di Rino Cammilleri
In effetti, gli storici dell’arte sanno che su quell’altare stanno anche bronzei angeli settecenteschi, e affreschi rinascimentali campeggiano qua e là sulle pareti, perciò un tocco di moderno era del tutto coerente col mix di epoche. É tuttavia un fatto che, a chi entra, quei due cosi bianchi laggiù in fondo sembrano lì per lì proprio dei sanitari, e solo avvicinandosi si scopre che –ovviamente- non lo sono. Chissà se si discuterà anche di questo, magari incidentalmente, nel convegno internazionale “Viste da fuori” (da oggi al 4 giugno) organizzato dalla Cei (vescovi) e dal Cna (architetti) che si svolgerà, significativamente, al monastero di Bose e dibatterà di chiese moderne.
L’articolo di Leonardo Servadio (del 29 maggio su Avvenire online) che lo annuncia è corredato da una foto della chiesa detta Resurrezione di Gesù a Sesto San Giovanni, un “gizmo” (gergo scientifico per dire “boh”) a strisce bianche e nere che non sfigurerebbe su Krypton (il pianeta natale di Superman). Tant’è che l’articolista si affretta a chiosare preoccupato: «Se il barocco fu interprete puntuale del Concilio tridentino, col proteiforme moderno ci troviamo di fronte a linguaggi lontani dalla tradizione, a volte incerti nel trasmettere il messaggio del Concilio Vaticano II». Per forza, dico io, dal momento che, se c’è una cosa incerta e magmatica, è proprio tale “messaggio”. L’incipit, poi, è perfettamente condivisibile: «C’era un tempo in cui si sapeva com’erano fatte le chiese: si riconoscevano a prima vista. Ma oggi come si distinguono nell’affastellarsi delle molteplici suggestioni architettoniche?».
Bella domanda. Ma temiamo che neanche il convegno caverà un ragno dal buco, viste le interviste all’(arci)vescovo Bruno Forte e al (don) responsabile per la Cei dei Beni culturali & nuovi edifici. Con alate parole e circonvoluzioni semantiche essi dimostrano come e qualmente le cose non solo resteranno così, ma la direzione è ormai fissa, perciò scordatevi la riconoscibilità a distanza degli edifici religiosi. Se volete un saggio delle pezze giustificative andate a leggervi le magnificazioni, sulle riviste di architettura, della chiesa a strisce dell’ex Stalingrado d’Italia.
La prosa è la solita che campeggia nelle didascalie dei quadri astratti: voi non ci capite niente, ma l’«esperto» vi spiega che quel che state guardando è bellissimo. L’ultimo intervistato nell’intervista è un liturgista, il quale così conclude: «Tra artisti, architetti e presbiteri si richiede una reciproca formazione, alimentata da momenti e luoghi di dialogo e di confronto».
Par di capire, al di là, della retorica e forse anche delle (remote) intenzioni, che l’unico assente in tutto questo gran dialogo è il popolo bue. Al quale –si accettano scommesse- se venisse chiesto un parere magari direbbe che a lui le chiese piacciono a forma di chiesa. Sapete, quelle dei film western, col tetto a spiovente e il campanile con la croce sopra.
Oppure, come le grandi cattedrali americane, che, nella patria della modernità, sono tutte gotico-replica. Sì, perché il senso comune popolare, chissà come mai, si è fermato lì, ai “secoli bui” per quanto riguarda la forma delle chiese. Qualcosa vorrà pur dire. Ma la Chiesa ha cessato da tempo di essere del cosiddetto “popolo di Dio”. Appartiene ai preti, è cosa loro, e guai a dirgli niente.
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