Dagli amici di Romualdica
Eccoci dunque entrati nel tempo santo dell’Avvento, che è per eccellenza un tempo monastico, giacché i monaci sono dei guardiani, uomini dell’attesa e del desiderio, non del possesso o della soddisfazione. Prova ne sia che ogni volta in cui per il mondo ci sono «riusciti», ogni volta che si sono installati, pensando ingenuamente che il benessere temporale avrebbe loro permesso una più ampia facilità per il servizio delle anime, sono rimasti preda dei beni terrestri. I beni che possediamo finiscono a loro volta per possederci. È la storia di tutte le riforme monastiche, altrettanto numerose quanto le decadenze: un gruppo di monaci si distacca e riannoda i legami con le origini, alla ricerca di Dio, ma in una più grande solitudine e in una maggiore povertà.
La nostra vera ricchezza è la nostra attesa dei beni futuri. Non siamo veramente ricchi che di ciò che ci manca. Quella che potremmo chiamare l’età d’oro del popolo eletto, la fase della sua vita in cui si è costituito, non furono certamente gli anni prestigiosi della costruzione del Tempio di Salomone, quando gli sguardi ammirati erano fissi su Gerusalemme, ma i quarant’anni nel deserto in cui Dio attirava a sé Israele e gli parlava al cuore.
Sicché il tempo d’Avvento mi sembra il più propizio di tutti per risvegliare in noi questa spiritualità dell’attesa in cui, malgrado il rumore tutto attorno, nulla dovrebbe distrarre la nostra anima dal suo faccia a faccia con Dio.
Non è forse Giovanni Battista, l’uomo del deserto, il personaggio principale di questo dramma liturgico di cui la Chiesa vuole che siamo, oggi stesso, con lei, gli attori viventi? A partire dalla seconda domenica d’Avvento il Messia interroga i suoi apostoli: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto?» (Mt 11,7). A sua volta è Giovanni Battista che per mezzo dei suoi discepoli manda a dire a Gesù: «Tu es qui venturus es, an alium expectamus?», «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Vi è in questa frase, indirizzata a Gesù dai discepoli di Giovanni, tutta l’attesa dell’Antico Testamento, tutta l’attesa dei patriarchi e dei profeti; più ancora, la domanda fondamentale che tormenterà l’umanità fino alla fine dei tempi. Nella terza e quarta domenica d’Avvento è ancora questione di Giovanni nel deserto. Perché? Perché il deserto non è solo la mortificazione e la penitenza, ma è ancor più il desiderio del riposo e della pace, l’ascesa verso le fonti, la visione lontana delle oasi. Il deserto è il silenzio che dà alla voce lo spazio per il suo grido; «Vox clamantis in deserto» (Mc 1,3), così si definisce il profeta: «Voce di uno che grida nel deserto». Questo clamore che si eleva da un mondo in angoscia assumerà nei giorni che precedono la Natività la forma di un richiamo impressionante: sono le Grandi O («antifone O dell’Avvento»), le antifone che la Chiesa lancia sette volte verso il Cielo come una solenne esortazione. Non potrete prepararvi meglio al grande mistero della venuta di Dio fatto uomo che rileggendo con frutto questi appelli strazianti. Leggete lentamente e tenete nella memoria queste parole gravide della meditazione dei secoli, che ci rivelano a noi stessi e ci rivelano il mistero di Dio.
Cari amici, alla ricezione di questa lettera v’immagino un po’ inquieti, oppure impreparati, all’idea del poco tempo che avete a disposizione per immergervi in questi testi; se lo faceste, mancherebbe ancora qualcosa a quel che stiamo dicendo, perché ancor più degli avvertimenti di Giovanni Battista e le profezie di Isaia, vi è proprio al cuore di questo tempo santo dell’Avvento una figura silenziosa che – anch’essa – guarda il Cielo e attende. Lei ha 14 o 15 anni, che era l’età della prima maternità in Palestina e nei Paesi del Vicino Oriente. Lei ha ricevuto lo Spirito Santo, lei è tutta pura, tutta ricolma di Dio, lei attende la promessa. Lei è proprio l’immagine della Santa Speranza, lei tiene fra le sue mani la chiave d’oro della nostra felicità, che è in noi e davanti a noi, ma che lei ci darà solo se noi le presenteremo la nostra anima da aprire. Le anime aperte alla grazia sono rare. Siamolo. È sufficiente fare un po’ di silenzio e rimanere piccini. Allora forse nascerà in noi questa qualità del desiderio che è la misura della nostra vera grandezza.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le mystère de l’Avent, 2 dicembre 1990, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 67-69, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]