MiL non poteva saltare la pubblicazione di questo dotto articolo di don Nicola Bux, poichè tratta un tema a noi caro, che rappresenta un po' la ragion d'essere, la struttura ontologica del nostro blog. Che già dal nome tratta del latino nella liturgia.
Nel testo che segue (che consigliamo di leggere tutto) si notano, tra gli altri gli sforzi di Paolo VI di preservare la presenza obbligatoria del latino nei testi liturgici (sia per i fedeli sia per il clero)... ma ormai era troppo tardi...
Anche Giovanni Paolo II ammette che la Chiesa deve molto al latino, in termini di "universalità", propria della missione salvifica della Chiesa stessa.
In ultimo don Nicola Bux ribadisce con forza (e con documentazione) che si è disobbedito al volere del Concilio e che se ad oggi anche nell'evoluta America i giovani affollano le chiese dove si celebra la Messa in latino, un motivo ci sarà.
L'articolo era stato anticipato da una premessa "Liturgie e Tradizioni", sul motu proprio "magnum principium" (delega alla Conferenze Episcopali di maggior libertà nella traduzione dei sacri testi liturgici nelle rispettive lingue vernacole).
Roberto
di don Nicola Bux, da La Nuova Bussola Quotidiana del 29.11.2017
Da milleseicento anni la lingua ufficiale della Chiesa cattolica
romana è il latino, come della Chiesa diCostantinopoli è il greco
antico, di quella di Mosca lo slavo ecclesiastico, dei luterani il
tedesco medievale. Il latino è quindi anche la lingua della liturgia
romana, come di altre liturgie occidentali: segno di unità ecclesiale
che travalica tempo e spazio, perché collega le generazioni cristiane
dai primi secoli sino ad oggi, e perché permette a tutti i cattolici di
unirsi in una sola voce; è la chiesa universale che prega per bocca dei
suoi figli senza distinzione di razza e cultura.
Che cosa è successo con la riforma liturgica? Per
quanto siano stati tradotti nelle lingue parlate, molti testi liturgici
non si potevano rendere con la stessa efficacia; per non parlare del
canto gregoriano e polifonico legato ad esso. Inoltre, la tesi in sé
positiva dell’inculturazione della liturgia in un luogo e cultura - per
la quale fu promulgata l'Istruzione Varietates legitimae, da leggere complementariamente a Liturgiam authenticam -
non può offuscar l’altra che la precede e la segue: la liturgia deve
esprimere l’unità e la cattolicità della Chiesa. Joseph Ratzinger
osservava che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una
cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con
il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi
latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in
tutte le parti del mondo si possa dire: "io sono nella stessa
Chiesa" …per avere una maggiore esperienza di universalità, per non
precludersi la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse,
che è così preziosa in territori misti. Col latino i sacerdoti possono
dire messa per qualsiasi comunità nel mondo ed essere compresi.
Surrettiziamente però si è coniata la tesi
dell’incomunicabilità plurisecolare della
liturgia facendola dipendere
dall’altra tesi che il latino non fosse comprensibile ai tempi di Trento
da parte della quasi totalità dei preti. Si è volutamente dimenticata
l’opera di formazione del clero e di catechesi dei fedeli avviata da
quel concilio, che ha mutato in quattro secoli la situazione. Questa
tesi tace sul fatto che i nostri padri vivessero il mistero eucaristico e
liturgico molto più profondamente di noi oggi e, ultimamente, significa
negare l’azione dello Spirito Santo. La comprensione del mistero, non è
quella che discerne la presenza di Cristo sull’altare e fa cadere in
ginocchio, annichiliti come Pietro, esclamando: “Allontanati da me che
sono un peccatore”? Malgrado la Messa in lingua parlata, il numero dei
fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono
alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto. Divo Barsotti
diceva: “Crede di capire qualcosa di più dell’essenza e del mistero
eucaristico se si parla solo e sempre in italiano? Il problema non è di
capire solo sul piano intellettuale, ma di compiere un incontro reale
con Cristo”.
A tutto questo poi, non ha contribuito la pubblicazione, in breve tempo, di documenti spesso contraddittori. Come giudicare lo iato tra il Motu proprio Sacram Liturgiam del
25 gennaio 1964, col quale papa Paolo VI ammetteva le lingue nazionali
solo per le letture e il vangelo della Messa degli sposi, e
l’Istruzione Inter Oecumenici del 26 settembre 1964, promulgata dalla Congregazione per il Culto Divino insieme al Consilium ad exsequendam Costitutionem de Sacra Liturgia (l’organismo
istituito per “eseguire” il testo conciliare), in cui si autorizzava la
lingua volgare oltre che nelle letture e nella preghiera universale,
anche nell’Ordinario della Messa, cosa non prevista dalla Sacrosanctum Concilium?
