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venerdì 16 ottobre 2015

L'insopportabile "intrinsece malum"

di Don Alfredo Morselli

Lo status quaestionis

Il 26 settembre scorso,  il cardinale Christoph Schönborn ha rilasciato un'intervista, per Civiltà Cattolica, al P. Antonio Spadaro, dove dichiarava, tra le altre cose: "Non nascondo, a questo proposito, di essere rimasto scioccato da come un modo di argomentare puramente formalista maneggi la scure dell'intrisece malum (...) L'ossessione dell'intinsece malum ha talmente impoverito il dibattito che ci siamo privati di un largo ventaglio di argomentazioni in favore dell'unicità, della indissolubilità, dell'apertura alla vita, del fondamento umano della dottrina della Chiesa". (Civiltà Cattolica, Quad. 3966 del 26/09/2015, pp. 449-552).

Perché, per coloro che intendono sovvertire la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sull'Eucarestia, l'espressione "intrinsece malum" (intrinsecamente cattivo) è così fastidiosa, a tal punto che essi la considerano "una scure" e una "ossessione"?

Che cosa significa "intrinsece malum"

È un'espressione propria della teologia morale cattolica, secondo la quale si danno degli atti che - indipendentemente dalle circostanze - sono cattivi, immorali.
Secondo invece l'etica della situazione (qui considerata come genere di tante teorie con sfumature diverse) possono esistere dei casi in cui le circostanze ribaltano il valore morale di qualsiasi azione.

Non che la morale cattolica svaluti le circostanze, nel giudizio sul valore morale di una atto: anzi, queste spesso sono determinanti nella formulazione di detto giudizio; infatti l'oggetto di un atto umano dipende dalla materia, dalle intenzioni di chi agisce e dalle circostanze.

In alcuni case le circostanze sono decisive: ad esempio l'uccisione di un uomo può esser doverosa da parte di un poliziotto che deve difendere una vita innocente, o colpevole nel caso, ad esempio, dell'aborto.

Ma mentre per l'etica della situazione le circostanze sono sempre decisive nella valutazione di un'azione,  secondo la morale naturale e cristiana esistono degli atti che, indipendentemente dalle circostanze, sono cattivi sempre, in ogni caso (naturalmente purché procedano da una libera volontà).
Ad esempio, in materia de sexto, nessuna circostanza cambia il valore morale di un atto impuro. Così la bestemmia, la calunnia, lo spergiuro etc.

Le  circostanze sono sottomesse all'essere

Perché la situazione non la fa da padrona nella valutazione morale di un atto umano? 
Dobbiamo partire un po' da lontano; l'essere non si divide in vero e buono come un genere nelle specie, ma essere, vero, buono in qualche modo coincidono: l'essere è il vero in quanto oggetto dell'intelletto e il bene è l'essere in quanto oggetto della volontà.
Ora l'essere viene partecipato da Dio ai vari enti secondo una forma, quindi in una natura. Prendiamo ad esempio un'aquila, che "da i silenzi de l'effuso azzurro esce nel sole... e distende in tarde ruote digradanti il nero volo solenne" (G. Carducci, Piemonte, 5-8) : il suo bene non sarà altro che vivere secondo il suo essere. E il volteggiare dell'aquila, il suo agire secondo la sua natura, è il suo bene. Non si tratta di un bene morale, ma solo metafisico e fisico, giacché nessun animale è libero, ma agisce necessariamente secondo l'istinto, radicato nel suo essere e nella sua natura.
Analogamente, per l'uomo, il bene sarà agire secondo il suo essere, secondo la sua natura immutabile creata da Dio, con una specialissima partecipazione, a sua immagine e somiglianza, in quanto creatura libera e ragionevole.
Mentre un aquila che segue il suo istinto è buona necessariamente, l'uomo sarà buono tanto quanto liberamente agisce in conformità del suo essere, naturale e soprannaturale.
Se ci poniamo dunque la domanda: "Quando un atto umano è moralmente buono?" la risposta è: "Quando esso è secondo l'essere, la bontà e la verità dell'uomo".
E siccome l'essere e la verità dell'uomo sono tali per l'atto creativo di Dio (perché Egli ci ha dato l'essere secondo una certa forma immutabile), e non quindi per le circostanze, queste ultime non possono essere l'ultima istanza per la valutazione morale dell'atto.

