Dagli amici di Cultura e Identità (nuovo fascicolo 16\2017) una nuova e approfondita analisi sul pensiero di Martin Lutero.
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L
Ermanno Pavesi
1. Quando inizia la Riforma?
L’inizio
della Riforma protestante viene normalmente identificato con la pubblicazione
delle Novantacinque Tesi sulle indulgenze da parte di Martin Lutero
(1483-1546), avvenuta nel novembre del 1517, pubblicazione che viene assunta
come evento d’inizio della Riforma, di cui quest’anno ricorre il
cinquecentesimo anniversario.
Anche
se può essere seducente assegnare una data precisa all’inizio della Riforma,
questo è discutibile per vari motivi. Nel saggio introduttivo all’edizione
italiana delle lezioni Lutero sulla Lettera ai Romani di san Paolo di
Tarso, monsignor Franco Buzzi, Prefetto e Dottore della Biblioteca Ambrosiana
di Milano, che ha curato l’opera, ricorda che gli stessi specialisti di Lutero
non sono concordi nel datarne l’inizio e propongono date che variano dal 1505
al 1519[1].
Queste divergenze sono comprensibili se si tiene conto che la Riforma
protestante, cioè il movimento che porta diverse chiese, specialmente in area
germanica, a separarsi dalla Chiesa cattolica, è nata dalla elaborazione da
parte di Lutero del suo pensiero teologico originale in un processo durato
molti anni di progressivo confronto con la teologia e la dottrina cattoliche, e
che la formulazione di tesi antitetiche alla dottrina cattolica, ancorché in
tempi e con “velocità” differenti, ha portato allo scontro aperto con la
gerarchia. Non stupisce, quindi, che alcuni autori considerino certe opere solo
come “pre-riformatrici”, mentre altri le considerino già espressione di un
pensiero riformatore. Fissare l’inizio della Riforma al 1517 non è solo
arbitrario, ma è soprattutto fuorviante, perché identifica l’elemento centrale
della Riforma nella questione delle indulgenze, una questione che per Lutero
rappresentava solamente un aspetto particolare e che anche per specialisti
protestanti ha un ruolo marginale.
Si
deve tener presente che la bolla Exsurge Domine di Papa Leone X
(1513-1521) del 15 giugno 1520 elenca quarantuno tesi che Lutero avrebbe dovuto
ritrattare entro sessanta giorni, pena la scomunica, e che solo sei di queste
tesi, quelle dalla XVII alla XXI riguardano le indulgenze, mentre le restanti
trentacinque trattano di altre questioni. Lutero però, non solo non le ha
ritrattate, ma, al contrario, ha continuato a difenderle e in alcuni casi le ha
formulate in maniera ancora più radicale[2].
In particolare egli ha sostenuto che la questione più importante di tutte
riguardava la negazione del libero arbitrio[3],
cioè la capacità di compiere opere autenticamente buone e meritevoli davanti a
Dio per la salvezza individuale, una tesi, quindi, rilevante per la dottrina
della giustificazione. La mancata ritrattazione di Lutero ha avuto come conseguenza
la sua scomunica con la bolla Decet Romanum Pontificem del 3 gennaio
1521.
La
dottrina della giustificazione ha avuto un ruolo fondamentale alle origini
della Riforma e continua ad averlo tuttora, cosi che gli incontri ecumenici a
vari livelli fra cattolici e protestanti vertono spesso sulla questione della
giustificazione e hanno portato a documenti comuni, come nel caso della Dichiarazione
congiunta fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla
dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999. In essa si legge: «Premessa — 1. La dottrina della giustificazione ha avuto un’importanza
fondamentale per la Riforma luterana del XVI secolo. Essa l’ha considerata
l’“articolo primo e fondamentale” e, al tempo stesso, la dottrina che “governa
e giudica tutti gli altri aspetti della dottrina cristiana”. Essa è stata
particolarmente sostenuta e difesa, nella sua accezione riformata e nel suo
valore particolare a fronte della teologia e della Chiesa cattolica romana del
tempo, le quali sostenevano e difendevano da parte loro una giustificazione
dagli accenti diversi. Dal punto di vista riformato, la giustificazione era il
fulcro attorno al quale si cristallizzavano tutte le polemiche. Gli scritti
confessionali luterani e il Concilio di Trento della Chiesa cattolica emisero
condanne dottrinali che sono valide ancora oggi e che hanno un effetto di
separazione tra le Chiese.