Poi, sebbene l’Istruzione, al n 57 prescrivesse che i
messali e breviari in lingua volgare contenessero anche il testo
latino, il 31 gennaio 1967 si comincia a recitare in lingua volgare
anche il Canone romano. Ma il 13 luglio 1967 Paolo VI – come anzi detto
– aveva fatto scrivere dalla Segreteria di Stato al Consilium, affinché i messali nazionali fossero bilingue: latino e lingua volgare. Eppure, appena un mese prima, il 21 giugno, il Consilium aveva
inviato una lettera circolare a firma del suo presidente card. Lercaro,
in cui si affermava che nelle celebrazioni non si dovrà passare da una
lingua all’altra. Così, il 10 agosto del 1967 il Consilium diramava
una comunicazione ai presidenti delle conferenze episcopali nazionali,
circa la traduzione del Canone romano, in cui affermava:
“E’ desiderio del Santo Padre che i messali, sia quotidiani che festivi, in edizione integrale o parziale, portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati, a norma dell’Istruzione Inter Oecumenici e del Decreto della S.Congregazione dei Riti De Editionibus librorum liturgicorum, del 27 gennaio 1966”.
Nel 1969 Paolo VI tornava a chiederlo anche alla Commissione liturgica nazionale italiana,
a proposito della traduzione da intraprendere,
addentrandosi “nell’augusto, austero, sacro, venerando, tremendo
recinto delle preci eucaristiche” – che costituiscono il cuore della
Messa, il momento della consacrazione del pane e del vino – dove
esortava a “procedere con pazienza, senza fretta, e soprattutto con
qualche umiltà” (n. 11). L’espressione sarà ripresa letteralmente nella
terza Istruzione Liturgicae Instaurationes del 1970, tranne
l’accenno all’umiltà! Ma il papa rimase inascoltato, sia
sull’impostazione bilingue sia sulle traduzioni, con la scusa
dell’eccessiva voluminosità che avrebbe raggiunto il messale, secondo il
segretario del Consilium, mons.Bugnini. Se questi avesse
potuto vedere l’edizione italiana attuale, cosa avrebbe detto? Dunque,
direbbe Manzoni, le 'gride' c’erano ma non sono state osservate.
Dinanzi al proliferare inarrestabile delle traduzioni-interpretazioni, dovette intervenire, nel 1974, la Congregazione per la Dottrina della fede che stabiliva: “Il significato da intendersi per esse è, nella mente della Chiesa, quello espresso dall’originale testo latino”.
Risultato: l’originale latino scomparve, impedendo così a preti e
studiosi di intendere l’autentico significato del testo tradotto.
Infatti, se si studia comparativamente il lessico e la sintassi del
messale tridentino, promulgato da san Pio V, e di quello di Paolo VI si
hanno non poche sorprese.
Per esempio, un’orazione dell’antico messale dice:
Deus, qui nocentis mundi crimina per acquas abluens, regenerationis speciem in ipsa diluvii effusione signasti (Dio, che astergendo con le acque i delitti di un mondo peccatore, nella inondazione stessa del diluvio hai prefigurato la rinascita);
nel
messale attuale è resa così:
“Deus, qui regenerationis speciem in ipsa diluvii effusione signasti” (Dio, che nella inondazione stessa del diluvio hai prefigurato la rinascita):
sono scomparse le espressioni che riguardano la condizione
umana di peccato, i pericoli e le insidie del diavolo e del mondo.
Perché? Forse per non provocare “choc al senso cristiano attuale” (cfr
Istruzione del Consilium del 1969). Questa situazioneè un sintomo di quell’ottimismo romantico, stigmatizzato da Joseph Ratzinger nel Rapporto sulla fede, che oggi è sfociato nel relativismo teologico.
Significativo è quanto affermava Giovanni Paolo II,
il quale riconosceva che la lingua latina «è stata anche un’espressione
dell’unità della Chiesa, e, mediante il suo carattere dignitoso, ha
suscitato un senso profondo del mistero eucaristico». Papa Wojtyla
ammetteva, inoltre, sempre nello stesso documento, che «la Chiesa romana
ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua di Roma
antica, e deve manifestarli ogni qualvolta se ne presenti l’occasione».
Che cosa pensare e che fare? Uwe M.Lang annota:
“I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes. In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001”.
