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mercoledì 13 settembre 2017

Papa Francesco e la speranza che è in noi





Luigi Amicone - con dolore - ci ha tolto le parole di bocca: "Perciò, anche al nostro capo vorremmo molto umilmente dire questo. Guarda che non importa a nessuno che porti le scarpe ortopediche, dormi in pensione a due stelle e a 42 anni sei andato in psicoanalisi. Se ti cercano è solo per quel tal Nazareno lì. E per vedere la ragione della speranza che è in noi."
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Che ci siano sempre più persone in giro che trovano piacere a scorticare un gatto, a scannare un uomo o a stuprare una donna, questo è un fatto. Lo puoi stigmatizzare. Ma come insegna Vittadini, che ha scomodato Newton per polemizzare con gli “identitari” (per altro introducendo un contadino persecutore trovato in non so quale variante caraibica della leggenda), se la mela cade non puoi farci niente. Certo. Non puoi farci niente. Tranne usare la ragione. Perché la mela è sempre caduta dall’albero. Però, prima di Newton, erano fatti suoi. Così, se si considerano i fatti di “cambiamento epocale”, anche molto spiacevoli, che sono sempre accaduti, non scandalizza il fatto che continuino ad accadere. Scandalizza che ci si organizzi per non capirne la forza di gravità. E agire di conseguenza. Rafforzando così il decorso regressivo dell’indifferenza.


D’altra parte, per dirla con la felice espressione di uno scrittore, è anche vero che nelle cose umane conta unicamente «ciò che nel deserto non è deserto, e dargli spazio». Perciò la Chiesa, quel fatto storico particolare che in ogni parte del globo e in ogni momento della storia, è stata fatto originale, popolo sui generis, spesso controcorrente. Soprattutto, come si vede anche oggi a ogni latitudine mondana, qualcosa che al di là dei difetti e delle cadute dei suoi partecipanti, per il solo fatto di esistere, porta con sé nel mondo una compagnia positiva, che reca fiducia, amicizia, speranza. E un senso, soprattutto, il senso del Tutto. Ma questo non si capisce. O per lo meno, non si capisce più.

In effetti, perduta la Chiesa, non vorrei che i nostri eredi si ritrovassero a vivere immersi in un’esistenza puramente naturalistica. Come quella dei poveri abitanti di Darwin, nord Australia. Che stanno al mondo allo stato ambientalista puro. Col bel rischio di finire come Steve Irwin, morto pieno di soldi lasciati in eredità agli enti di protezione animali. Vista da vicino, la natura è infatti semplicemente un gatto. Che come ogni altro animale (dico gatto perché mia moglie ha ceduto alla sua adozione) ha nitidamente il senso del cibo. Stop. Tutto il resto è adattarsi ai cambiamenti e varietà di accoppiamenti. Essere animale non significa altro che avere un organo di riproduzione e un posto nella catena alimentare. Essere umani, invece, altro che limitarsi ad osservare le mele cadere. Certo, se non ci fai caso e lasci l’umano allo stato brado, può capitarti quello che capita agli adolescenti odierni. Fino ai casi tremendi di questi giorni. Animali. Occhi che non vedono altro che pancia e sottopancia. Guardati da vicino, sono gli occhi descritti da una delle stuprate della riviera romagnola. «Né ubriachi né drogati, solo molto molto cattivi». (E non c’è più neanche un don Benzi che nottetempo batte il puttantour tirando vie le ragazze, dando loro una casa e una compagnia di amici).

La disgrazia in agguato
Noi esseri umani abbiamo ricevuto il bene dell’intelletto. E una impronta tutta particolare (prima pagina della Bibbia) che si può anche non chiamare “Dio”, ma si deve pur chiamare “non nitidamente animale”. Perché se siamo oranghi al 99 per cento, come disse Veronesi; e se siamo figli della scimmia, come non smettono di dirci i libri di religione darwiniani; ebbene, in tutta evidenza gli oranghi e le scimmie sono rimasti tali e quali. A vivere da oranghi e scimmie. Mentre noi, in genere, faremmo molta fatica a vivere sugli alberi e masticare foglie. Rassegnati a una vita che anche se zampettasse per miliardi di volte su un pianoforte non tirerebbe fuori una goccia della goccia di Chopin. Dunque gli esseri umani non hanno soltanto il senso del cibo, del coso e della cosa. Hanno anche, sia pur confusamente, il senso del Tutto. (Ma non c’è in giro neanche più un don Giussani che spieghi con risolutezza fomentatrice di gente che si butta a far scuole e movimento di popolo: lasciateci andare in giro nudi, ma lasciateci la libertà di un’educazione che sia all’altezza, non del dialogo buonista e degli standard democrat, ma della grandezza e della profondità della lotta che c’è tra gli uomini).