2. Per
la tradizione luterana, la giustificazione ha conservato tale particolare
valore. Per questo motivo essa ha assunto fin dall’inizio un posto importante
anche nel dialogo ufficiale luterano-cattolico.
[…]
13. Le
interpretazioni e applicazioni contraddittorie del messaggio biblico della
giustificazione sono state nel XVI secolo una causa primaria della divisione
della Chiesa d’Occidente, che si è espressa e ha anche avuto effetti sulle
condanne dottrinali»[4].
Lutero
ha trattato sistematicamente e diffusamente la questione della giustificazione
in una serie di lezioni a commento della Lettera ai Romani iniziate nel
semestre estivo del 1515, la redazione finale è ricordata in una lettera del
settembre 1516[5].
Il presente articolo analizza quest’opera che presenta un quadro già abbastanza
definito del pensiero teologico del Riformatore.
2. La questione della giustificazione nella
crisi spirituale di Lutero
Nelle
sue opere Lutero fornisce alcune indicazioni sul suo travaglio spirituale e
come abbia trovato la tranquillità per mezzo di un’interpretazione personale
delle lettere di san Paolo e della Sacra Scrittura. A volte ne parla in prima
persona, altre volte, invece, descrive in forma generale le crisi spirituali,
in particolare l’ansia, l’angoscia e la depressione provocate in lui dalle
concezioni della giustificazione basate sulla teologia scolastica, a sua volta
basta sulle opere di Aristotele (384/383-322/321 a.C.). In un passaggio ricorda
come si era tormentato a lungo meditando giorno e notte sulla giustizia divina
e quindi su come comportarsi per non dover temere la dannazione. Nel suo zelo
iniziale aveva cercato di impegnarsi sempre più intensamente nelle pratiche
religiose, le opere, ma questo non lo aveva rassicurato, anzi lo aveva portato
alla disperazione. Solo la convinzione che la giustizia di Dio non deve esser
ottenuta attivamente, con le opere, ma può essere solo ricevuta passivamente
come un dono di Dio, lo ha liberato dal tormento della punizione eterna con
l’impressione che gli si «spalancassero le porte del paradiso». Egli
scrive: «Finalmente Dio ebbe compassione di me. Mentre meditavo giorno e
notte ed esaminavo la connessione di queste parole: “La giustizia di Dio è
rivelata nel Vangelo come è scritto: Il giusto vivrà per fede’, incominciai a
comprendere che la giustizia di Dio significa qui la giustizia che Dio dona, e
per mezzo della quale il giusto vive, se ha fede. Il senso della frase è dunque
questo: il Vangelo ci rivela la giustizia di Dio, ma la giustizia passiva, per
mezzo della quale Dio nella sua misericordia, ci giustifica mediante la fede,
come è scritto: “il giusto vivrà per mezzo della fede”». «Subito — continua
— mi sentii rinascere, e mi parve che si spalancassero per me le porte del
paradiso. Da allora la Scrittura intera prese per me un significato nuovo […].
Così quel passo di S. Paolo divenne per me la porta del Paradiso»[6].
La
presunzione di potersi salvare solo con le proprie forze è attribuita
all’influenza del diavolo che «[…] grava altri di stolida fatica,
affinché si sforzino d’essere puri e santi, assolutamente privi d’ogni peccato.
E finché essi avvertono di peccare e sentono che qualcosa di male s’insinua di
nascosto in loro, li atterrisce col giudizio e tormenta la loro coscienza, fino
a condurli alla soglia della disperazione, [e facendo presa sul loro]
fervore per la giustizia, non può convincerli facilmente a fare il contrario.
