10-04-2016 La Nuova Bussola Quotidiana
Sulle indicazioni per le situazioni familiari irregolari contenute nell'esortazione apostolica Amoris Laetitia (soprattutto nel capitolo 8) si è scatenata in questi giorni una tempesta di interpretazioni. Così, per qualcuno, tutto il documento è finalmente l’approdo ad una “nuova” Chiesa. Lo dicono anche media cattolici, ne parlano diverse personalità del mondo ecclesiale. L’incendio è divampato. Nonostante gli sforzi importanti di leggere il testo nell’unico modo possibile: nella continuità con il Magistero precedente e quindi con il depositum fidei.
Come ha detto il prof. José Granados alla Nuova Bussola, «se si separa il testo [del capitolo 8, NdA] dal contesto della discussione sinodale oppure dalla sua continuità con il magistero precedente, certamente ci possono essere interpretazioni sbagliate». In “Amoris laetitia” c’è un rinnovato approccio pastorale verso le coppie cosiddette irregolari, e c’è anche il discernimento “caso per caso” in merito all’accesso ai sacramenti per le coppie di divorziati risposati. In questo ambito ci sono tre note al testo dell’esortazione (329, 336 e 351) che in queste ore stanno facendo discutere. Offriamo al lettore alcuni termini del problema, senza la pretesa di risolverli, ma per meglio comprendere.
NOTA 329: VIVERE COME FRATELLO E SORELLA?La nota riguarda il § 298 di Amoris Laetitia, quello in cui è scritto che le situazioni «molto diverse» in cui si trovano a vivere i «divorziati che vivono una nuova unione (…) non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio ad adeguato discernimento personale e pastorale». Tra queste situazioni la Chiesa riconosce anche quella in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione». Questa ultima frase è riportata nel testo dall’esortazione Familiaris Consortio di S. Giovanni Paolo II al n°84.
In questo paragrafo è chiaramente indicato che coloro che si trovano nella situazione suddetta (e che non hanno ottenuto riconoscimento di nullità del precedente matrimonio), per conformarsi al bene devono essere «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». E cioè, dice ancora il testo di Giovanni Paolo II, che «assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi». Questa è anche la via, indicata dal testo di Papa Wojtyla, di accesso alla riconciliazione nel sacramento della penitenza e, quindi, la possibilità di comunicarsi.
Ma la nota 329 di “Amoris laetitia” finisce in qualche modo per oltrepassare questo insegnamento:
«In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51)»
Da questa nota sembra addirittura che coloro che sono divorziati risposati civilmente, è bene che vivano a tutti gli effetti come coniugi, perché «se mancano alcune espressioni di intimità» si mette in pericolo «la fedeltà» (?) e «il bene dei figli».
Sono diversi gli elementi che vengono discussi di questa nota 329 e che possono dare luogo a interpretazioni errate rispetto alla natura indissolubile del primo matrimonio (se valido) e all’insegnamento morale della Chiesa:
- la citazione della costituzione conciliare Gaudium et spes 51 risulta disancorata dal contesto originario. In Gaudium et spes, infatti, queste parole sono chiaramente riferite ai coniugi e non ai divorziati risposati;
- utilizzando questa citazione sembra che si possa valutare - come in materia morale fanno i proporzionalisti - l’azione morale sulla base delle conseguenze positive e negative dell’azione, finendo così per obliterare ipso facto l’esistenza di assoluti morali o comportamenti intrinsecamente cattivi. In effetti la nota 329 può dare adito a delle interpretazioni che potrebbero negare l’adulterio come azione in sé cattiva. L’unione coniugale tra due persone che coniugi non sono, può quindi essere, in certi casi, un bene?
- In questo caso, come valutare quanto riportato al n°52 dell’enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II laddove insegna che vi sono atti (tra cui l’adulterio) che, appunto, si definiscono «intrinsecamente cattivi», «sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze?».
NOTE 336 E 351: ACCESSO AI SACRAMENTI PER DIVORZIATI RISPOSATI
Il contesto in cui vengono inserite le due note è simile, cioè quello di un differente grado di responsabilità del penitente in funzione di condizionamenti e/o fattori attenuanti. In questi casi, dice la nota 336, le conseguenze o gli effetti di una norma non devono essere necessariamente sempre gli stessi.
«Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale», si legge nella nota, «dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47
In questo caso, pur restando il dubbio in merito a quale disciplina sacramentale faccia riferimento il testo, appare chiaro che ci sia un’apertura pratica, in certi casi, all’accesso ai sacramenti: finché si tratta (per esempio) della confessione e dell’unzione degli infermi, non c’è contrasto tra (da un lato) quanto dice questa nota e (dall’altro) la natura di questi sacramenti e l’insegnamento della Chiesa; ma, se si trattasse dell’eucaristia, invece sì.
