All’epoca del Vaticano II, racconta Roberto de Mattei nel suo imperdibile “Concilio Vaticano II, una storia mai scritta” (Lindau), si segnalarono due personaggi, tra gli altri, per la loro influenza sull’ala progressista dei padri conciliari: il cardinale Primate belga Leo Suenens e il vescovo brasiliano Helder Camara.
I due, molto legati tra loro, tanto che il secondo considerava il primo “il mio leader”, mi appaiono molto rappresentativi della crisi del mondo cattolico che viene avanti ormai da decenni, e che per certi aspetti sembra conoscere, a mio avviso, una lenta ma inesorabile inversione di tendenza.
L’attività del primo, spesso in collaborazione con i cardinali Alfrink, Liénart, Frings ecc., potrebbe essere riassunta con queste parole: aggiornamento del dogma, adeguamento della Chiesa alla modernità. A lui si deve infatti la definizione del Vaticano II come “il 1789 della Chiesa”.
Il secondo, grande sostenitore del cosiddetto “spirito del Concilio”, espressione con cui si fecero dire al Vaticano II anche cose mai dette, fu invece l’alfiere della “Chiesa dei poveri”, convinto che la Carità fosse da anteporre, o meglio da contrapporre, alla Verità e al dogma (già “ridimensionati”, appunto, dal cardinale belga).
Partiamo da Leo Suenens: sin dal principio del Concilio egli fu un sostenitore del “concilio pastorale”, più “aperto”, meno dogmatico, meno “categorico” di quelli passati. Dopo aver chiesto al papa di “annullare la celebrazione della Messa all’inizio delle sedute, per ampliare il tempo della discussione”, Suenens divenne uno dei quattro moderatori dell’assemblea. Il ruolo suo e di altri teologi belgi a lui vicini fu così fondamentale che il padre Congar, il 13 marzo 1964 poteva scrivere: “Di questo concilio è stato detto Primum Concilium Lovaniense Romae habitum. E’ abbastanza vero, ameno per la teologia”, perché i belgi, soprattutto provenienti dall’università di Lovanio, “sono dappertutto”. Suenens fu insomma, durante il Concilio, il campione del progressismo cattolico. Nel dibattito sugli ordini religiosi femminili auspicò una revisione del concetto di obbedienza e l’abbandono della forme di pietà e di abito tradizionali; quanto ai sacerdoti chiese una riforma dei seminari, “affermando di averla personalmente intrapresa nella sua diocesi”; riguardo alla famiglia, mentre Camara organizzava la claque, si schierò per una revisione della dottrina tradizionale del matrimonio, lasciando intendere la sua apertura all’uso degli anticoncezionali e al “controllo delle nascite” e accennando ad una presunta “esplosione demografica attuale” e alla “sovrappopolazione in molte regioni della terra” . Alla fine del Concilio Suenens fu il leader di un gruppo di influenti cardinali che si schierarono contro l’enciclica Humanae vitae, insieme a quelli che Cornelio Fabro chiamava i “pornoteologi”. Nel 1969 arrivò a farsi alfiere di un appello di Hans Kung contro il celibato ecclesiastico, proprio negli anni in cui la “liberazione sessuale”, intesa anche come sdoganamento della pedofilia, teneva banco, fuori e dentro il mondo cattolico. Oggi i frutti dell’opera di Suenens sono evidenti: i seminari belgi si sono svuotati, proprio a partire dagli anni del suo magistero; l’ università di Lovanio, di cui Suenens fu anche rettore, rifiuta di definirsi ancora “cattolica”; il Belgio è un paese secolarizzato ed anticristiano come pochi al mondo, con un altissimo tasso di disgregazione familiare; la grande parte dei crimini di pedofilia nella chiesa belga, come dimostrato recentemente, sono da ascriversi, non senza motivo, “soprattutto agli anni Sessanta”, cioè all’epoca delle sue riforme (Repubblica, 10/9/2010).
L’altro personaggio emblematico, dicevo, è il vescovo brasiliano Camara, vero precursore della teologia della liberazione. Cosa ha portato il concetto di “Chiesa dei poveri”, di cui Camara, insieme a Lercaro ed altri, fu uno degli araldi? In America latina, appunto, alla teologia della liberazione, cioè alla trasformazione del cristianesimo in un messianismo politico, di stampo marxista. Con un duplice effetto: prima la trasformazione di teologi e sacerdoti in guerriglieri e idolatri del dittatore cubano Fidel Castro, poi la scristianizzazione galoppante della stessa America Latina. In Italia, invece, l’ “opzione per i poveri”, scollegata dalla Tradizione e dal dogma, ha contribuito all’apertura a sinistra, favorendo l’introduzione nel nostro paese del divorzio e dell’aborto, e, con Moro, all’oblio, da parte della stessa Dc, dei valori cristiani “non negoziabili”. Ma soprattutto, e qui sta l’apparente paradosso, proprio il cattolicesimo progressista-pauperista, così vincolato alla visione materialista di stampo comunista, ha finito per non accorgersi dei veri “poveri” del nostro tempo e persino per ostacolare coloro che vi si dedicano: penso ad esempio all’ostilità di quel mondo per le comunità di recupero per tossicodipendenti di un Muccioli, o di un don Picchi, o di un don Gelmini, o al disprezzo nei confronti dei Centri di Aiuto alla Vita (dediti al soccorso delle ragazze madri), e in generale verso tutti coloro che indicano come nuove povertà dell’Occidente post-cristiano l’aborto, la disgregazione familiare, il vuoto esistenziale e la crisi dei valori.
