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giovedì 21 dicembre 2017

Padre Nostro, «et ne nos inducas in tentationem». Il commento di san Tommaso d'Aquino

Pubblicato dagli amici de Il Timone a proposito di certe dichiarazioni del S. Padre. Ma forse Papa Francesco ne vuol sapere più del dottore della Chiesa.
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San Tommaso, Commento al Padre Nostro, 6 (da Radio Spada, a cusa di Giuliano Zoroddu)

Padre Nostro, «et ne nos inducas in tentationem». Il commento di san Tommaso d'Aquino
Alcuni peccano e poi, desiderando di ottenere il perdono dei loro peccati, li confessano e se ne pentono, senza però impegnarsi a fondo, come dovrebbero, per non ricadervi.

Ma non è davvero bello che uno, da una parte, pianga i propri peccati quando si pente, e dall’altra accumuli motivi di pianto tornando a peccare. Infatti sta scritto: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni, dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1,16).

Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.

A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:


1) che cos’è la tentazione,


2) come e da chi l’uomo viene tentato,


3) come viene liberato dalla tentazione.

Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Sta’ lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33,15).

La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare.

Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio. Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4). Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.

Nell’altro caso, la virtù dell’uomo viene messa a prova dall’istigazione al male. Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande. Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1,13).

In risposta al secondo interrogativo (come e da chi l’uomo viene tentato), si noti che l’uomo viene tentato al male in tre modi:


- dalla propria carne,


- dal diavolo


- e dal mondo.


Dalla carne viene tentato in due maniere.

La carne infatti istiga al male, perché ricerca sempre i propri piaceri nei quali, trattandosi di piaceri carnali, spesso c’è il peccato per il fatto che chi si lascia assorbire da essi trascura quelli dello spirito. Dice al riguardo S. Giacomo: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato” (Gc 1,14).

La carne poi tenta distogliendo l’uomo dal bene. Mentre infatti lo spirito, per quanto dipende da lui, si diletta sempre dei beni spirituali, la carne col suo peso gli è di impaccio, perché “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9,15). S. Paolo scrive in proposito: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,22 23).

E questa tentazione della carne è molto grave perché questo nostro nemico, cioè la carne, è congiunto a noi; e, come dice Boezio, “non c’è per noi peste più nociva di un nemico che sia della nostra famiglia” (De consolatione philosophiae III,5). Contro la carne perciò si deve vigilare: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41).


A sua volta, il diavolo tenta con estrema violenza.

Una volta infatti che si abbia vinta la carne, si scatena questo altro nostro nemico, il diavolo, contro il quale dobbiamo sostenere una grande battaglia: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).

Per questo satana è detto espressamente il tentatore (Mt 4,3; I Ts 3,5). Il diavolo nel tentare usa molta astuzia. Come un abile capitano che assedia una fortezza, prima studia il punto debole della persona che vuol far cadere e poi la tenta là dove la scorge più vulnerabile.

Perciò una volta che gli uomini hanno resa inoffensiva la propria carne, Satana li tenta in quei vizi verso i quali sono più inclinati, quali l’ira, la superbia ed altri vizi spirituali. Dice S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1Pt 5,8).

Quando poi egli tenta, mette in atto due espedienti.

Da principio non propone subito alla persona tentata un oggetto palesemente cattivo, ma qualcosa che abbia l’apparenza di bene, per stornarla inizialmente in tal modo dal suo proposito fondamentale e poterla poi in seguito indurre più facilmente al peccato, una volta che è riuscito a distoglierla sia pure di poco dal bene: in altre parole, “Satana si maschera da angelo di luce” (2Cor 11,14).

In seguito poi, quando l’ha indotta al peccato, la lega talmente alla colpa da impedirle di distaccarsene, perché, al dire di Giobbe, “i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi” (Gb 40,17). Cosicché due cose fa il diavolo: prima inganna e poi trattiene nel peccato chi ha ingannato.