La nota 351, invece, ancor più complessa e problematica, si inserisce nel § 305 del testo, laddove si parla del fatto che a causa di «condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio (…) ricevendo a tal scopo l’aiuto della Chiesa». E qui si innesta la nota 351:
«In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44:AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)».
Pertanto, in certi casi, sembra aperta la via dei sacramenti a divorziati risposati civilmente attraverso una non-imputabilità soggettiva riconosciuta, nonostante la presenza di una condizione oggettiva di peccato.
Indichiamo solo alcuni elementi problematici che emergono:
- al confessore sembra essere richiesto di giudicare in modo esatto lo stato soggettivo della coscienza, arrivando di fatto ad esprimere un giudizio sul cuore dell’uomo (cosa che normalmente la Chiesa non ha mai fatto, rimanendo sul piano, appunto, della situazione oggettiva. È il caso di Familiaris consortio che chiedeva, per l’accesso ai sacramenti, di abbracciare la continenza con il proposito di non commettere più quel peccato.);
- qualche commentatore ha citato, per spiegare questa prassi, il principio dell’epicheia tomista (in realtà travisando san Tommaso, ma sarebbe un discorso lungo…), ossia quello per cui sarebbero ammesse eccezioni alla norma. Ma tale principio, caldeggiato anche più volte dal cardinale Kasper, era stato già valutato come non applicabile proprio in casi come quelli dei divorziati risposati che esercitano anche la sessualità, da un documento firmato cardinale Ratzinger, prefetto della Dottrina della Fede. Il principio di epicheia [ed aequitas canonica], si legge in quel documento del 1994, “non possono essere applicate nell'ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L'indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di "diritto divino". La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali - ad esempio nella pastorale dei Sacramenti -, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore.”
- come valutare quindi quanto riportato dall’enciclica Veritatis Splendor a proposito del fatto che “se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla?” (n°81)
Infine, come conciliare queste tre note (329, 336 e 351) con il paragrafo 303 di Amoris laetitia, che dice: «Dato che nella stessa legge [morale] non c’è gradualità (cfr. Familiaris consortio, 34), questo discernimento [quello fatto dal divorziato risposato sulla sua situazione] non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità […] proposte dalla Chiesa»?
Come ha detto il prof. José Granados alla Nuova Bussola, «se si separa il testo [del capitolo 8, NdA] dal contesto della discussione sinodale oppure dalla sua continuità con il magistero precedente, certamente ci possono essere interpretazioni sbagliate». In “Amoris laetitia” c’è un rinnovato approccio pastorale verso le coppie cosiddette irregolari, e c’è anche il discernimento “caso per caso” in merito all’accesso ai sacramenti per le coppie di divorziati risposati. In questo ambito ci sono tre note al testo dell’esortazione (329, 336 e 351) che in queste ore stanno facendo discutere. Offriamo al lettore alcuni termini del problema, senza la pretesa di risolverli, ma per meglio comprendere.
NOTA 329: VIVERE COME FRATELLO E SORELLA?La nota riguarda il § 298 di Amoris Laetitia, quello in cui è scritto che le situazioni «molto diverse» in cui si trovano a vivere i «divorziati che vivono una nuova unione (…) non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio ad adeguato discernimento personale e pastorale». Tra queste situazioni la Chiesa riconosce anche quella in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione». Questa ultima frase è riportata nel testo dall’esortazione Familiaris Consortio di S. Giovanni Paolo II al n°84.
In questo paragrafo è chiaramente indicato che coloro che si trovano nella situazione suddetta (e che non hanno ottenuto riconoscimento di nullità del precedente matrimonio), per conformarsi al bene devono essere «sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio». E cioè, dice ancora il testo di Giovanni Paolo II, che «assumano l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi». Questa è anche la via, indicata dal testo di Papa Wojtyla, di accesso alla riconciliazione nel sacramento della penitenza e, quindi, la possibilità di comunicarsi.
Ma la nota 329 di “Amoris laetitia” finisce in qualche modo per oltrepassare questo insegnamento:
«In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51)»
Da questa nota sembra addirittura che coloro che sono divorziati risposati civilmente, è bene che vivano a tutti gli effetti come coniugi, perché «se mancano alcune espressioni di intimità» si mette in pericolo «la fedeltà» (?) e «il bene dei figli».
