di don Alfredo Morselli
Il cardinale Josyp Ivanovyč Slipyj (1892- 1984) |
Nella provvidenziale «Dichiarazione comune di Papa Francesco e del Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia», del 12-2-2016, si trova un neo non da poco e da non sottovalutare - pur nell'euforia generale per una tipologia di documento inaspettata. Si tratta della condanna del cosiddetto "metodo dell'uniatismo".
"Oggi è chiaro che il metodo dell’ “uniatismo” del passato, inteso come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa, non è un modo che permette di ristabilire l’unità".
Questa parte della dichiarazione è inopportuna per diversi motivi.
In primo luogo non è ammissibile che venga accettata da parte cattolica l'inserimento, in un documento ufficiale, del termine dispregiativo "uniatismo" (da "uniate" dal polacco "Unia"); esso fu coniato dagli ortodossi nei confronti di quei fratelli - correttamente denominati greco-cattolici - che hanno voluto rimanere fedeli al Papato a costo di sanguinose persecuzioni da parte degli ortodossi stessi e dei comunisti.
Il metodo dell'uniatismo è stato - tra gli altri - il metodo del Cardinale Slipyj - fedele alla Chiesa nonostante 18 anni di lager. È il metodo dei greco-cattolici perseguitati che avrebbero dovuto far finta di niente e non rinfacciare al clero ortodosso di essersi asservito a Stalin, di aver fatto man bassa della chiese cattoliche grazie alle sue "concessioni" e di essere stati conniventi anche coi successori dell'efferato dittatore.
E oggi "il metodo dell'uniatismo" è diventato lo spauracchio rinfacciato a chi si rifiuta di accettare un nuovo "cuius regio eius religio", per cui chi è di qua è di qua, e chi è di là può fare tranquillamente a meno del Primato Petrino e di una decina di Concilî.
I greco-cattolici si trovano oggi davanti a una nuova Ostpolitik vaticana.
Per offrire ai nostri lettori un quadro sintetico della storia della fedeltà dei greco-cattolici, riportiamo un pregevole scritto di Padre Romano Scalfi; notiamo in esso un autentico anelito ecumenico, in spirito di dialogo e senza svendite.
01/04/2001 - «Uniati, la libertà e il coraggio del perdono» di padre Romano Scalfi, Russia cristiana.
La storica visita di Giovanni Paolo II in Ucraina è prevista dal 23 al 27 giugno prossimi - Com'era prevedibile, la prospettiva della visita papale sta rinfocolando polemiche e riaprendo vecchie ferite tra greco cattolici e ortodossi - Ma come nasce storicamente la Chiesa greco cattolica ucraina? E in quali circostanze? Cosa è possibile fare oggi, concretamente, per superare steccati e divisioni storiche?
Se vogliamo considerare il posto e il significato della Chiesa cattolica ucraina nel quadro della Chiesa universale, dobbiamo parlare dell'unità di tutti i cristiani. L'unità in Cristo deve essere restaurata e le profonde ferite della divisione nel corpo mistico devono essere sanate - affermava in un suo intervento il metropolita Slipyj, l'eroico primate della Chiesa ucraina che la guidò per quarant'anni (dal 1944 al 1984), di cui 18 trascorsi in lager -. Il cosiddetto dialogo ecumenico prosegue oggi alacremente, ma si limita purtroppo alla cerchia ristretta dell'alto clero e degli esperti. In Occidente il popolo vi partecipa poco e nell'Unione Sovietica affatto. Ma nell'Urss grazie alla croce della persecuzione portata in comune, è cresciuto un vero ecumenismo".
La ripetuta sottolineatura di Giovanni Paolo II, circa il valore dei martiri e dei testimoni di Cristo come fondamento della nostra unità, se da un lato conferma l'importanza di conoscere più da vicino testimonianze come quelle della Chiesa cattolica ucraina, dall'altro suona come un doloroso rimprovero a noi, cristiani d'Occidente, che talvolta ignoriamo e dimentichiamo i martiri non solo a causa della fiacchezza della nostra fede, ma anche di pretesi calcoli di opportunità ecumenica. Di questo palese e colpevole silenzio, in particolare, è stata vittima la Chiesa greco-cattolica (o "unita") in Ucraina.
Un po' di storia.
Un po' di storia.
