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venerdì 27 aprile 2012

Antonio Socci attaccato da Corriere e Avvenire per le critiche alle canzoni di Ligabue ad un funerale

Sul “caso Ligabue-nella-liturgia” mi trovo attaccato da Corriere (Melloni)
e Avvenire (Tarquinio)… E sentite come…

da Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci, 25.04.2012



Bach come Jovanotti? Ieri, sul Corriere della sera, il corsivista Alberto Melloni, campione di cattoprogressismo, per rispondere al mio articolo sui funerali di Morosini, stabiliva una sorprendente equivalenza, per la liturgia cattolica, fra le canzoni di Ligabue e la musica di Mozart.
Dunque cantare in chiesa, a un funerale, la Messa da Requiem di Mozart è la stessa cosa che schitarrare – come hanno fatto a Bergamo – le canzonette di Ligabue (con queste memorabili parole: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”).
Vorrei dire che, se Melloni detesta Mozart perché è amato da Ratzinger, provi a farsi spiegare la grandezza teologica del suo Agnus Dei da Karl Barth.
In ogni caso equiparare Mozart a Ligabue significa che manca o l’abc del giudizio culturale o il senso del ridicolo o la pietà. O forse tutti e tre.
Soprattutto manca la consapevolezza che la liturgia è la cosa più sacra della Chiesa e non se ne può disporre a piacimento, perché non è fatta da noi, non è il luogo delle nostre trovate, ma vi riaccade la passione e morte del Figlio di Dio.
Stabilito che in chiesa un corale di Bach non è la stessa cosa di una canzonetta di Vasco Rossi, c’è poi il capitolo della musica sacra della tradizione e delle moderne canzonette religiose.
Personalmente non ho pregiudizi, anche se la qualità dei testi e delle musiche va valutata. Ma quello che tracima dalla prosa di Melloni è soprattutto l’evidente disprezzo per la tradizione cattolica che lo induce a definire il gregoriano un “belare”.
E siccome Melloni sostiene che per avvicinarsi a Dio non c’è differenza fra “belare in gregoriano” e “quelle canzoni stile Pooh che riempiono le navate di tante parrocchie”, voglio informarlo che invece la Chiesa stabilisce una rigorosa gerarchia. In particolare definisce il gregoriano come il canto proprio della Chiesa (poi viene la polifonia).
Lo ha proclamato non in uno di quei Concili che i cattoprogressisti disprezzano, ma proprio in quel Concilio Vaticano II di cui Melloni si proclama esperto e si autonomina portabandiera.
Infatti nella Costituzione “Sacrosantum Concilium” afferma che “la tradizione musicale di tutta la chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’ arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della liturgia solenne”.
Aggiunge: “Senza dubbio il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra scrittura, sia dai padri e dai romani pontefici che recentemente, a cominciare da san Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel servizio divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’ azione liturgica”.
Il Concilio prescrive: “Si conservi e si incrementi con somma cura il patrimonio della musica sacra”.
E proclama: “La chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonica, non si escludono affatto nella celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’ azione liturgica, a norma dell’ art. 30”.
Come si vede il Concilio Vaticano II è agli antipodi di chi boccia sprezzantemente il gregoriano come un “belare” e lo equipara all’inserimento nella liturgia sacra delle canzonette di Ligabue o di Vasco Rossi.
Si comprende così che pure i tanti arbitri perpetrati nella liturgia non discendono affatto dal Concilio ed è grave sbandierarlo a sproposito.
Già nel 1971 Ratzinger – che era stato un uomo del Concilio – denunciò la grande devastazione teologica che il progressismo stava perpetrando, per cui “anche a dei vescovi poteva sembrare ‘imperativo dell’attualità’ e ‘inesorabile linea di tendenza’, deridere i dogmi”.
Nel 1997, da prefetto dell’ex S. Uffizio, il cardinale Ratzinger scriverà: “sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo, dipende in gran parte dal crollo della liturgia”.
Accanto ai tanti abusi che si sono perpetrate nella liturgia, col post-Concilio, Ratzinger ha sottolineato pure la decadenza della musica liturgica: “E’ divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza… La Chiesa ha il dovere di essere anche ‘città della gloria’, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.
Poi, proprio Ratzinger, da Papa, ha cercato di riportare tutti alla retta dottrina anche riordinando la liturgia e ridando legittimità all’antico rito della Chiesa (che è il rito in cui si celebrava messa pure al Concilio Vaticano II).
Sorprendente è l’opposizione che tanti vescovi e preti hanno fatto a questo Motu proprio “Summorum pontificum”. Un caso clamoroso è scoppiato proprio nella stessa diocesi di Bergamo dove si è svolto il rito funebre di Piermario Morosini.
E’ stato denunciato dal collega Alessandro Gnocchi sul “Foglio” del 17 novembre scorso.
Era morto il padre dello stesso Alessandro e la famiglia aveva chiesto di celebrare le esequie secondo il rito gregoriano a cui aveva ridato pieno accesso il Motu proprio del papa. Ma il parroco, dopo aver preso istruzioni in Curia, ha risposto di no.
E’ la stessa Curia che poi lascia cantare le canzoni di Ligabue durante la Messa per Morosini, canzoni – ripeto – con questi testi: “quando questa merda intorno/ sempre merda resterà/ riconoscerai l’odore/ perché questa è la realtà”.
Così tutta la tolleranza liturgica che i progressisti alla Melloni sbandierano per chi si vuole cimentare con Ligabue in chiesa, non deve più valere per chi chiede semplicemente il rito cattolico autorizzato dal Papa?
La “pietà” di Melloni dov’era quando sui giornali è scoppiato questo caso?
Anche il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio domenica mi ha criticato, richiamandomi alla necessità di fare – nel caso di Morosini – “un’eccezione alla regola, per puro amore e puro dolore” visto che “senza l’amore siamo solo cembali che tintinnano”.
Ma non sono io che posso autorizzare tali “eccezioni”: Tarquinio chieda al Vaticano. Io, da parte mia, mi domando: perché il direttore di “Avvenire” non intervenne anche per difendere il diritto al rito gregoriano della famiglia Gnocchi, visto che in quel caso non si trattava neanche di “un’eccezione alla regola”, ma di rispettare la regola data dal Papa?
Perché Tarquinio non richiamò la Curia di Bergamo al dovere di carità nei confronti di quella famiglia e al dovere di obbedire al Papa?
Il direttore di “Avvenire” recentemente ha difeso con accanimento lo scrittore Enzo Bianchi dalle legittime critiche rivolte a lui da alcuni teologi cattolici: sarebbe auspicabile che con altrettanto zelo difendesse anche un Motu proprio così caratterizzante del pontificato di Benedetto XVI come il “Summorum pontificum”, da chi lo snobba.
Sottolineo infine che il cuore del mio articolo sulle esequie del calciatore non erano tanto le canzoni di Ligabue, quanto la mancanza da parte dei pastori di una parola cristiana sulla necessità della preghiera per i defunti e soprattutto sulla vita eterna.
E noto con tristezza che pure in tutto lo scritto del direttore di Avvenire (di 2887 battute) non c’è un solo richiamo a questo che è il cuore della dottrina cattolica.
Nemmeno nell’articoletto di Melloni, ma di questo non mi sorprendo.
Sconcerta però che i Novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso) siano scomparsi da gran parte della predicazione e della catechesi.
Certo, parlare dell’inferno non è “progressista”. Però è la più grande carità. E pregare per i defunti è la vera pietà.

Antonio Socci


Da “Libero”, 25 aprile 2012

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