Perciò comincia con l’aiutarli nel loro proposito, in modo che con impegno
eccessivo s’affrettino a liberarsi da ogni concupiscenza. Tosto che non ci
riescono, li rende tristi, abbattuti, pusillanimi, disperati e agitatissimi
nella loro coscienza» (p. 356).
La
sua nuova interpretazione lo ha portato a prendere le distanze dal concetto di
giustizia che aveva provocato i suoi tormenti e i suoi scrupoli di coscienza,
arrivando addirittura a provarne disgusto: «Poi (per parlare di me) il
sentire il vocabolo “giustizia” provoca in me tanta nausea, che non proverei
tanto dolore, se qualcuno mi derubasse. Tuttavia è un’espressione che i
giuristi hanno sempre in bocca. In questa materia non c’è al mondo gente più
ignorante dei giuristi e degli uomini ‘benintenzionati’ e ‘dalla ragione
sublime’. Poiché anch’io ho sperimentato in me ed in molti che proprio là dove
noi eravamo giusti, Dio se ne rideva di noi nella nostra giustizia» (p.
642).
Ciò
che Lutero trova inammissibile è l’applicazione del concetto di giustizia
commutativa al rapporto fra l’uomo e Dio, soprattutto riguardo alla
giustificazione, cioè alla salvezza.
«Dio
infatti non ci vuole salvare mediante la nostra propria giustizia e sapienza ,
ma per mezzo d’una giustizia e d’una sapienza che provengono dall’esterno; non
mediante una giustizia che derivi e nasca da noi, ma per mezzo di quella che
viene a noi provenendo da un altro luogo; non mediante quella che germina dalla
nostra terra, ma mediante la giustizia che viene dal cielo. Perciò bisogna
essere istruiti in una giustizia che proviene totalmente dal di fuori e ci è
estranea. A questo scopo, in primo luogo, bisogna che sia estirpata la nostra
propria giustizia» (p. 186).
3. Le due giustizie
Lutero
distingue nettamente due tipi di giustizia e di sapienza, quelle terrene da
quelle celesti, che non hanno niente in comune. Da una parte c’è una giustizia
umana e terrena, dall’altra una giustizia che viene dal cielo, che ci è
estranea, che viene totalmente dal di fuori e, per riuscire a comprendere
quest’ultima, diventa necessario liberarsi della propria concezione di
giustizia. Lo stesso vale per il concetto di sapienza.
Il
monaco critica in particolate la concezione di giustizia di Aristotele. Il
filosofo greco definisce la giustizia come «[…] quella disposizione
di animo, per la quale gli uomini sono inclini a compiere cose giuste e per la
quale operano giustamente e vogliono le cose giuste»[7].
La giustizia riguarda diversi ambiti del comportamento umano e quindi anche la
pratica di differenti virtù, di converso nelle «[…] azioni ingiuste
v’è sempre il riferimento a qualche vizio»[8].
Il concetto di giustizia è sempre collegato a un comportamento attivo, in
particolare a un comportamento virtuoso «[…] e per questo spesso la
giustizia sembra essere la più importante delle virtù»[9],
soprattutto nei confronti degli altri, «[…] e il migliore non è chi
fa uso della virtù riguardo a se stesso, bensì riguardo ad altri: e questo è
opera difficile»[10].
Aristotele
distingue una giustizia generale dalle forme particolari di giustizia, una
delle quali è la giustizia commutativa, ben espressa nel concetto di “suum
cuique tribuere”, dare a ciascuno quello che gli spetta di diritto. Nella
giustizia commutativa è importante il concetto di equità che deve esistere
tanto tra le persone contraenti, quanto per le cose: «[…] e quali
sono i rapporti tra le cose, tali dovranno essere anche quelli tra le persone:
se infatti esse non sono eque non avranno neppure rapporti equi, bensì di qui
sorgeranno battaglie e contestazioni, qualora persone eque abbiano e ottengano
rapporti non equi oppure persone non eque abbiano e ottengano rapporti equi.
