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venerdì 27 aprile 2012

Due o tre cose sul "caso Bergamo" e gli strani funerali. Ci scrivono Gnocchi e Palmaro

Non è che in queste ultime settimane il diario dalla diocesi di BG (Bergamo non Bulgaria) non meritasse di essere aggiornato, anzi.
Solo che il vescovo, monsignor Francesco Beschi (nelle foto), durante la Quaresima, forse come penitenza, aveva incontrato i fedeli della Messa in rito antico e aveva promesso che “
dopo Pasqua si comincerà a vedere qualcosa”.
Come si fa a non concedere fiducia a un vescovo? È vero che, con i tempi che corrono, la domanda dovrebbe essere un’altra: come si fa a concedere fiducia a un vescovo? Ma, si sa, noi cattolici vecchio stampo siamo sempre un po’ sentimentali e, con la fiducia, ci comportiamo come Vittorio Emanuele con i titoli onorifici: “
Una medaglia di cavaliere e mezzo sigaro toscano” diceva il re “non si negano a nessuno”.
Non è il caso di riportare qui la cronaca dell’imbarazzato e imbarazzante intervento di monsignor Beschi in mezzo i fedeli della Messa in latino. Forse, ma bisogna sottolineare “
forse”, non gli capitava da tanto tempo di trovarsi in mezzo a tanti cattolici tutti insieme. E, forse, ma sempre sottolineando “forse”, non gli era mai capitato di sentirsi dire, come gli è capitato quella sera, che ci sono dei fedeli disposti a dare la vita per lui. E bisogna anche tenere conto che ha pure toccato con mano l’esistenza di cattolici decisi ancora ad andare a Messa per pregare e non per fare festa, per divertirsi, per incontrasi o per celebrare se stessi.
Lo choc, forse, ma sempre sottolineando “forse”, deve essere stato notevole. Specialmente, e sottolineando “specialmente”, per i suoi due accompagnatori: il vicario generale monsignor Davide Pelucchi e il delegato
ad omnia monsignor G. Specialissimamente, e qui senza il “forse”, per monsignor G., il quale si trova più a suo agio in casa dei protestanti, dove volentieri tiene conferenze con ardite vedute sull’ecclesiologia, robetta da chiedere, forse e sottolineando “forse”, il parere di qualche Congregazione romana. Ma ogni cosa a suo tempo.
Ora bisogna tornare alla promessa del vescovo: dopo Pasqua si sarebbe visto qualcosa. Per questo motivo, il diario dalla diocesi di BG (Bergamo non Bulgaria) ha mantenuto un dignitoso riserbo. Qualcosa si sarebbe visto e, in effetti, qualcosa si è visto: lo scempio liturgico e dottrinale del funerale di Piermario Morosini. Della vicenda si è occupato da par suo Antonio Socci su “Libero”. Lo ha fatto due volte, la prima denunciando il fatto e la seconda rispondendo alle ingiuriose obiezioni di Alberto Melloni, epigono del dossettismo morente, e chiosando i poveri, poverini, rilievi del direttore di “Avvenire”.
A questo punto, era giocoforza coinvolgere Mario Palmaro dire due cosette sulla vicenda.
Ed eccoci qua.

Alessandro Gnocchi






Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

Chi dice che i cattolici vecchio stampo non siano capaci di esercitare la carità si sbaglia. Perché è proprio per una questione di carità che si passa sotto silenzio quanto Alberto Melloni, l’ultimo dei dossettiani, ha scritto di Antonio Socci dalle pagine del “Corriere della Sera”. Come è noto, Socci aveva denunciato su “Libero” lo scempio dottrinale liturgico perpetrato a Bergamo in occasione del funerale del calciatore Piermario Morosini. Ma la cosa non deve essere piaciuta al prode, e prodiano, Melloni, il quale, scambiando il più autorevole giornale italiano per un osteria, più che argomentare ha offeso. Niente di nuovo, da tempo, ormai il prode prodiano Melloni riesce solo a offendere e per questo è molto caro a tutti i sinceri cattolici: in quanto è la testimonianza vivente del progressismo morente. Punto a capo.
Qui bisogna invece occuparsi della pochezza che trasuda dalla risposta del direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, al quale il funerale in questione deve essere piaciuto molto, moltissimo. Ma, anche se non gli fosse andato a genio, essendo tirato in causa un vescovo, non poteva esimersi dall’entrare nell’agone: tragicamente, avrebbe detto Fantozzi. Spazi compresi, il confronto tra Socci e il direttore del giornale dei vescovi si è risolto con un risultato di settemilaquattrocento battute a zero. E il tema del contendere non era robetta, era quello della vita eterna. Perché stava proprio qui il centro del ragionamento di Socci. Quando si dice settemilaquattrocento battute a zero, si vuole dire che l’editorialista di "Libero" ha trattato la questione del destino eterno in tutto il suo articolo mentre il direttore di “Avvenire”, pur tentando di rispondere, ha evitato persino di sfiorare l’argomento. Eppure, il tema sarebbe di quelli cruciali per i cattolici di ogni ordine e grado. “Ma i vescovi e i preti” chiedeva Socci “credono ancora alla vita eterna?”. Certo riesce difficile rispondere decisamente sì, se si pensa che uno dei momenti culminanti del funerale di Morosini è stata l’esecuzione di una canzone di Ligabue i cui versi recitano, tra l’altro: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”. A contorno, i soliti applausi, la solita emozione, la solita voglia di esserci, i soliti cartelli scritti per il morto ma esibiti in favore di telecamere.