Questa Chiesa si era costituita sul terreno dell'Unione di Brest del 1595-1596, come uno dei vari tentativi di riunione sviluppatisi storicamente in seguito allo scisma del 1054 tra Roma e Bisanzio. Nell'Unione di Brest, sottoscritta con la Sede apostolica dalla Chiesa ortodossa ucraina di Kiev, si prevedeva che la Chiesa greco-cattolica potesse mantenere la propria fisionomia liturgica e canonica orientale pur entrando a far parte della giurisdizione di Roma. In seguito alla graduale annessione di questi territori alla Russia, si susseguirono le pressioni per "far ritornare" la Chiesa greco-cattolica nell'ambito dell'ortodossia; restava invece uno spazio di libertà per la Chiesa greco-cattolica in Galizia, che nel 1795 era stata annessa all'impero austro-ungarico.
Durante la prima guerra mondiale la Galizia venne occupata dalle truppe dello zar e la Chiesa cattolica fu sottoposta a gravi persecuzioni: venne messa in atto una politica volta a cacciare il clero greco-cattolico dalle parrocchie e a consegnare con la forza le chiese agli ortodossi. Lo stesso metropolita di Leopoli Andrej Szeptyckyi fu arrestato e deportato in Russia, dove venne rinchiuso per tre anni in carcere.
Il 1917 segnò inizialmente una tregua per i cattolici bizantini: in seguito alla rivoluzione di febbraio in Russia si instaurò un regime di tolleranza religiosa, il metropolita Andrej fu rimesso in libertà e in maggio-giugno poté addirittura celebrare a Pietrogrado il primo Sinodo diocesano della Chiesa greco-cattolica in Russia.
Il 15 marzo 1922, dopo i mesi turbolenti della guerra civile e un periodo di indipendenza dell'Ucraina (1918-1922), la Lega delle Nazioni assegnava gran parte dell'Ucraina orientale all'Urss e la regione occidentale alla Polonia, con l'obbligo (che non venne mai osservato) di concederle l'autonomia. Negli anni successivi, nella regione si sarebbe fatto sentire un pesante processo di "latinizzazione".
Nel settembre del 1939 scoppiava la seconda guerra mondiale, che vide l'occupazione del territorio polacco da parte delle armate hitleriane. L'intervento era stato preparato dal trattato Molotov-Ribbentrop, un patto di reciproca non aggressione con l'Urss, sancito dalla spartizione della Polonia. La regione di Leopoli, l'antica Galizia, venne così annessa all'Urss entrando a far parte della Repubblica socialista ucraina.
Il regime di persecuzione instaurato in tutto il territorio sovietico contro la Chiesa in generale, e quindi anche contro quella cattolica, fu esteso ovviamente anche ai territori di recente annessione: tra il settembre 1939 e il giugno successivo, i seminari, tutti i monasteri greco-cattolici, le scuole parrocchiali, le pubblicazioni, le istituzioni di carità, le associazioni di laici furono soppressi. Più di 40 sacerdoti furono deportati o giustiziati (nella sola diocesi di Leopoli 28 preti sparirono senza lasciar tracce). Tuttavia, temporaneamente le autorità sovietiche si trattennero dall'applicare in Ucraina i punti più distruttivi della legislazione antireligiosa, forse a causa della loro posizione ancora instabile nei territori appena conquistati (che contavano 4 milioni di cattolici "uniati"), o della crescente preoccupazione di fronte alla minaccia dell'invasione nazista. Questa situazione tuttavia avrebbe avuto breve durata. Due anni dopo Hitler attaccherà il colosso sovietico e occuperà stabilmente l'Ucraina fino agli ultimi mesi di guerra, quando, al seguito dei carri armati russi che ricacciavano in occidente gli invasori, avrebbe marciato anche la repressione staliniana che vedeva nei cattolici e nei loro pastori dei nemici del potere politico. Nell'estate del 1944 il regime sovietico avrebbe così ristabilito la sua influenza sulla Galizia, occupando ben presto anche la Transcarpazia, con la diocesi greco-cattolica di Mukacheve.
Il metropolita Andrej, avvalendosi dei poteri giurisdizionali conferitigli da antichi diritti, approfittò del periodo di relativa tolleranza nominando fin dal settembre 1939 quattro esarchi che avrebbero dovuto costituire il saldo legame dei cattolici dell'Urss con Roma, sia nella bufera del conflitto come nei tempi duri della persecuzione. Egli ottenne inoltre la consacrazione vescovile per Josyf Slipyj, come coadiutore con diritto di successione; alla morte del metropolita Andrej, il primo novembre 1944, egli divenne quindi arcivescovo di Leopoli e metropolita di Halicz.