A chi obbietta che la lingua latina non permette la comunicazione
e la partecipazione alla liturgia, bisogna far notare che il latino,
quale lingua 'sacra' ha una potenza comunicativa, in quanto è adoperata
all'interno di un atto sacro; inoltre, le caratteristiche di eredità
della tradizione, universalità e immutabilità - che sono parallele a
quelle del nucleo della fede - la rendono particolarmente adatta alla
liturgia, che tratta delle res sacrae aeterne: il latino
risponde alla missione della Chiesa di Roma. Anche le Chiese giovani
africane e asiatiche hanno bisogno di una lingua unificante e
universale, in momenti particolarmente significativi della loro vita,
come la liturgia.
In molte parti del mondo si torna al latino: da
Oxford a Cambridge, a Seattle…perché considerarla un’arretratezza? Ad un
europeo che deve imparare l’inglese per comunicare col mondo, perché
non può essere utile conoscere il latino nostra madre lingua, per
comunicare nella liturgia cattolica con i fratelli di fede ed anche
saper decifrare il patrimonio musicale e artistico della Chiesa a cui
apparteniamo senza far la figura degli ignoranti? Tutte le religioni
usano una lingua sacra: l’arabo antico per i musulmani, il sanscrito per
gli indù. Dunque non si deve aver paura del latino: i giovani lo
capiscono e affollano le Messe in latino.
Bisogna interrogarsi seriamente, circa la
disobbedienza verso il Concilio Ecumenico Vaticano II, per aver abolito,
di fatto e del tutto, il latino nella liturgia e nei sacramenti,
facendo un favore al secolarismo e al particolarismo. Rispetto al tempo
in cui fu pubblicata la Costituzione liturgica, la situazione è molto
più grave in diverse parti del mondo, specialmente in Occidente: “È in
questione la fede”e “l'unità del rito romano”che la esprime (cfr.Sacrosanctum Concilium, n. 37-38).
Si santifica il Concilio e si demonizza il postconcilio e la riforma liturgica (voluta dallo stesso Paolo VI e dal massone Bugnini...)...roba da ridere (per non piangere....)
RispondiEliminaOrmai la vedo dura tornare indietro. A meno che lo Spirito Santo ci doni veramente un Santo Padre veramente Santo e recida in un sol colpo la riforma del Messale e torni al Rito Tridentino senza se e senza ma.
RispondiEliminaL'articolo di mons. Bux riassume il percorso della riforma liturgia con tutte le sue contraddizioni, subdole manovre, equivocità ed errori, come i documenti mostrano chiaramente. Il primo errore fu quello di aver inserito il tema della riforma nei lavori del CVII, nel momento stesso (!?! in cui veniva pubblicato il Messale, secondo la revisione di Pio XII, con la conseguenza che poteva essere subito cambiato, come è accaduto. L'osservanza della SC, cui alcuni appellano, accanto alla conferma della tradizione, permetteva delle 'aperture' la cui formulazione ha dato ai novatori ampia possibilità di manipolazione, come ad es. l' ampia partecipazione del popolo (?!?), la musica liturgica anche con altri strumenti, le tradizioni locali, etc. senza precisarne i limiti. Le personalità più preparate, e quindi non d'accordo, furono emarginate. Paolo VI, " che era un po' da quella parte ", come scrisse il card. Antonelli, che seguiva personalmente i lavori della Commissione, fu ambiguo e reintegrò il famigerato Bugnini quale Segretario della stessa da dove era stato allontanato perché "innovatore spinto ed iconoclasta". E si potrebbe continuare per molto. A ciò non poteva non seguire il rovinoso risultato del NO, che va rifiutato senza tentare impossibili compromessi, come è dimostrato da mezzo secolo di inutili discussioni in cui si ripetono ossessivamente le stesse cose..
RispondiEliminaNella liturgia il latino è essenziale, ma non facciamone un mito. Tra i sacerdoti tradizionalisti, infatti, si dice " è meglio la Messa VO in lingua parlata che quella NO in latino" ad affermare che la differenza è soprattutto dottrinale. Oltre a proclamare le letture nella lingua parlata come raccomanda il SP( cosa che alcuni sacerdoti non fanno), sarebbe utile tradurre l'Introito con il salmo 42; il resto è ben poca cosa, dato che l'Ordinario è ben conosciuto anche nelle lingue parlate.
RispondiEliminaConcordo. Ciò che conta è il significato complessivo della Santa Messa, gli aspetti prettamente linguistici sono secondari. Ciò che conta è che al centro ci sia Dio (non il sacerdote e la "comunità").
EliminaAssolutamente vero, però: chi aveva tentato qualcosa del genere si è dovuto dimettere, e al suo posto.....lasciamo perdere, via!😑
RispondiEliminaNAT
Da questa interessantissima lettura, posso dedurre che Paolo VI fosse non solo bipolare, ma incapace di esercitare il suo munus, essendo ignorato e disobbedito da tutti?
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