Quando ho letto il comunicato di ieri della Sala Stampa vaticana, ho sospirato: siamo tornati alla normalità. Trovavo in effetti vagamente irreale e perfino inquietante (pareva la quiete prima della tempesta) che i colloqui tra Roma e la Fraternità S. Pio X potessero filare così lisci, con sussulti sì da parte lefebvriana, ma senza colpo ferire dalla parte della Chiesa ufficiale che si oppone alla riconciliazione (praticamente tutti, tranne il Papa e pochi altri).
Be', un qualche colpo di coda, e anche peggio, rientra in quello che fisiologicamente ci si poteva aspettare: business as usual. E' facile ipotizzare che l'ultima versione del preambolo dottrinale, ritoccata da mons. Fellay, sia andata giù storta tra gli eminentissimi cardinali della Congregazione per la Dottrina della Fede e i loro collaboratori: non solo a chi ancora s'aggrappa al mito del Concilio, ma anche a coloro che - più papisti del Papa - vorrebbero integrare il Credo con le parole: "Credo hermeneuticam continuitatis Sacrosanctae Vaticani II Synodi".
Ma non ritengo che l'aspetto dottrinale della faccenda abbia speciale rilievo. L'impressione è che si tratti più di una scusa per rinviare e prender tempo, che dell'insorgere di gravi difficoltà dogmatiche. Dopo tutto, si dava per scontato fino a ieri, anche in modo semiufficiale (si pensi alla dichiarazione di mons. Arrieta, segretario del Consiglio per i testi legislativi), che problemi sul punto non ne sussistessero più. La soluzione pareva a portata di mano (il beninformato Tornielli parlava della fine del mese) e ciò è stato implicitamente confermato da P. Lombardi nella conferenza stampa di ieri, quando ha detto: "non è questione, come poteva sembrare, di tempi molto brevi". Se il nuovo testo del preambolo dottrinale andava bene fino a ieri, non può all'improvviso esser diventato deplorevole. Quindi, se ostacoli vi sono, sono di altra natura.
Il problema è semmai a monte: può la Chiesa ufficiale digerire di reintegrare un istituto che da decenni si pone come pietra d'inciampo rispetto a tutta la mentalità fin qui predominante? Oggi, certamente, più di prima: da un lato le catastrofi causate da quell'infausto Concilio non si possono più nascondere sotto il consunto tappeto della retorica; dall'altro i corifei dell'evento conciliare, e anche coloro che son cresciuti con quel miraggio, gradualmente lasciano il passo, per l'età, a chi del Concilio ha vissuto principalmente gli effetti deleteri.
Ma ancora la resistenza è fortissima e il Papa per primo lo sa. Nella lettera ai suoi tre confratelli riottosi, mons. Fellay riferisce che il Papa gli ha fatto sapere di essere ben cosciente che sarebbe molto più facile, sia per lui (il Papa) che per la FSSPX, di lasciar le cose come sono.
Se quindi "far la pace" coi lefebvriani è già cosa indigesta ai più, ieri i cardinali, al momento del dunque, hanno voluto almeno togliersi dallo stomaco il rischio di dover pure reintegrare i tre vescovi antiaccordisti; o meglio, uno di loro, ossia mons. Williamson, le cui posizioni negazioniste sulle camere a gas avevano creato un immenso scandalo mediatico. E non a caso Williamson è stato espressamente citato nella conferenza stampa di P. Lombardi. La lettera con la quale i tre vescovi espongono la loro opposizione agli accordi ha offerto il pretesto per camuffare sotto problemi di ortodossia (che pure sussistono: anche Fellay accusa in pratica gli altri vescovi di sedevacantismo) quella che è in primo luogo una ragione di opportunità.
Insomma: i dicasteri vaticani potrebbero anche - obtortissimo collo e visto che Papa Ratzinger ci s'è incaponito - sopportare il rientro della Fraternità, salvo il problema di far poi ingollare il rospo agli episcopati nazionali. Ma non vogliono assolutamente ritornare ai tempestosi mesi del 2009, allorché la Chiesa e il Papa subirono un attacco senza precedenti per la revoca della scomunica al vescovo negazionista. La recente visita in Vaticano del vicepresidente del Bundestag, che si è scomodato giusto per esprimere la preoccupazione della Grande Nazione Germanica per la reintegrazione di un gruppo ritenuto integralista e antisemita, non è che l'aperitivo di quel che avverrebbe.
Ecco il vero motivo di quella specie di processo della Santa Inquisizione cui, secondo il comunicato di ieri, dovrebbero essere sottoposti i tre vescovi prima di rientrare. Un modo per dire: non vi vogliamo. O almeno, non tutti (questo mi pare il significato di quei due avverbi del comunicato in apparenza sinistri, "la situazione sarà vagliata separatamente e singolarmente"; come dire: valuteremo chi prendere e chi no).
Ma se le ragioni di opportunità si possono anche capire (evitare di offrire il facile argomento dell'antisemitismo a chi, sia dentro sia fuori la Chiesa, non vuole una FSSPX riconciliata), il gioco rischia di essere molto pericoloso. Perché un conto è se alcuno dei tre vescovi avesse rifiutato la mano tesa del Papa: si sarebbe messo fuori da solo, per di più compiendo un atto di insubordinazione verso il Superiore Fellay e caricandosi il peso anche morale di una frattura della Fraternità (tra l'altro, dai segnali che ho captato, non pareva che i tre vescovi fossero pronti fino a quel passo estremo). Ma ora, invece, è Roma che fa mostra di non volerli, se non a prezzo di umilianti forche caudine, entrando pesantemente nella dialettica interna della FSSPX. Con l'effetto inevitabile di costringere mons. Fellay a prendere le difese dei suoi confratelli, sia pur controvoglia, e di ricompattare la Fraternità su posizioni, per il momento, meno accordiste. O meglio: più attendiste.
A questo punto, tutto sembra rinviato a dopo il capitolo generale che la Fraternità ha convocato per i primi di luglio. A meno di qualche nuovo colpo di scena che, lasciatemi aggiungere, non è del tutto improbabile.
Enrico
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