Risolvere il problema di mettere insieme il mattino con la sera è stringente per tutti. Ma dirimente per nessuno. Prova ne sia che il migrante ci angustia tanto quanto il potenziale stupratore della porta accanto. Siamo esseri sociali e pensanti, cerchiamo felicità e tranquillitate ordinis (sant’Agostino) ben sapendo che c’è in agguato la disgrazia, la guerra, la morte. Perciò dirimente, per la nostra razza di asteroidi in carne e ossa, è la capacità di urgere la ragione fino al punto in cui la ragione ammette, non solo cibo, non solo soldi, non solo sogni, ma un ordine e una pace del mondo in cui ci sia concesso di esperire liberamente il Mistero dell’esser nostro. «Che fai tu, luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? (…) Dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?».

Sfangarla dandola a bere
Dove alberga, in senso storico, esistenziale, d’ossa (finanche di seppia), questa libertà di senso e di ricerca del Mistero che sospinge l’umanità a un progresso di vita e di felicità? Da Elia che fronteggia gli innumerevoli sacerdoti di Baal ai tragici greci; dalla varietà sublime dei latini alla bimillenaria supremazia evolutiva dell’Occidente, ci imbattiamo sempre nella promessa di un “Messia”. Figura ebraica che il cristianesimo annuncia incarnata in “Gesù”. Chiamato dai cristiani «figlio di Dio e Salvatore dell’umanità». E durando Egli in una precisa comunità, una volta chiamata «corpo mistico», costituita di «articolazioni» e di un «capo». La realtà della Chiesa. Ma è diventata irreale questa Chiesa? Ha ancora un fondamento sotto i piedi oppure pencola paurosamente nel vuoto, e noi con lei? Non è così, data la promessa di Gesù («non praevalebunt»). Però si capisce che inseguiti nella giungla del mondo, leader e comunità di Chiesa sembrano paralizzati dalla paura. Così, per mero cibo e sopravvivenza, provano a sorridere a tutte le bestie. Offrendo cheese per salvare la pelle di qua. E cheese per rendersi accettabili (“credibili”) di là. L’impressione è che pensino di sfangarla dandola a bere. Sbagliato. Come sanno coloro che hanno creduto di salvarsi dandola a mangiare. Ai coccodrilli.

Il mondo che verrà, che forse sarà adatto per piantarci tante varietà di Chiese (e magari la principale avrà la denominazione flanneryoconnoriana di «Chiesa di Cristo senza Cristo»), mi sembra possa somigliare a un documentario sulla città di Darwin che ho visto sul canale D Max. Mi son detto, ecco un posto che interpreta letteralmente il proverbiale caso del coccodrillo (animale metafora, almeno tempo fa, del male) che l’uomo stolto ingrassa nella speranza di non essere mangiato. A Darwin, non solo hanno vietato la caccia al coccodrillo, ma gli hanno creato un habitat su misura, per ingrassare e moltiplicarsi.

Territori off limits
Cosa è successo? È successo che lungo i fiumi, che fino a vent’anni fa ci si poteva andare a nuotare e a fare picnic, migliaia di ettari di territorio sono diventati off limits. Che nelle “riserve ecologiche” oggi c’è un coccodrillo per ogni abitante di Darwin. E che se vent’anni fa raggiungevano al massimo i tre metri di lunghezza, oggi la loro misura classica varia dai quattro in su. Per dire, una mamma che ha avuto la figlia mangiata ha promosso una petizione per restituire alla frequentazione di esseri umani una minima percentuale di riserva dedicata ai lucertoloni. La questione pare sia molto controversa. Però si sa quanto ci aveva messo il cristianesimo per liberarci dal giogo della natura. Oggi, a Darwin, i coccodrilli giganti mangiano pecore, buoi e cavalli. Soprattutto, hanno smesso di aver paura dell’uomo. Un bel risultato. Peccato che, per non riconoscere la differenza tra il nitidamente animale e il confusamente umano, questo mondo conduca le persone a scappare o a farsi divorare come pasticcini. “Non abbiamo paura”? Altro che.

Capite, amici del mio cuore, che non mi pare si possa discutere ragionevolmente di «dialogo» e di «cambiamenti epocali» se non a partire da un’identità. Perché «identità» non è la “mia” verità in tasca. È il mio modo di stare al mondo. Come l’animalista ha il suo e il musulmano pure. Ebbene, siamo cristiani. Perciò, anche al nostro capo vorremmo molto umilmente dire questo. Guarda che non importa a nessuno che porti le scarpe ortopediche, dormi in pensione a due stelle e a 42 anni sei andato in psicoanalisi. Se ti cercano è solo per quel tal Nazareno lì. E per vedere la ragione della speranza che è in noi.

@LuigiAmicone

Illustrazione: Lorenzo Morabito