a pregiare poco la distinzione dei ruoli nella famiglia e a polemizzare contro la giuridicità, osteggiando qualunque elemento istituzionale. Oggi c’è una certa visione della Chiesa e della Storia della Chiesa per cui è buono tutto ciò che è movimento e cattivo tutto ciò che tende all’istituzionalizzazione. Così le caricature della figura storica di San Francesco proposte da certi film o certi libri – anche se scritti da religiosi – sono un pertinente esempio dell’odio verso qualsiasi giuridicità, qualsiasi distinzione, qualsiasi riconoscimento di autorità.

Esempi di false comunità di destino sono oggi i così diffusi centri sociali che sono comunità… solo nel senso in cui il diavolo è scimmia di Dio. Certe rievocazioni del ’68 tendono a far credere che le manifestazioni studentesche fossero manifestazioni di festa, ma così non era. Si trattava invece di momenti orgastici, di rovesciamento totale, messi ancora più in luce col cosiddetto movimento del ’77, in cui fecero la loro prima comparsa gli “indiani metropolitani”, appropriato esempio della tribalizzazione della società, nella fase che il professor Plinio Correa De Oliveira chiama Quarta Rivoluzione. 

Dunque la comunità di destino è qualcosa di ben diverso da un centro sociale. E’ invece la consapevolezza di essere legati da interessi comuni, da bisogni comuni, da esigenze comuni. Ed è diversa — come dice Thibon — da quella che potremmo chiamare “comunità di somiglianza” che può ad esempio legare un operaio di un’industria ferrarese a quello di un’industria marsigliese. Comunità di destino è invece quella che lega in un tessuto sociale concreto, che lega dei destini appunto.

Ora queste comunità di destino sono state la ricchezza delle società passate. Ed oggi? Oggi ci troviamo di fronte ai problemi di una Storia che cambia con rapidità impressionante, di una Storia che ci ha portato in una società irreversibilmente avanzata in senso tecnologico. Un tempo ciò che accadeva in Giappone poteva avere delle conseguenze in Italia - o comunque nella Cristianità occidentale -  dopo qualche decennio, comunque dopo molto tempo. Oggi ciò che accade alla Borsa di Tokio ha invece conseguenze immediate ed è un dato di cui dobbiamo tener conto, così come dobbiamo tener conto della planetarizzazione della Terra, del carattere culturalmente complesso della civiltà in cui viviamo e in ogni caso della coesistenza sul pianeta di culture diverse.

Samuel Huntington, scienziato politico che insegna in America, in un volume che si intitolaLoscontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale ha invitato a considerare la realtà del mondo dopo il 1989 in termini di scontri di culture. Infatti, finito il comunismo, non ci sono più scontri di carattere ideologico né tutto può essere interpretato in termini geopolitici — a livello cioè di contrasti fra Stati — ma i conflitti del presente e soprattutto del futuro si preannunciano come conflitti di tradizioni culturali e di religiose diverse fra loro.

Verrebbe da rimpiangere i piccoli Stati! Già Montesquieu nel suo De l’esprit des lois, ma soprattutto in un saggio del 1729 sull’evoluzione della società romana, aveva detto che Roma, finché il suo dominio era rimasto relativamente piccolo, era vissuta bene, ma che, dopo la sua enorme espansione, si era corrotta ed era cominciata così la sua decadenza.