Ciò è ancora evidente dal punto di vista del merito: tutti infatti concordano
che nelle ripartizioni vi debba esser il giusto secondo il merito, ma non tutti
riconoscono lo stesso merito»[11].
Lutero
è critico anche nei confronti dell’utilizzo della giustizia commutativa nella
società civile: partendo dal presupposto che tutti sono peccatori, tutti
commettono ingiustizie e a tutti può essere imputata qualche ingiustizia,
ciascuno prima di pretendere giustizia per sé, cioè che gli venga attribuito
ciò che gli spetta, il suum, dovrebbe riflettere sulle ingiustizie delle
quali lui stesso è responsabile: «Benché colui che arreca un torto lo faccia
ingiustamente, ciò non vale per colui che lo subisce: egli patisce giustamente.
Infatti, con quale diritto il diavolo possiede gli uomini? E con quale diritto
il carnefice malvagio impicca il ladro? Certo non per un suo diritto, ma per
quello stabilito dal giudice. Così gli uomini che presumono nella loro
giustizia non vogliono badare al giudice supremo, ma badano soltanto al loro
giudizio. Siccome, in rapporto a chi si comporta ingiustamente, risultano innocenti,
pretendono d’essere innocenti in tutto e per tutto. Dunque, poiché nessuno è
giusto davanti a Dio, proprio a nessuno può essere fatta ingiustizia da qualche
creatura, anche se si può far valere un proprio diritto contro di essa. Perciò
a tutti gli uomini è stato tolto ogni motivo di contesa. Perciò ognuno a cui
sia fatto un torto e a cui capiti un male, mentre fa del bene, distolga lo
sguardo da questo male e consideri quanto grande sia il suo male sotto altri
rispetti. Allora, nel male che gli capita, vedrà quant’è buona la volontà di
Dio. Questo infatti significa rinnovare la mente, cambiare il proprio modo di
pensare ed essere saggio nelle cose di Dio» (p. 643 )[12]
.
Nel
rapporto fra uomo e Dio non sarebbe assolutamente possibile applicare il suum
cuique tribuere: da una parte, si deve tenere conto dell’asimmetria della
relazione, cioè che ogni uomo è prima di tutto debitore di Dio e quindi non
potrebbe accampare pretese per le proprie opere e dall’altra della concezione
del merito, poiché dopo il peccato originale la natura umana sarebbe
intrinsecamente malvagia e incline al male.
«Il
peccato originale non è soltanto la privazione di una qualità della volontà,
anzi non consiste neppure nella privazione di luce nell’intelletto, di forza
nella memoria; no, esso, in senso vero e proprio, è la privazione totale del
corretto funzionamento e della capacità di esercizio di tutte le facoltà, tanto
del corpo quanto dell’anima, insomma dell’uomo intero, interiore ed esteriore.
Inoltre esso è la stessa inclinazione al male, la nausea nei confronti del
bene, la ripugnanza della luce e della sapienza; e viceversa: è amore
dell’errore e delle tenebre, fuga e orrore di fronte alle opere buone e corsa
verso il male» (p. 429).
Secondo
Lutero il peccato originale ha compromesso negli uomini le facoltà naturali,
l’uomo sarebbe dominato dalla concupiscenza e incapace di compiere delle opere
veramente buone tali da essere gradite a Dio e da costituire un merito nella
prospettiva della salvezza[13].
«La
natura — scrive — […] è propensa al male ed
è incapace di fare il bene; anzi piuttosto che amare la legge che obbliga ad
agire bene e proibisce il male, l’ha in abominio; perciò, di per se stessa, non
prova nessuna buona disposizione verso la legge, ma solo disgusto. Così essa rimane
sempre schiava di una passione cattiva, che la porta ad agire contro la legge.
A meno che non le giunga aiuto dall’alto, è sempre colma di cattivi desideri,
benché costretta dalla paura della pena o adescata dal vivo desiderio di
piaceri temporali, compia esteriormente delle opere» (p. 263).