Denunciando tutto questo come segno di una evidente crisi di fede, Socci ha commesso una grave imprudenza: ha criticato apertamente un vescovo, nella fattispecie quello di Bergamo, Francesco Beschi. Errore imperdonabile agli occhi del clericalismo contemporaneo, che tollera i peggiori insulti provenienti da atei agnostici e cosiddetti diversamente credenti, ma non le critiche dei cattolici che non intendono inchinarsi al mondo. Qui “Avvenire” ha risposto. Un dietrologo, conoscendo i tortuosi meccanismi del clericalismo e del clericalese, direbbe che le cose sono andate così. Un vescovo che si sente punto sul vivo pubblicamente chiama la Conferenza episcopale per sollecitare un intervento. La Conferenza episcopale chiama il direttore del giornale di sua proprietà e conferisce il mandato di agire. Il direttore del giornale, ricevuti gli ordini dell’azionista di riferimento, provvede a dare il fatto suo all’importuno di turno. Dunque, bisognava rispondere e, come la Gertrude del Manzoni, lo sventurato rispose. Tale ipotesi non deve essere troppo lontana dal vero poiché, nel suo componimento, il direttore di “Avvenire” non mette un solo argomento che ribatta alle questioni sollevate nell’articolo di “Libero”. Non c’è nemmeno la risposta alla domanda iniziale: “Ma i vescovi e i preti credono ancora alla vita eterna?”. Niente da fare. Al direttore di “Avvenire” interessava solo dire che “Avvenire” difende il vescovo di Bergamo. Il tutto opportunamente posizionato nella pagina delle lettere, con la scusa di rispondere al lettore Matteo Saccone, e mimetizzato sotto un titolo incolore, così che vedano solo quelli che devono vedere e intendano solo quelli che devono intendere.

Dunque, il lettore Matteo Saccone di Forlì trascina il direttore di “Avvenire” nell’agone e questi, visto che c’è, ne approfitta per mettere al suo posto il reo Socci dandogli sulla voce con certe perle che paiono uscite fresche fresche dagli istituti superiori di teologia di moda oggigiorno: ce n’è uno perfettamente funzionante anche a Bergamo. Per esempio, Tarquinio spiega che Morosini era “Uno che crede in Gesù Cristo, e che, magari, ama una canzone di Ligabue o dei Beatles tanto quanto una bella predica in chiesa (o una confessione) che tocca il cuore, mette in moto i pensieri e scomoda la vita”. Proprio così, il giornale dei vescovi italiani, per penna del suo direttore, adombra che una canzonetta valga quanto una confessione. E perché non quanto un editoriale? O una risposta nella pagina dei lettori?
Ma, se non bastasse, il direttore del giornale dei vescovi spiega anche che non bisogna andare tanto per il sottile, e che “un’eccezione alla regola’, fatta per puro amore e puro dolore non è uno scandalo”.
Avesse letto almeno di passata qualche scritto sulla liturgia di un certo Joseph Ratzinger, il direttore del giornale dei vescovi, forse, sarebbe stato più cauto.

Nell’Introduzione allo spirito della liturgia, il Pontefice felicemente regnante spiega proprio come le “eccezioni alla regole”, fatte per puro amore, e persino per pura fede, portano l’uomo ad adorare se stesso invece che Dio. “L’uomo” scrive Ratzinger “si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui (…): si tratta di un culto fatto di propria autorità. (…) Allora la liturgia diventa davvero un gioco vuoto. O, ancora peggio, un abbandono del Dio vivente camuffato sotto un manto di sacralità”.
Ma, se proprio si tiene alle “eccezioni alla regola”, il direttore di “Avvenire” dovrebbe aver l’onestà intellettuale di riconoscere che esistono “eccezioni” ed “eccezioni”. Perché lo scorso novembre il vescovo di Bergamo ha proibito che il funerale del padre di uno degli autori di questo articolo venisse celebrato con il rito romano antico, la scandalosa “Messa in latino”. Se non altro, ora è chiaro il criterio con cui vengono valutate le “eccezioni”: il “puro amore” e il “puro dolore”, che, evidentemente, nel caso del defunto che aveva chiesto il rito romano antico non erano evidenti. Mentre erano evidentissimi nel caso del funerale dello scalatore Mario Merelli, celebrato sempre nella diocesi retta da monsignor Beschi con tanto “Io vagabondo” dei Nomadi e di musiche nepalesi.
Se riesce difficile capire il teologo Joseph Ratzinger quando spiega che la liturgia non ammette eccezioni perché non è un diritto degli uomini, ma un diritto Dio, si cerchi almeno di comprendere che, rispettando le regole, si trattano con equità gli uomini. Non è molto, ma è già qualcosa.

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