Qui è bene intendersi, perché potrebbe esserci la tentazione di comportarsi al modo di quelle comunità americane di Amish che vivono come se fossero nel Settecento, rifiutando tutto ciò – compresi, credo, gli antibiotici – che non appartiene a quel secolo. Una vita, insomma, non collegata né integrata con il mondo circostante. Qualcuno potrebbe dire che anche una comunità di monaci o di suore contemplative non è integrata col mondo circostante, ma non è così, perché essa prega – e con quanta utilità si può solo immaginare – per il mondo circostante. Quindi non vive separata dal mondo. Dico ciò per non creare confusione e per non rischiare di arrivare alle conclusioni di un filosofo di cui parlerò fra poco. Dopo un’analisi pessimistica, ma valida, del presente egli giunge a dire che non rimane altro da fare che rinchiudersi in piccole comunità. A fronte degli attacchi che colpiscono le comunità naturali, non mi sembra però una soluzione quella di costruire una piccola comunità, di proteggerla, di circondarla di mura per mantenere dei rapporti “face to face” per dirla con le parole di Alasdair McIntyre. Questo è infatti il filosofo di cui parlavo e, per darvi un riferimento bibliografico, un suo libro tradotto in Italiano e pubblicato nel 1981 da Feltrinelli, si intitola Dopo la virtù. Forse alla Feltrinelli l’avevano interpretato come un filosofo un po’ “hippie”. Certo l’analisi fatta dal professor Plinio Correa De Oliveira sulla IV Rivoluzione è più limpida e più lucida e chi ha sentito parlare sull’argomento il direttore di Cristianità Giovanni Cantoni sa benissimo quali sono le prospettive in cui si muove Alleanza Cattolica. E tuttavia mi pare interessante vedere come affronta l’argomento un intellettuale che ha studiato tematicamente  il problema delle comunità anche se in una prospettiva non coincidente con quella contro-rivoluzionaria. La sua posizione potrebbe essere definita aristotelica e anti-illuminista. È infatti a partire dall’Illuminismo – e anche prima, diremmo noi con Plinio Correa De Oliveira – che comincia un così deciso processo di decadimento che oggi ci troviamo di fronte ad una vera e propria catastrofe della morale, analoga a quella che fu poi la catastrofe del tardo impero romano. McIntyre giunge a dire che ci vorrebbe un nuovo San Benedetto! Attualmente, afferma questo filosofo, noi viviamo le conseguenze del progetto libertario-illuministico volto a combattere tutte le autorità politiche e religiose, col risultato di porre come unica fonte di autorità l’individuo. Ora, se l’individuo è unica autorità per se stesso, ben si capisce che crolla qualsiasi fondamento della morale. All’inizio dicevo che il Medioevo per certi versi è durato fino a qualche decennio fa, perché, decaduta a livello filosofico, la morale continuava a reggere il costume. A questo proposito Gustave Thibon fa una distinzione importante: la scelta morale è la scelta compiuta consapevolmente, mentre il costume è costituito dalle azioni che si fanno per consuetudine e potrebbe essere definito come la sedimentazione, nelle tradizioni consolidate, della morale trasmessa di generazione in generazione. Solo in questi ultimi decenni si sono dunque viste le pratiche conseguenze dell’aver demolito a livello teorico i fondamenti della morale. E il fondamento della morale, a partire proprio dal Settecento, era stato indebolito da Hume e Diderot che avevano cercato di basarlo sui desideri e sulle passioni. Kant, invece, sulla ragione astratta e Kirkegaard sulla scelta. Dice McIntyre che l’esito vero di questo processo è Nietsche per il quale l’unica fonte di autorità è l’individuo con la sua pura volontà di potenza. Allora, conclude McIntyre, siamo di fronte ad un bivio: o Nietzsche o Aristotele. Vale a dire o virtù in senso soggettivistico, emotivo, relativistico oppure virtù in senso oggettivo, solidaristico, comunitario. In senso, aggiungerei io, tomistico e cattolico. Ci sono dei libretti aurei di Joseph Pieper che non si trovano più – e che mi piacerebbe vedere ristampati – in cui vengono sì esaminate le virtù teologali, ma anche le cardinali, quelle virtù naturali che sono cioè il cardine della vita dell’uomo. 

Una cosa certa è comunque questa: l’individualismo etico è disarmato anche in una prospettiva teorica di fronte a problemi come quelli, enormi, che solleva per esempio la bioetica. Ecco, quindi, un pensiero laicista arrancare oggi alla ricerca disperata di un fondamento dell’etica che non si può trovare se non ritornando ad una visione naturale e cristiana dell’uomo. Dell’uomo, intendo, come animale sociale. Ora la Storia degli ultimi decenni e degli ultimi anni ci fa invece vedere una serie di attacchi alle comunità veramente impressionanti e le forme di attacco più evidenti sono quelle – è chiaro – che riguardano la più naturale e fondamentale delle comunità di destino che è la famiglia.