Nel giugno del 1944 le colonne sovietiche, sfondato il fronte tedesco, erano dilagate vittoriosamente verso occidente "liberando" tutta l'Ucraina dopo tre anni di occupazione nazista. Fin dalla primavera del 1945 il metropolita Slipyj fu chiamato ad affrontare l'offensiva delle autorità sovietiche, che avevano deciso di eliminare per sempre la sua Chiesa da tutti i territori dell'Unione, arrestando l'intero episcopato e organizzando addirittura lo "pseudo-concilio" di Leopoli, nel marzo 1946, che soppresse questa Chiesa annettendola con la forza al patriarcato ortodosso di Mosca.
La Chiesa greco-cattolica ucraina scendeva quindi nelle "catacombe", dove sarebbe rimasta per oltre quarant'anni, con una gerarchia clandestina guidata dal lager dal metropolita Slipyj.
La risalita dalle catacombe.
La risalita dalle catacombe.
Le radici dell'empasse ecumenica nei confronti del patriarcato ortodosso di Mosca, di cui sovente gli "uniti" vengono additati come i colpevoli, sono da ricercarsi in realtà nel triste ruolo di connivenza con il potere sovietico che la Chiesa ortodossa russa ebbe in occasione dell'esautorazione della Chiesa cattolica unita e negli anni successivi, anche dopo la perestrojka (quando ormai la Chiesa non aveva più nulla da temere dal regime!).
Il pontificato di Giovanni Paolo II ha segnato l'inizio di un'attività di coraggioso sostegno alla Chiesa cattolica ucraina. D'altro canto, le polemiche della Chiesa ortodossa russa in seguito ai passi intrapresi da Giovanni Paolo II, come pure i suoi tentativi di ostacolare la revoca del veto staliniano fatto alla Chiesa greco-cattolica e di impedire l'entrata in vigore della legge sovietica sulla libertà di coscienza nel 1989 sono andate di pari passo, negli anni Ottanta, con appelli e iniziative sempre più pressanti e a vasto raggio delle comunità fino allora costrette nelle catacombe. Appelli che hanno ottenuto anche l'interessamento di intellettuali e dell'opinione pubblica.
Tuttavia, il 25 agosto 1989 una delegazione di tre metropoliti del patriarcato di Mosca, fra i quali il metropolita Filaret (Denisenko), allora esarca per l'Ucraina, consegnava a Giovanni Paolo II una missiva confidenziale del patriarca Pimen in cui si proponeva al pontefice di riconoscere la legalità del concilio di Leopoli, di sciogliere la gerarchia greco-cattolica e di consegnare chiese e comunità di fedeli greco-cattolici alla giurisdizione del patriarca di Mosca.
Giovanni Paolo II non ritira però le richieste di legalizzazione della Chiesa unita, avanzate dalla Santa Sede in quei mesi a Gorbaciov, e in seguito allo storico incontro fra i due in Vaticano, il primo dicembre 1989 l'agenzia stampa Novosti riporta una concisa dichiarazione del Soviet per gli affari religiosi ucraini, datata al 20 novembre, in cui si dichiara genericamente che "i greco-cattolici possono godere di tutti i diritti concessi dalla legge sulle associazioni religiose della repubblica ucraina". In realtà non si tratta del riconoscimento della struttura canonica e della gerarchia della Chiesa cattolica ucraina, né si fa menzione della "restituzione" di chiese greco-cattoliche o di altri beni ecclesiastici nazionalizzati, e il governo non prevede neppure di invalidare la decisione del concilio di Leopoli del 1946, di riabilitare la Chiesa o di risarcirla dei danni subiti.