Dopo
il peccato originale l’uomo sarebbe dominato dalla concupiscenza e dall’amore
di se stesso, e viene descritto come ripiegato su se stesso, curvatus, ciò che gli
impedirebbe di amare autenticamente Dio e il prossimo e di usufruire
legittimamente delle cose:
«La
nostra natura, per il vizio del primo peccato, è ricurva in modo così profondo
su di sé, che non solo piega verso di sé gli ottimi doni di Dio e ne gode —
anzi si serve anche di Dio, per ottenere questi beni —, ma non si rende neanche
conto di cercare ogni cosa, Dio compreso, per se stessa, in modo così iniquo,
storto» (p. 415).
Per
la sua curvatura su se stesso, l’uomo non sarebbe capace di superare il proprio
egoismo e di praticare la carità, ciò che vizierebbe l’intenzione con la quale
vengono compiute le opere, anche quelle che possono apparire buone.
«Poiché,
anche se esteriormente fanno il bene, tuttavia non agiscono col cuore, e perciò
non cercano Dio, ma piuttosto la gloria, il [proprio] guadagno o — se non altro — di schivare la pena. E perciò
non fanno il bene ma piuttosto (se fosse lecito dirlo) lo subiscono, cioè sono
costretti dal timore o dall’amore a fare quel bene che di loro libera
iniziativa non farebbero. Coloro, invece, che cercano Dio fanno il bene in modo
disinteressato e gioioso, solo per Dio, non per avere un certo possesso su
qualche creatura, spirituale o corporale che sia. Ciò, tuttavia, non è opera
della natura, ma della grazia di Dio» (p. 316).
4. Il ruolo della concupiscenza
Lutero
richiama spesso il “non desiderare” dei Comandamenti e ne trae una semplice
conseguenza: dal momento che nessuno non può non desiderare, non è
assolutamente possibile ottemperare alla legge, ma si è sempre sotto il
peccato: «Quando perciò la legge dice: “Non desiderare”, la concupiscenza è
proibita in modo tanto radicale, che tutto ciò che si desidera al di fuori di
Dio, anche ammesso che lo si desideri per Dio, è peccato» (p. 485).
Ai
tempi di Lutero la psicologia riconosceva nell’uomo due passioni fondamentali:
la concupisci-bile e l’irascibile. La concupiscibile fa desiderare e aspirare
al bene, l’irascibile invece combatte gli ostacoli che si frappongono al
raggiungimento del bene. Lutero utilizza qualche volta questa distinzione per
descrivere la perversione di entrambe le passioni come amore disordinato e ira
ingiustificata, che possono presentarsi anche come vizi: «Questi due vizi li
chiamiamo pertanto così: leggerezza e durezza. […] Sono infatti questi i
peccati fondamentali dai quali provengono tutti i vizi dei prelati. E non c’è
da meravigliarsi. Infatti la leggerezza ha le sue radici nella facoltà
concupiscibile. Mentre la durezza si radica in quella irascibile» (p. 189).
Per
Lutero, però, il problema è soprattutto la concupiscenza, l’amore per se
stessi, che comprometterebbe ogni pensiero, desiderio o atto umano e sarebbe di
per sé un peccato. L’uomo sarebbe incapace di compiere opere veramente buone,
ma “compie male opere buone”, cioè anche quando compie opere che dal punto di
vista umano sono buone, le farebbe solo o per timore di una punizione o per un
proprio vantaggio personale, ma non con la corretta intenzione, cioè per amore
di Dio o del prossimo. «L’uomo, infatti, non può cercare se non ciò che è
suo e non può amare se non se stesso sopra tutte le cose. Questa è l’anima di
tutti i suoi vizi. Perciò tali persone cercano se stesse anche nelle opere
buone e nelle virtù, cercano cioè di piacere a se stesse e d’applaudirsi da sé»
(p. 309). L’uomo sarebbe sempre sotto il peccato, non solo tutti i suoi sforzi
per evitare peccati attuali, ma anche quelli per compiere opere buone per
acquisire meriti davanti a Dio, sarebbero inutili a causa della concupiscenza,
poiché «Questo peccato interno non può essere tolto in questa vita» (p.