Già negli anni Trenta un grande poeta – ed è proprio dei grandi poeti essere anche profeti – Thomas St. Eliot, nei Cori da “La Rocca”, aveva bene descritto la dissoluzione dell’unità della famiglia, legata a quella dell’unità religiosa e morale.  Neppure la famiglia, diceva, si muove oggi più unita perché “ogni figlio vuole la sua motocicletta e le figlie cavalcano sellini casuali”. La famiglia è stata però indebolita e attaccata anche attraverso leggi che hanno inciso sul costume.

Ero non molti giorni fa in Francia e c’erano forti dibattiti intorno al PACS (Pacte Civil de Solidarité, Patto Civile di Solidarietà). Questa sigla è apparentemente rassicurante. Una caratteristica del linguaggio contemporaneo è quella di cercare di essere rassicuranti. L’aborto non è mai chiamato aborto, è una interruzione di gravidanza, anzi IGV, Interruzione Volontaria della Gravidanza, perché la sigla rassicura e vuole mettere in ombra la cruda realtà. A me è capitato per esempio di rifiutare un contributo che mi veniva chiesto a favore degli “hanseniani”, perché per mia ignoranza non sapevo che la lebbra è chiamata scientificamente “Morbo di Hansen” e pensavo che si trattasse di una setta orientale. Ma non è chiamando hanseniani i lebbrosi, non vedenti i ciechi, invalidi gli zoppi, operatori ecologici gli spazzini che si migliora la natura dell’oggetto che si vuole indicare. Questo uso delle sigle è tuttavia interessante, perché, evidentemente, non si vuole che, attraverso una parola, sia trasmesso il concetto in modo chiaro. Non a caso Orwell nel suo 1984 aveva raffigurato un mondo – in realtà era il comunismo portato alle sue estreme conseguenze – in cui c’era un Ministero della Verità che aveva introdotto la Neolingua che serviva proprio a far sparire certe parole. Proibendo, ad esempio, la parola “libertà”, sparisce poi in qualche modo – o comunque diventa meno chiaro – il concetto di libertà. Il PACS, di fatto, è il riconoscimento delle unioni civili, però si richiama, una volta sciolto l’acronimo, alla solidarietà. Ma la sostanza è questa: accanto ai matrimoni si istituisce la figura di coppie – anche omosessuali, evidentemente, con tutti i diritti alla casa, all’adozione e così via – purché vi sia l’impegno a stare insieme per tre anni. Un vero e proprio attacco alla famiglia. Io vengo da una città, Pisa, che ha questo primato: essa è stata il primo Comune ad avere istituito il Registro delle Unioni Civili che, per il momento, non ha nessuna conseguenza giuridica, ma è importante premessa per futuri e legali riconoscimenti. Accanto a questi attacchi concreti ci sono poi le omissioni, la sostanziale riduzione a somme quasi beffarde degli assegni familiari o una politica fiscale non centrata per nucleo familiare e invece centrata sull’individuo. Ma anche quando le istituzioni hanno fatto qualche passo nella direzione del riconoscimento di comunità intermedie – penso alle Regioni o ai Consigli di Circoscrizione o di Quartiere o di Frazione, come nel caso del mio paese – in realtà si è prodotta soltanto una maggiore articolazione dei poteri politici propri dello Stato nazionale, con stessi schieramenti e stesse logiche politiche.

Ho evocato lo Stato nazionale, ma le nazioni si formano nella Storia, vivono nella Storia anche quando non sono uno Stato. Dante aveva chiarissima l’idea che gli Italiani formavano un popolo ed erano una nazione. La Polonia, fino al 1918, non esisteva come Stato, ma i Polacchi ben sapevano di appartenere ad una nazione. Lo Stato nazionale si è affermato attraverso una guerra progressiva e sostanzialmente vinta su tutte le realtà intermedie. Oggi però lo Stato nazionale è una realtà che sta a sua volta diventando intermedia rispetto, ad esempio, alla Comunità europea, perché è un esempio di diversificazione e di identificazione ed anche di comunità di destino in cui sussistono differenze rispetto – per così dire – alla pialla livellatrice dell’Europa così come concepita a Maastricht e così come è diretta da Bruxelles, quasi una disincarnazione del potere. In una delle ultime manifestazioni del Polo delle Libertà, le persone che protestavano contro il Governo Prodi avevano con sé, perlomeno, dei ritratti o delle caricature di Prodi stesso, ma se dovessimo manifestare contro un provvedimento europeo, non sapremmo francamente contro chi protestare. Un amico parlamentare mi diceva che, per l’ottanta per cento, l’attività del nostro Parlamento consiste nella ratifica  di decisioni prese a Bruxelles o nell’adeguamento delle leggi italiane a quelle europee. Bruxelles, al di là del preteso liberismo ufficiale, è in realtà un’espressione tecnocratica che si libera di tutto e di tutti. Vi sono leggi sulla misura dei fischietti, sulla misura dei preservativi, sulla misura di tutto. Ho scoperto che esiste a Ginevra un istituto per la standardizzazione mondiale e che questo istituto ha recentemente stabilito che sia abolito il quintale. Dunque un contratto internazionale può essere reso nullo dall’espressione “quintale”, perché l’espressione consentita è “cento chilogrammi”. E la data deve essere mese, giorno e anno e non, come siamo invece abituati noi, giorno mese e anno. Certamente dire che una donna pesa un quintale oppure cento chili è, di fatto, la stessa cosa, ma non è così a livello di espressione linguistica. Uniformare tutto significa anche eliminare le differenze linguistiche.