Il terzo tentatore è il mondo, il quale tenta anch’esso in due maniere.

Prima di tutto con un eccessivo e smoderato desiderio dei beni temporali, perché come dice l’Apostolo: “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10).

Servendosi dei persecutori e dei tiranni, tenta poi anche incutendo terrore, per cui dice il Libro di Giobbe: “Anche noi siamo avvolti nelle tenebre” (Gb 37,19) e S. Paolo aggiunge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2Tm 3,12). Ma il Signore ci rassicura: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28).

Dalle cose dette risulta perciò chiaro che cos’è la tentazione e come e da chi l’uomo viene tentato.

Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.

Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione.

Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2), e l’Ecclesiastico aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Eccli 2,1).

Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e S. Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,12).

Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.

Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?

Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).

Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).

Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.

E, siccome Dio per bocca sua aveva promesso: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire” (Sal 31,8), questo dono Davide lo chiedeva invocandolo: “Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: l’ho vinto” (Sal 12,4 5).

Noi otteniamo tutto questo col Dono dell’Intelletto, mediante il quale, se non consentiamo alla tentazione, conserviamo un cuore puro, del quale viene detto “Beati i puri di cuore” (Mt 5,8).

In questa maniera perverremo alla visione beatifica, alla quale ci faccia giungere il Signore. 

12 commenti:

  1. ma questo L pensa di saperne più di Bergoglio ?

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    1. Beh, non è che ci voglia tanto a saperne più di Bergoglio.

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    2. Non vi è nulla di più facile di saperne più di Bergoglio. Ma il problema non è tanto il più quantità quanto il più dottrinalmente corretto.

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  2. "Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?

    Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9)."

    Ha quindi senso dire "non abbandonarci alla tentazione" oppure "non lasciare che io venga indotto dalla tentazione" oppure "non permettere la tentazione".

    Comunque si guardi, la traduzione "non ci indurre in tentazione" è, in italiano, infelicissima.

    In ogni caso, si legga qui

    ://www.amicidomenicani.it/leggi_sacerdote.php?id=4317

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  3. VIVA Don Minutella! https://www.youtube.com/watch?v=8GBw-2lEffM

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  4. Eh quanto è duro seguire il Cristo....

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  5. Molto bello aver evocato il mirabile commento di Tommaso sul Pater Noster , oggetto delle sue prediche al popolo, condotto con quel rigoroso metodo scientifico oggi rifiutato dai ' nuovi teologi' per giustificare le più disparate conclusioni. Ma il problema della traduzione del 'nos inducas' è annoso e non vi è dubbio che è necessario trovare una traduzione più chiara che non venga interpretata come una preghiera all'Eterno di non spingerci alla tentazione, sebbene possa farlo 'visitandoci', per fini più alti, non lasciandoci , però' senza la sua protezione e allontanarci dalle conseguenze della tentazione.

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  6. Qualcuno pensa che "correggendo" la traduzione la vessata Cattolicità ne trarrà un vantaggio? Non facciamo ridere i polli! La situazione è gravissimamente compromessa non certo per il "non ci indurre in tentazione". I fautori del "non abbandonarci alla tentazione" siano meno ipocriti. La nobiltà o la viltà dell'animo umano non dipendono da una traduzione.

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    1. Latino o non latino, i fedeli hanno il diritto di aver chiaro il significato teologico della loro preghiera e proclamare un testo che non sia equivocabile.

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  7. La traduzione più corretta sarebbe " non metterci alla prova " , supplica umile e filiale di chi teme di cadere per le proprie debolezze.

    Penso però che anche questo vero significato darebbe fastidio al suscettibile uomo moderno.

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  8. Se la Chiesa avesse continuato a parlare in latino non ci sarebbe bisogno di troppi bla bla su eventuali traduzioni.

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  9. Se la Chiesa avesse continuato a parlare in latino non ci sarebbe bisogno di troppi bla bla su eventuali traduzioni.

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