381). Nonostante tutte le buone intenzioni, «[…] ora Dio ci ha
rivelato che cosa pensa di noi e come ci giudica: tutti sono peccatori» (p.
297). L’uomo rimane quindi peccatore e senza meriti davanti a Dio: «[…] se
Dio dovesse giudicare, non troverebbe in noi nulla di giusto e di puro. Il
giudizio di Dio è invero d’una sottigliezza infinita. E non c’è nulla che sia
fatto in modo tanto accurato, che non sia trovato trasandato davanti a lui; non
c’è nulla di tanto giusto che non sia ingiusto davanti a lui; nulla di tanto
verace che non sia menzognero, nulla di tanto puro che non sia impuro e
profano» (p. 325). Solo la misericordia di Dio può non imputare i peccati e
la concupiscenza che caratterizza tutte le opere umane, ma questo dipende solo
da lui: «Esse infatti non sarebbero buone in sé, a meno che Dio non le
reputi tali: e sono o non sono buone nella stessa misura in cui egli le
considera o non le consideri tali. Perciò il nostro considerare o non
considerare non conta nulla. […] Perciò è sbagliata la definizione che
Aristotele dà della virtù. Secondo tale definizione, è la virtù a renderci
perfetti e a rendere degna di lode l’opera dell’uomo: A meno che egli non
intenda che la virtù ci perfeziona ed esalta le nostre opere nella
considerazione degli uomini ed ai nostri occhi. Ma ciò è abominevole agli occhi
di Dio: gli piace di più il contrario!» (p. 558).
Per
la teologia cattolica il peccato originale ha certamente rotto l’armonia
originaria interiore e ha indebolito le facoltà naturali, la ragione e la
volontà, quindi la capacità di riconoscere e di perseguire il vero bene. In
particolare si è infranta la padronanza delle facoltà spirituali dell’anima sul
corpo[14].
Prima del peccato originale «L’uomo era integro e ordinato in tutto il suo
essere, perché libero dalla triplice concupiscenza che lo rende schiavo dei
piaceri dei sensi, della cupidigia dei beni terreni e dell’affermazione di sé
contro gli imperativi della ragione»[15].
Mentre per Lutero il peccato originale ha avuto come conseguenza «la
privazione totale del corretto funzionamento e della capacità di esercizio di
tutte le facoltà, tanto del corpo quanto dell’anima» (p. 429),
compromettendo la capacità delle facoltà intellettuali di riconoscere il bene e
della volontà di perseguire il bene, per la teologia cattolica c’è stato un
indebolimento di queste facoltà naturali, ma non la loro compromissione totale.
«Il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato
originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato
sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al
combattimento spirituale»[16].
L’uomo è capace, anche se in modo imperfetto, di riconoscere la legge di Dio
scritta nel suo cuore: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge
che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo
chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento
opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo
ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità
stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato»[17].
A causa della natura corrotta le passioni «[...] che lo provocano al
combattimento spirituale», alle quali l’uomo può resistere e delle
quali non è sempre e necessariamente responsabile: commette un peccato solo chi
cede alla tentazione. Lutero si distacca dalla dottrina cattolica sugli effetti
del battesimo e ritiene che anche dopo il battesimo la concupiscenza non è solo
una inclinazione al male, ma è già di per sé un peccato: «Dio, invero, ha in
odio ed imputa […] la stessa concupiscenza in tutte le sue forme, quella
concupiscenza per cui accade che siamo disobbedienti a questo comando: “Non
desiderare”! […] È dunque questa l’Idra dalle molte teste, il mostro
molto tenace, con cui combattiamo nella palude di Lerna, cioè in questa vita,
fino alla morte» (p. 430).
5. La dottrina cattolica sulla giustizia
La
concezione della giustizia come suum cuique formulata da autori come
Platone (427-347 a.C.), Aristotele e Cicerone (106-43 a.C.), è stata ripresa da
autori cristiani: secondo sant’Agostino (354-430), per esempio, «[…]
la giustizia è virtù cha dà ad ognuno il suo»[18].