Sono diversi gli elementi che vengono discussi di questa nota 329 e che possono dare luogo a interpretazioni errate rispetto alla natura indissolubile del primo matrimonio (se valido) e all’insegnamento morale della Chiesa:
- la citazione della costituzione conciliare Gaudium et spes 51 risulta disancorata dal contesto originario. In Gaudium et spes, infatti, queste parole sono chiaramente riferite ai coniugi e non ai divorziati risposati;
- utilizzando questa citazione sembra che si possa valutare - come in materia morale fanno i proporzionalisti - l’azione morale sulla base delle conseguenze positive e negative dell’azione, finendo così per obliterare ipso facto l’esistenza di assoluti morali o comportamenti intrinsecamente cattivi. In effetti la nota 329 può dare adito a delle interpretazioni che potrebbero negare l’adulterio come azione in sé cattiva. L’unione coniugale tra due persone che coniugi non sono, può quindi essere, in certi casi, un bene?
- In questo caso, come valutare quanto riportato al n°52 dell’enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II laddove insegna che vi sono atti (tra cui l’adulterio) che, appunto, si definiscono «intrinsecamente cattivi», «sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze?».
NOTE 336 E 351: ACCESSO AI SACRAMENTI PER DIVORZIATI RISPOSATI
Il contesto in cui vengono inserite le due note è simile, cioè quello di un differente grado di responsabilità del penitente in funzione di condizionamenti e/o fattori attenuanti. In questi casi, dice la nota 336, le conseguenze o gli effetti di una norma non devono essere necessariamente sempre gli stessi.
«Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale», si legge nella nota, «dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47
In questo caso, pur restando il dubbio in merito a quale disciplina sacramentale faccia riferimento il testo, appare chiaro che ci sia un’apertura pratica, in certi casi, all’accesso ai sacramenti: finché si tratta (per esempio) della confessione e dell’unzione degli infermi, non c’è contrasto tra (da un lato) quanto dice questa nota e (dall’altro) la natura di questi sacramenti e l’insegnamento della Chiesa; ma, se si trattasse dell’eucaristia, invece sì.
La nota 351, invece, ancor più complessa e problematica, si inserisce nel § 305 del testo, laddove si parla del fatto che a causa di «condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio (…) ricevendo a tal scopo l’aiuto della Chiesa». E qui si innesta la nota 351:
«In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44:AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)».
Pertanto, in certi casi, sembra aperta la via dei sacramenti a divorziati risposati civilmente attraverso una non-imputabilità soggettiva riconosciuta, nonostante la presenza di una condizione oggettiva di peccato.
Indichiamo solo alcuni elementi problematici che emergono:
- al confessore sembra essere richiesto di giudicare in modo esatto lo stato soggettivo della coscienza, arrivando di fatto ad esprimere un giudizio sul cuore dell’uomo (cosa che normalmente la Chiesa non ha mai fatto, rimanendo sul piano, appunto, della situazione oggettiva. È il caso di Familiaris consortio che chiedeva, per l’accesso ai sacramenti, di abbracciare la continenza con il proposito di non commettere più quel peccato.);
- qualche commentatore ha citato, per spiegare questa prassi, il principio dell’epicheia tomista (in realtà travisando san Tommaso, ma sarebbe un discorso lungo…), ossia quello per cui sarebbero ammesse eccezioni alla norma. Ma tale principio, caldeggiato anche più volte dal cardinale Kasper, era stato già valutato come non applicabile proprio in casi come quelli dei divorziati risposati che esercitano anche la sessualità, da un documento firmato cardinale Ratzinger, prefetto della Dottrina della Fede. Il principio di epicheia [ed aequitas canonica], si legge in quel documento del 1994, “non possono essere applicate nell'ambito di norme, sulle quali la Chiesa non ha nessun potere discrezionale. L'indissolubilità del matrimonio è una di queste norme, che risalgono al Signore stesso e pertanto vengono designate come norme di "diritto divino". La Chiesa non può neppure approvare pratiche pastorali - ad esempio nella pastorale dei Sacramenti -, che contraddirebbero il chiaro comandamento del Signore.”
- come valutare quindi quanto riportato dall’enciclica Veritatis Splendor a proposito del fatto che “se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla?” (n°81)
Infine, come conciliare queste tre note (329, 336 e 351) con il paragrafo 303 di Amoris laetitia, che dice: «Dato che nella stessa legge [morale] non c’è gradualità (cfr. Familiaris consortio, 34), questo discernimento [quello fatto dal divorziato risposato sulla sua situazione] non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità […] proposte dalla Chiesa»?