Oggi inizia il Pellegrinaggio Nazionale dei Cœtus Fidelium del Summorum
Pontificum a Norcia, da oggi venerdì 3 luglio a domenica prossimi (5 luglio).
Nelle scorse settimane abbiamo cercato di conoscere i Monaci di San
Benedetto, che guideranno la nostra preghiera, per prepararci ad entrare
nell’intenso clima spirituale che respireremo insieme a loro. Ora,
nell’impaziente attesa del pellegrinaggio, e per invitare tutti a
partecipare (anche chi non avesse ancora aderito: è sempre possibile
farlo, anche all’ultimo momento!), ci rivogliamo ad un altro Benedetto –
Benedetto XVI – che ha dedicato al Santo di Norcia più d’un importante
intervento. Ve ne proponiamo, due, che risalgono ad alcuni anni fa, ma
che sono ancora – e forse sempre più – attuali.
(fonte: CNSP)
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 10 luglio 2005
Domenica, 10 luglio 2005
Cari fratelli e sorelle!
Domani ricorre la festa di San Benedetto
Abate, Patrono d’Europa, un Santo a me particolarmente caro, come si
può intuire dalla scelta che ho fatto del suo nome. Nato a Norcia
intorno al 480, Benedetto compì i primi studi a Roma ma, deluso dalla
vita della città, si ritirò a Subiaco, dove rimase per circa tre anni in
una grotta – il celebre “sacro speco” – dedicandosi interamente a Dio. A
Subiaco, avvalendosi dei ruderi di una ciclopica villa dell’imperatore
Nerone, egli, insieme ai suoi primi discepoli, costruì alcuni monasteri
dando vita ad una comunità fraterna fondata sul primato dell’amore di
Cristo, nella quale la preghiera e il lavoro si alternavano
armonicamente a lode di Dio. Alcuni anni dopo, a Montecassino, diede
forma compiuta a questo progetto, e lo mise per iscritto nella “Regola”,
unica sua opera a noi pervenuta. Tra le ceneri dell’Impero Romano,
Benedetto, cercando prima di tutto il Regno di Dio, gettò, forse senza
neppure rendersene conto, il seme di una nuova civiltà che si sarebbe
sviluppata, integrando i valori cristiani con l’eredità classica, da una
parte, e le culture germanica e slava, dall’altra.
C’è un aspetto tipico della sua
spiritualità, che quest’oggi vorrei particolarmente sottolineare.
Benedetto non fondò un’istituzione monastica finalizzata principalmente
all’evangelizzazione dei popoli barbari, come altri grandi monaci
missionari dell’epoca, ma indicò ai suoi seguaci come scopo
fondamentale, anzi unico, dell’esistenza la ricerca di Dio: “Quaerere Deum”.
Egli sapeva, però, che quando il credente entra in relazione profonda
con Dio non può accontentarsi di vivere in modo mediocre all’insegna di
un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Si comprende,
in questa luce, allora meglio l’espressione che Benedetto trasse da san
Cipriano e che sintetizza nella sua Regola (IV, 21) il programma di vita
dei monaci: “Nihil amori Christi praeponere“, “Niente
anteporre all’amore di Cristo”. In questo consiste la santità, proposta
valida per ogni cristiano e diventata una vera urgenza pastorale in
questa nostra epoca in cui si avverte il bisogno di ancorare la vita e
la storia a saldi riferimenti spirituali.
Modello sublime e perfetto di santità è
Maria Santissima, che ha vissuto in costante e profonda comunione con
Cristo. Invochiamo la sua intercessione, insieme a quella di san
Benedetto, perché il Signore moltiplichi anche nella nostra epoca uomini
e donne che, attraverso una fede illuminata, testimoniata nella vita,
siano in questo nuovo millennio sale della terra e luce del mondo.
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 9 aprile 2008
Mercoledì, 9 aprile 2008
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare di san Benedetto,
Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio
pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive
di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti
miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua
dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il
grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50
anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto
nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia
con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale
sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più
importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di
san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le
idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo
concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della
contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio.
Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice
della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei
Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole
semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio,
ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete
situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi
lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita
dell’uomo, di ogni uomo.
Questa prospettiva del “biografo” si
spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo
tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di
valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano,
dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la
presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva
indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di
Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni
Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si
rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò
nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del
suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità
politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e
culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del
continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae”
– dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono
per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo
nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio
accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di
vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e
non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial.,
Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto
lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo
un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un
certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece
eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente
solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il
“cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo
in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo
di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni
fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e
del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della
sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era
infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste
tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le
loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in
grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un
creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi
suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco
per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo
trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso
ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato
poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse
Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione
gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua
maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio
Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio –
un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da
lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel
nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una
sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare
visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo
547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e
con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato
nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio
ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera
di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera
non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era
un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione
del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non
perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi
bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua
missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol.
45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio
Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3).
Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol.
9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende
che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”,
egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una
simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga
glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile
ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile
del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla
via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale
egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel
servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace.
Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata
dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica
un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più
conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad
immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve
corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci
di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel
secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale
bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un
autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il
Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II,
36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo
maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però
chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad
“aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i
fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i
divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di
decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il
consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane
la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende
sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici
secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli
ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare
da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come
“minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre
indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che
cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua
umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario
nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante
fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per
la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa –
uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e
dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie –
è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e
duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e
giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale
che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può
ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto
al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da
sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato,
come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza
precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di
san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco
rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di
vivere l’umanesimo vero.
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