La pratica della virtù della giustizia diventa un habitus della persona,
che in questo modo può migliorarsi e contribuire al proprio perfezionamento,
come ricorda san Tommaso (1225/1226-1274): «Giustizia è quel contegno
(habitus) in virtù del quale un uomo di ferma e costante volontà attribuisce a
ciascuno il suo proprio diritto»[19].
Questo presuppone che la ragione permetta di arrivare a una certa conoscenza
della natura dell’uomo e del suo fine, una conoscenza che può essere
ulteriormente illuminata dalla Rivelazione, senza un conflitto fra fede e
ragione. In altri termini, conoscenze della filosofia riguardo alla natura e al
fine dell’uomo, così come ai mezzi per raggiungerlo, possono essere riprese e
integrate dalla teologia. Lutero ha criticato i teologi scolastici, perché
hanno utilizzato conoscenze e metodi della filosofia, in particolare di quella
aristotelica, per descrivere la natura umana e perché sarebbe anche illusoria
la pretesa di definire ciò che è bene per l’uomo: «[…] essi, in modo
assai pericoloso, discutono del “bene” dedotto dalla filosofia, mentre Dio l’ha
mutato in male» (p. 556). La sapienza terrena sarebbe utile nelle attività
pratiche, come la costruzione di edifici e l’agricoltura, ma non le sarebbe
possibile formulare una conoscenza dell’uomo partendo da dati sensibili, in
quanto «[…] è la natura stessa, ferita e corrotta in ogni sua parte,
al punto che, senza la grazia, non solo è incurabile, ma anche totalmente
inconoscibile» (p. 506). Solo la “sapienza di Dio” sarebbe valida, ma essa «[...]
è nascosta e ignota al mondo» (p. 310).
Per
la teologia cattolica e per san Tommaso era chiaro che nei rapporti fra Dio e
l’uomo non era possibile applicare i principi della giustizia commutativa: «[…]
la giustizia commutativa, mediante la quale si costituisce l’uguaglianza fra Dio
e che dà e la creatura che riceve, non può competere a Dio secondo l’accezione
propria, poiché i benefici di Dio eccedono sempre i meriti della creatura»[20].
L’uomo non può quindi pretendere una ricompensa da parte di Dio
corrispondente ai suoi meriti: «Qualsiasi cosa possa venire offerta a Dio da
parte dell’uomo: essa è dovuta; ed è pertanto impossibile una restituzione
nella misura dell’equivalente, tale che l’uomo dia tanto quanto deve»[21].
L’uomo
deve perciò avere fede e sperare nella misericordia di Dio, ma in tutti i suoi
limiti «[…] con la sua libera volontà, potrà prepararsi alla
giustizia davanti a Dio»[22].
[1] Cfr. Franco Buzzi, Saggio introduttivo a
La teologia di Lutero nelle “Lezioni sulla Lettera ai Romani”, in Martin Lutero, La Lettera ai Romani
(1515-1516), ed. it. a cura di Idem, 2a ed., San Paolo,
Cinisello Balsamo (Milano) 1996, pp. 5-180 (p. 5).
[2] Cfr. Assertio omnium articulorum
Martini Lutheri per bullam Leonis X. Novissimam damnatorum, in WA [Dr.
Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, 112, voll., Hermann Böhlaus
Nachfolger, Weimar 1897], vol. VII, pp. 94-151. Le traduzioni dalla WA sono dell’Autore.
[3] Ibid.,
p. 148.
[4] Dichiarazione
congiunta fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla
dottrina della giustificazione, del 31-10-1999, alla pagina ,
consultata il 9-5-2017.
[5] Il testo latino è pubblicato nel volume
LVI della WA, ed. 1938, pp. 155-528. La maggioranza delle
citazioni in questo articolo si riferiscono all’edizione italiana dell’opera di
Lutero: La Lettera ai Romani (1515-1516), a cura di Franco Buzzi,
2a ed., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996, e verranno
indicate nel testo solo con il numero della pagina.