I cattolici ucraini rispondono prontamente a questa promessa di legalizzazione tardiva e limitata riconquistandosi da sé dei luoghi di culto che un tempo appartenevano loro, e di cui la Chiesa ortodossa si era impossessata. Le cifre danno l'idea di un vasto movimento popolare. "All'inizio di gennaio del 1990, in Galizia vengono rivendicate oltre 120 chiese; alla fine del mese il numero cresce a 230 nelle diocesi di Leopoli e di Ternopil', e a 140 nella diocesi di Ivano-Frankivsk. In giugno, nella diocesi di Leopoli 803 chiese vengono requisite da comunità unite di recente formazione, per la maggior parte non ancora registrate; nella diocesi di Ivano-Frankivsk ne vengono occupate circa 500 e in Transcarpazia 12. In Galizia circa 370 sacerdoti ortodossi passano alla Chiesa cattolica ucraina, in tal modo, il numero dei sacerdoti uniati sale a 767, inclusi 186 monaci. In giugno in Galizia si formano in tutto 1.592 comunità greco-cattoliche, che rivendicano 1.303 chiese. Per i seminari cattolici, ancora da restaurare, vengono selezionati 485 candidati al sacerdozio tra un gran numero di aspiranti. Esistono inoltre 700 suore. Nello stesso periodo circa 500 parrocchie ortodosse passano alla Chiesa ortodossa autocefala" (1)
La "riconquista" in massa da parte dei cattolici ucraini delle loro chiese di un tempo suscita una raffica di proteste in campo ortodosso. Il Vaticano tenta la via di una commissione mista quadripartita (in cui siano cioè presenti rappresentanti della Santa Sede, del patriarcato di Mosca, di cattolici e ortodossi ucraini), con il compito di risolvere le questioni pratiche che emergono durante il processo di normalizzazione delle relazioni tra ortodossi e cattolici di rito orientale, ma i lavori della commissione (6-13 marzo 1990) vengono ben presto interrotti dal rifiuto di Mosca di riconoscere l'invalidità del concilio di Leopoli e la canonicità della Chiesa greco-cattolica e della sua gerarchia.
Un fattore di novità è dato dalle elezioni del Soviet Supremo ucraino nel marzo del 1990: le nuove autorità locali e provinciali elette dal popolo (in Ucraina occidentale, in particolare, il blocco democratico stravince), adottano misure immediate per far uscire il processo di legalizzazione della Chiesa cattolica dal vicolo cieco in cui si trova. Il 23 aprile il nuovo Soviet dei deputati del popolo della provincia di Ivano-Frankivsk approva la tanto attesa "legge sulla libertà di coscienza e sulle organizzazioni religiose", che garantisce, tra l'altro, "la piena legalizzazione di oltre 30 diverse confessioni", comprese quella greco-cattolica e quella ortodossa autocefala. Il 19 agosto la Chiesa greco-cattolica rientra ufficialmente in possesso della storica cattedrale di San Giorgio a Leopoli, e il primo novembre dell'adiacente palazzo metropolitano.
Il 16 gennaio 1991 Giovanni Paolo II nomina cinque vescovi di rito latino per l'Ucraina e conferma la posizione di dieci vescovi uniati fino allora clandestini: tra questi l'arcivescovo di Leopoli, Volodimir Sternjuk, il vescovo di Ivano-Frankivsk, Sofron Dmyterko, e il vescovo di Mukacheve-Uzhhorod, Ivan Semedi. Il cardinal Lubacivskij, che nel 1984 era subentrato a monsignor Slipyj alla guida della Chiesa ucraina, fa ritorno a Leopoli il 30 marzo 1991, accolto da una folla di fedeli, dalle autorità civili ed ecclesiastiche della regione.
Spezzare la spirale della violenza.
Spezzare la spirale della violenza.
Nel fuoco delle polemiche sulla legittimità dell'esistenza della Chiesa greco-cattolica, anche alcune voci ortodosse si sono levate in sua difesa, ad invocare una logica diversa, l'unica possibile a dei cristiani, la logica del perdono e della misericordia. Nel 1988 Vladimir Pores, dissidente e giovane docente universitario, si faceva portavoce del dolore dei fedeli in una lettera aperta al patriarca Pimen: "Il modo in cui Lei ha esposto e discusso il problema della Chiesa uniate mi riempie di indignazione. Le toglie tranquillamente il diritto di esistere, mette in relazione l'esistenza stessa del problema esclusivamente con gli intrighi della Sede di Roma. Eppure non può ignorare che vi sono milioni di ucraini che si ritengono greco-cattolici, che hanno otto vescovi e centinaia di sacerdoti. E che questa gente non vuole appartenere alla Chiesa russa...".