Il Foglio, 6 gennaio 2010
I due, molto legati tra loro, tanto che il secondo considerava il primo “il mio leader”, mi appaiono molto rappresentativi della crisi del mondo cattolico che viene avanti ormai da decenni, e che per certi aspetti sembra conoscere, a mio avviso, una lenta ma inesorabile inversione di tendenza.
L’attività del primo, spesso in collaborazione con i cardinali Alfrink, Liénart, Frings ecc., potrebbe essere riassunta con queste parole: aggiornamento del dogma, adeguamento della Chiesa alla modernità. A lui si deve infatti la definizione del Vaticano II come “il 1789 della Chiesa”.
Il secondo, grande sostenitore del cosiddetto “spirito del Concilio”, espressione con cui si fecero dire al Vaticano II anche cose mai dette, fu invece l’alfiere della “Chiesa dei poveri”, convinto che la Carità fosse da anteporre, o meglio da contrapporre, alla Verità e al dogma (già “ridimensionati”, appunto, dal cardinale belga).
Partiamo da Leo Suenens: sin dal principio del Concilio egli fu un sostenitore del “concilio pastorale”, più “aperto”, meno dogmatico, meno “categorico” di quelli passati. Dopo aver chiesto al papa di “annullare la celebrazione della Messa all’inizio delle sedute, per ampliare il tempo della discussione”, Suenens divenne uno dei quattro moderatori dell’assemblea. Il ruolo suo e di altri teologi belgi a lui vicini fu così fondamentale che il padre Congar, il 13 marzo 1964 poteva scrivere: “Di questo concilio è stato detto Primum Concilium Lovaniense Romae habitum. E’ abbastanza vero, ameno per la teologia”, perché i belgi, soprattutto provenienti dall’università di Lovanio, “sono dappertutto”. Suenens fu insomma, durante il Concilio, il campione del progressismo cattolico. Nel dibattito sugli ordini religiosi femminili auspicò una revisione del concetto di obbedienza e l’abbandono della forme di pietà e di abito tradizionali; quanto ai sacerdoti chiese una riforma dei seminari, “affermando di averla personalmente intrapresa nella sua diocesi”; riguardo alla famiglia, mentre Camara organizzava la claque, si schierò per una revisione della dottrina tradizionale del matrimonio, lasciando intendere la sua apertura all’uso degli anticoncezionali e al “controllo delle nascite” e accennando ad una presunta “esplosione demografica attuale” e alla “sovrappopolazione in molte regioni della terra” . Alla fine del Concilio Suenens fu il leader di un gruppo di influenti cardinali che si schierarono contro l’enciclica Humanae vitae, insieme a quelli che Cornelio Fabro chiamava i “pornoteologi”. Nel 1969 arrivò a farsi alfiere di un appello di Hans Kung contro il celibato ecclesiastico, proprio negli anni in cui la “liberazione sessuale”, intesa anche come sdoganamento della pedofilia, teneva banco, fuori e dentro il mondo cattolico. Oggi i frutti dell’opera di Suenens sono evidenti: i seminari belgi si sono svuotati, proprio a partire dagli anni del suo magistero; l’ università di Lovanio, di cui Suenens fu anche rettore, rifiuta di definirsi ancora “cattolica”; il Belgio è un paese secolarizzato ed anticristiano come pochi al mondo, con un altissimo tasso di disgregazione familiare; la grande parte dei crimini di pedofilia nella chiesa belga, come dimostrato recentemente, sono da ascriversi, non senza motivo, “soprattutto agli anni Sessanta”, cioè all’epoca delle sue riforme (Repubblica, 10/9/2010).
L’altro personaggio emblematico, dicevo, è il vescovo brasiliano Camara, vero precursore della teologia della liberazione. Cosa ha portato il concetto di “Chiesa dei poveri”, di cui Camara, insieme a Lercaro ed altri, fu uno degli araldi? In America latina, appunto, alla teologia della liberazione, cioè alla trasformazione del cristianesimo in un messianismo politico, di stampo marxista. Con un duplice effetto: prima la trasformazione di teologi e sacerdoti in guerriglieri e idolatri del dittatore cubano Fidel Castro, poi la scristianizzazione galoppante della stessa America Latina. In Italia, invece, l’ “opzione per i poveri”, scollegata dalla Tradizione e dal dogma, ha contribuito all’apertura a sinistra, favorendo l’introduzione nel nostro paese del divorzio e dell’aborto, e, con Moro, all’oblio, da parte della stessa Dc, dei valori cristiani “non negoziabili”. Ma soprattutto, e qui sta l’apparente paradosso, proprio il cattolicesimo progressista-pauperista, così vincolato alla visione materialista di stampo comunista, ha finito per non accorgersi dei veri “poveri” del nostro tempo e persino per ostacolare coloro che vi si dedicano: penso ad esempio all’ostilità di quel mondo per le comunità di recupero per tossicodipendenti di un Muccioli, o di un don Picchi, o di un don Gelmini, o al disprezzo nei confronti dei Centri di Aiuto alla Vita (dediti al soccorso delle ragazze madri), e in generale verso tutti coloro che indicano come nuove povertà dell’Occidente post-cristiano l’aborto, la disgregazione familiare, il vuoto esistenziale e la crisi dei valori.
Il Foglio, 6 gennaio 2010