[6] Roberto Coggi O.P., Ripensando Lutero,
PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004, p. 68.
[7] Aristotele, Etica nicomachea,
1129, a 9-11, trad.it., in Idem, Opere
volume settimo, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 105.
[8] Ibid.,
1130 a 29-30, p. 109.
[9] Ibid.,
1129 b 27-28, p. 107.
[10] Ibid.,
1130, a 7-8, p. 108.
[11] Aristotele, op., cit., 1131, a 22-28, p. 114.
[12] Lutero è
spesso radicale nelle sue valutazioni: quelli che hanno commesso un’ingiustizia
non possono pretendere giustizia neanche quando sono innocenti. Questo
principio, cioè che chi è vittima di un’ingiustizia deve sopportarla come una
punizione che rientra nel piano di Dio, viene applicato in diversi contesti.
Per esempio, Lutero non ritiene legittimo combattere i turchi: si tratta di una
delle tesi condannate dalla bolla Exsurge Domine, esattamente la XXXIV,
«Combattere contro i Turchi è opporsi a Dio, che visita le nostre iniquità per
loro mezzo» (cit. in R. Coggi O.P., op. cit. p.
103).
[13] Dopo aver
sostenuto che l’uomo «[...] è sempre proclive al male, al punto di
non poter essere sollevato ed orientato al bene, se non per grazia di Dio»,
Lutero deve ammettere: «È tuttavia vero — lo concedo — che si possa fare e volere qualcosa di buono
con quella disposizione d’animo, non tutto però! Infatti, non siamo inclini al
male fino al punto che non resti in noi nessuna parte propensa al bene, com’è appunto
manifesto nella sinderesi» (p. 309; cfr. anche p. 369).
[14] Cfr. Catechismo
della Chiesa Cattolica, n. 400.
[15] Ibid.,
n. 377.
[16] Ibid.,
n. 405.
[17] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione
pastorale “Gaudium et spes” sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, del 7
dicembre 1965, n. 16.
[18] Sant’Agostino, La città di Dio,
trad. it., a cura di C. Borgogno, F.S.P., terza edizione, Edizione Paoline,
Roma 1963, p. 1.069.
[19] San Tommaso
d’Aquino, Summa theologiae, II, II, 58, 1, cit. in Josef Pieper, Sulla giustizia,
trad. it., Morcelliana, Brescia 1962, p. 11. Questa formula è ripresa anche dal
Catechismo della Chiesa Cattolica: «La giustizia è la virtù morale che consiste
nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro
dovuto» (n. 1.807).
[20] Idem, Commento alle sentenze di
Pietro Lombardo. Volume 10-Liber IV. Distinctiones 43-50. L’escatologia
individuale e generale, trad. it., ESD. Edizioni Studio Domenicano, Bologna
2002, 4 Dist. 46, q. 1, a. 1, p. 383.
[21] Idem, Summa theologiae, cit., II,
II, 80, 1, cit. in J. Pieper, op.
cit., p. 106.
[22] Enchiridion
symbolorum, a cura di Heinrich Joseph Dominicus Denzinger (1819-1883) e
Adolph Schönmetzer, S.J. (1910-1997), n. 1.525, cit. in Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 2.068.
Interessante disquisizione filosofico-teologica che però ha valore solo in sede accademica. Se ci impelaga in un dibattito scolastico si trovano quelli che, cavillosamente stiracchiando, concludono che Lutero non è così lontano dal cattolicesimo e altri ( a ragione)che lo è. Basta e avanza la, fuori discussione, palese deviazione dottrinale da una fede millenaria e l'odio aggressivo di tipo nazista che il protestantesimo ha condotto contro la Chiesa. Lutero e le sette cha ha generato sono opposte alla dottrina cristiana e cattolica anche sul piano sociale ed è strano, e sospetto, che colui che batte la grancassa del pauperismo, abbia in simpatia l'individualismo capitalista figlio ed erede del protestantesimo.
RispondiEliminaConcordo.
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