Un teologo ortodosso russo, padre Vladimir Zelinskij, in un articolo per la Nuova Europa scritto poco dopo i fatti dell'89, osservava che "dopo la visita di Gorbaciov a Roma, in Vaticano, e la successiva legalizzazione della Chiesa cattolica ucraina", il "diritto all'esistenza, giunto come dono munifico dai vertici dello Stato, non ha ridotto la violenza", l'ha solo "ridistribuita", anzi "probabilmente ne ha innescata una nuova. E tutto questo programma di violenza, quasi instillata fin dal principio nei rapporti tra ortodossi e uniati, ha incominciato a svolgersi ancora in un nuovo circolo". La colpa della Chiesa ortodossa russa, notava di seguito Zelinskij, "sta nel fatto che essa, senza ribellarsi, ha accettato il dono dell'anticristo e ancor oggi insiste sulla legittimità di tale dono. Questo dono fu il concilio di Leopoli del 1946... Dal punto di vista ecclesiastico, della canonicità del concilio di Leopoli si può parlare con la stessa serietà di quando si afferma la legalità dei processi politici degli anni Trenta dal punto di vista giuridico... In parole povere, questa fu una rivincita religiosa assecondata da Stalin", che doveva ristabilire la "giustizia storica, morale e religiosa calpestata dall'unione di Brest del 1596... Ma il guaio per noi sta nel fatto che assecondò anche la Chiesa ortodossa, i cui capi allora come oggi restano legati alla psicologia della rivincita. Ancora oggi non abbiamo imparato a pensare all'Unione in categorie diverse da quelle dell'inganno, della difesa, della contrapposizione o della restituzione legale del gregge sottrattoci".
A questo accorato giudizio fa eco la voce più autorevole levatasi, in campo ortodosso, a condannare il concilio di Leopoli, quella del vescovo ortodosso Michail (Mud'jugin), il quale, fra i concili che "rimasero senza risultati, e sovente furono in seguito anche condannati dalla Chiesa stessa, che li aveva convocati e ne aveva accettato le risoluzioni", annovera anche il "Concilio di Leopoli del 1946, che dietro pressioni del potere sovietico prese la decisione realmente mostruosa di liquidare immediatamente l'uniatismo, cioè di eliminare una Chiesa che ormai da secoli non aveva neppure la comunione canonica con la Chiesa ortodossa russa e che d'un tratto si trovò incorporata con la violenza al suo interno! Le conseguenze di questa "soluzione" violenta del problema confessionale sono ben note: la squadra inviata da Mosca non trasformò gli uniati in ortodossi, al contrario i cinquant'anni di forzata "unione" sono stati anni di forte incremento delle simpatie filocattoliche sia in Ucraina occidentale sia, in parte, in Bielorussia. Gli uniati, che prima dell'"unione alla rovescia" di Leopoli si ritenevano vicini agli ortodossi per il carattere della liturgia e per la struttura della vita ecclesiale, furono bruscamente spinti ad avvicinarsi alla Chiesa latina. Questo mutamento si manifestò nell'intensificarsi delle discordie confessionali, che a loro volta suscitarono molte azioni di violenza, inammissibili per persone che si ritengano cristiane".
Come uscire da questa spirale di violenza, che non coinvolge purtroppo solo i regimi politici, ma penetra nel cuore delle Chiese e finisce per travolgere anche i rapporti ecumenici fra le Chiese ortodossa e cattolica e i rapporti fra le stesse Chiese in seno all'Ortodossia (si pensi, ad esempio, alle tensioni esistenti fra il patriarcato di Mosca e quello ecumenico di Costantinopoli)? È ancora Zelinskij a proporre l'unica via "realista" possibile, in alternativa alle vie dell'"isolamento" e dell'"impeto di rabbia e di risentimento". Un realismo che consenta di "uscire dal circolo vizioso di vendette reciproche, di uscire nella libertà e grazie alla libertà "che è dono di Cristo"", e che porti la Chiesa ortodossa a dire ai cattolici orientali: "Oltre quarant'anni fa vi abbiamo reso a noi sottomessi, ma a quel tempo sia per voi che per noi era possibile sopravvivere e conservare chiese e sacramenti solo nella sottomissione. Oggi siete liberi di andare dove volete. Ma anche quando vi allontanerete da noi, noi continueremo a pregare per voi, e vi chiederemo di ricordarci nelle vostre preghiere. Perdonateci perché abbiamo dovuto trattenervi con la forza, perdonateci per tutto quello che abbiamo fatto a voi e ai vostri padri, e noi vi perdoneremo per quello che i vostri antenati hanno fatto ai nostri".
1) B. Bochurkiv, La Chiesa "uniate" sotto Gorbaciov, in "L'Altra Europa", n. 4, 1991, pp. 99-124