Un'altra affermazione di Schönborn nella stessa intervista, suona: "Troppo spesso... dimentichiamo che la vita umana si svolge nelle condizioni poste dalla società: condizioni psicologiche, sociali, economiche, politiche, in un quadro storico. Questo finora è mancato al Sinodo...".
Possiamo tranquillamente rispondere che tutto questo "quadro storico" non cambia la natura dell'uomo, il suo bene essere e il suo ben agire. Il matrimonio anche in questo quadro storico sarà sempre indissolubile, un rapporto sessuale fuori dal vero ed unico matrimonio sarà sempre peccato. Inoltre, noi non siamo mai abbandonati da Dio in nessun "quadro storico", ma sempre abbiamo la grazia per vivere come Egli ci chiede e come ha iscritto nella nostra natura.
Il modo di argomentare formalista non è tenere in grande  rispetto le categorie fondamentali della teologia morale veramente cattolica, ma immaginarsi e speculare su un "quadro storico" senza la grazia che ci accompagna nelle situazioni più difficili, sufficiente per non peccare in nessun caso.
Dio è più forte di ogni "quadro storico".

Causa dell'errore

Ma dobbiamo ora chiederci perché il magistero, che nell'ultimo secolo ha più volte condannato l'etica della situazione, viene sfacciatamente eliminato, trattato tamquam non esset. E persino senza poter utilizzare la solita contrapposizione prima-dopo il Concilio, giacché Humanae vitae, Familiaris consortio, Veritatis splendor sono tutte abbondantemente post-conciliari, e - in teoria - dovrebbero essere inattaccabili, vista anche la recente canonizzazione e beatificazione dei Papi autori dei suddetti documenti.

Il motivo é che non solo i neo-modernisti distaccano il bene dall'essere, ma ne separano anche il vero. Secondo il modernista Édouard Le Roy (1870-1954) le formule dogmatiche non sarebbero altro che una organizzazione utilitaristica del pensiero in funzione della vita pratica: "le nozioni di sostanza, di causa, di relazione, di soggetto non sono altro che reificazioni e simboli dell'intelligenza spontanea in vista dell'azione" (cit. in R. Garrigou-Lagrange, Le Sens commun, la Philosophie del'être et les Formules dogmatiques, Paris 1909, p. 133, mia traduzione); e così le formule dogmatiche non ci fanno conoscere direttamente la realtà divina, ma si riavvolgono "in un pensiero tutto pratico, e la realtà divina contiene solamente, sotto una forma o sotto un altra,  di che giustificare come ragionevole e salutare la condotta prescritta" (Ibidem, p. 134).

E quindi, siccome la Familiaris consortio, la Veritatis splendor, il CCC etc. non giustificano "ragionevole e salutare" la condotta prescritta a se stessi (dalla propria (falsa) coscienza e dalle circostanze), li si relegano in soffitta tra le cose che non servono più, avendo per altro ormai esaurito questi documenti la loro funzione storicamente datata di "reificazione o simbolo", non più adatti per l'attuale "quadro storico".

San Pio X aveva visto giusto, nel condannare, nel decreto Lamentabili (3 luglio 1907) la proposizione "Dogmata fidei retinenda sunt tantummodo juxta sensum practicum, id est tamqaum norma preceptiva agendi, non vero tamquam normam credendi" (Prop. 26ª: I dogmi di fede si devo ritenere solo secondo un senso pratico, e norma precetti a dell'agire, e non come regola del credere).

Il valore del magistero è dunque per i modernisti pressoché nullo, in quanto, avendo ogni formula di fede senso solo in funzione di una mutevole esistenza, non si vede perché non debba dipendere in toto da essa.

Ci troviamo di fonte al rovesciamento della sequenza "essere/verità/bene -> bene pensare e bene operare", sostituita da "esistenza -> fede/pensiero/morale" distaccati dall'essere (kantianamente irraggiungibile) e quindi trasportati dal divenire, sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina (come direbbe San Paolo, Ef 4,14), o da ogni "quadro storico", come ha dichiarato Schönborn.

Conclusione.

Non ne ho altre se non "O Immacolata, pensaci tu".