Ora se è vero che lo Stato nazionale, come abbiamo detto più sopra, si è affermato a danno delle realtà intermedie, è anche vero che oggi, di fronte a questa Europa e ancor più di fronte alla eventuale planetarizzazione del mondo, esso costituisce una difesa delle identità. Certo noi oggi viviamo in un tempo di globalizzazione in cui sembra che le comunità di destino, cioè le comunità reali, debbano scomparire. La globalizzazione spaventa. Quando si legge che i capitali finanziari che si spostano sono in rapporto di venti a uno con i capitali che servono per pagare beni e servizi reali, ci si spaventa. Tuttavia la globalizzazione c’è, non è un’invenzione. Potrei rimpiangere una società a base contadina, come era il mio paese quando ero bambino. Se qualcuno di voi ha visto il film L’albero degli zoccoli ricorderà quel nonno che coltivava i pomodori e che si alzava di notte. C’è un proverbio toscano che dice: “Val più un vecchio in un canto che un giovane al campo”. Sulla coltivazione dei pomodori nessuno poteva saperne più di quel vecchio che vi si era dedicato per moltissimi anni. Erano, queste, le conoscenze dei vecchi che venivano poi trasmesse alle generazioni successive. Oggi – chi usa il computer lo sa – nel giro di due mesi diventa obsoleto un programma e quindi la sua conoscenza. 

Sono venute meno, linguisticamente,  molte espressioni e quindi molti modi di essere. Nel Codice Civile c’è ancora la nozione giuridica del “buon padre di famiglia”. Così è anche il rapporto con la terra. C’è un esempio bellissimo, tratto da Memorie toscane del conte Gotti Lega. Siamo nel 1950. Con la riforma agraria la terra del principe Corsini è stata espropriata. Il provvedimento non è ancora operativo – è una questione di giorni – e il principe arriva portando centinaia di pianticelle da mettere a dimora. Il fattore gli dice: “Principe, scusi, ma non lo sa che questa terra è stata espropriata?” E il principe gli risponde: ”Io lo so, ma la terra no”. Il che ben esprime, a mio avviso, l’idea di esser quasi custodi nel rapporto vitale con la terra e con la natura. 

Le comunità di destino – quelle che nonostante tutto sopravvivono – sono dunque in pericolo. In parte per piani ideologici ben precisi che si attuano nella Storia, in parte per uno sviluppo tecnologico che non è – se non in aspetti marginali – reversibile, ma soltanto controllabile. Da ciò la necessità di porsi il problema della difesa delle differenze e della difesa delle identità. La mia prospettiva – e credo anche la vostra – non è certamente quella della costituzione di una piccola comunità in cui cercare di mantenere quei rapporti, quei legami che si vanno perdendo nel mondo esterno. Ci troviamo di fronte a fenomeni nuovi ed è allora necessario uno sforzo, anche teorico, di riflessione su come salvare l’articolazione di una società fondata su comunità, nella convinzione che queste rispondano alla natura ontologica dell’uomo. È già un buon passo avanti l’aver rilevato che il problema esiste. Non possiamo certo pensare di proporre soluzioni facili, pronte e confezionate, da vendere a buon mercato.