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lunedì 9 gennaio 2012

Missa florentina a San Lorenzo : articolo di Pietro De Marco


AGGIORNAMENTO

Alcuni lettori ci segnalano che non si capisce, dalle parole di Pietro De Marco, con quale messale il card. Betori abbia celebrato.
Da un articolo presto dal sito di Firenze e dal quotidiano La Nazione (che si è stato anche segnalato da un lettore) si dice chiaramente che "
l'arcivescovo Giuseppe Betori, che celebrera' con il testo latino del Missale romanum postconciliare Editio typica tertia approvata da Giovanni Paolo II nel 2000."
Quindi, il dubbio sembrerebbe risolto.
Ma a chi dare credito? Ai giornali, spesso troppo imprecisi in materia di religione (soprattutto se cattolica), o a De Marco che dice che "Il Cardinale Arcivescovo Betori ha celebrato secondo il Messale latino che fu del Concilio Vaticano II (e che mai era stato abrogato)".
Chi avesse qualche delucidazione, è benvenuto.

"L’eccezionalità delle celebrazioni dell’Epifania in San Lorenzo non si limita alla ‘Missa florentina’ ricostruita da Francesco Zimei e eseguita con perizia dall’Ensemble Micrologus. Il Cardinale Arcivescovo Betori ha celebrato secondo il Messale latino che fu del Concilio Vaticano II (e che mai era stato abrogato). Obbligatamente, si potrebbe sostenere, ma non è così; l’esecuzione di repertori antichi oggi si giustappone spesso alla messa in italiano. Mi piace pensare che la cura per la coerenza tra liturgia e repertorio musicale abbia voluto, in ultimo, rendere omaggio alla lungimiranza di papa Benedetto XVI. Anche la grande stampa dette risonanza al ‘motu proprio’ (luglio 2007) con il quale il Pontefice restituiva piena legittimità alla Messa latina quale ordinariamente celebrata fino all’avvio della riforma liturgica (1970). Gli anni sono stati segnati da polemiche, rifiuti, allarmi, come dal sereno ritorno di comunità cattoliche al rito ‘antico’. Ma il significato del coraggioso atto di governo del Papa è più esteso del riconoscimento delle legittime richieste di minoranze: all’intero popolo cattolico fu reso possibile, quindi (oso dire) doveroso, attingere alla ricchezza di una nuova dialettica dei riti.
Perché ricchezza? La libertà della celebrazione della Messa latina detta (impropriamente) preconciliare è il correttivo, se non il risarcimento, di un’indebita frattura pratica e, più gravemente, ideologica consumata nel recente Novecento. Frattura con la tradizione medievale-moderna della Chiesa e, quanto alla lingua, pressoché con l’intera tradizione. Non voluta dalla Costituzione sulla liturgia, la frattura consisté nella cancellazione deliberata o di fatto dello spirito della liturgia precedente la riforma, quasi lasciando intendere ch’essa fosse in sé cristianamente inadeguata, il che è assurdo.
L’iniziativa del Pontefice era, dunque, rivolta contro l’inaccettabile lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” che del Concilio è stata data da élite teologiche e pastoralistiche cattoliche, e lentamente penetrata nei laicati parrocchiali.
Vi è di più. Se guardiamo al dato sacramentale la legittimità di un’eucaristia periodicamente celebrata secondo il Messale romano, e in lingua non corrente, sembra capace di riequilibrare non solo gli “eccessi” rituali, linguistici, architettonici, di questi decenni ma, in particolare, gli slittamenti verso una perdita del senso del Sacramento a vantaggio dello ‘stare insieme’, agire, dire insieme, dei fedeli. La lingua non-ordinaria favorisce, infatti, la percezione di una originarietà del rito, su cui il presente profondamente e necessariamente si impianta, e non può spadroneggiare. Opera contro la tentazione evidente ogni domenica di considerare ‘sacramento’ l’assemblea, ossia di sacramentalizzare la socialità dei credenti a scapito del mysterium fidei.
La forma rituale della Messa ‘antica’ ha, dunque, una portata obiettiva per la fede. Il celebrante “rivolto al Signore”, che non è “dare le spalle” al popolo, e la contemporanea riscoperta della polarità sacra dell’altare (che non è un tavolo da pranzo), conducono a riflettere su spazio e tempo sacro. Non sono la comunità radunata, i suoi sentimenti, la sua disposizione interna ed esteriore, la sua socialità o compagnia, il perno del Sacrificio. Non è il ‘comportamento’ dell’assemblea che conta; è questa una tentazione pragmatistica e attivistica di cui lo psicopedagogismo dei liturgisti non avverte i danni. Nella Messa il divino Sacerdote sacrifica se stesso al Padre, e il celebrante e l’assemblea non fanno alcun gioco sociale, ma sono come tratti nell’abisso dell’operare di Dio. Simbolicamente tutto risulta, però, più chiaro al fedele se ‘guarda’ oltre il celebrante e oltre l’altare, verso il Signore. Poiché l’altare stesso è un vertice e una soglia.
Con l’architettura, con le arti figurative, e più di esse, forse, la musica sacra contribuisce al santo sbigottimento che deve (dovrebbe) accompagnare la partecipazione ad una ‘eucaristia’. La sua trascendenza sottrae il rito alla soggettività del gruppo parrocchiale. La Messa non è il surrogato di una sociabilità in crisi, non è destinata ad una comunità di amici come tale; è aperta e universale, evento per ognuno che vi si accosti.
Vorrei che questo fosse il segno lasciato dalla messa cantata more florentino in San Lorenzo. Il compito di testimonianza dello splendore di Cristo, ha detto il Cardinale nell’omelia, la Chiesa lo esercita “nella proclamazione della vera dottrina, ma anche nella promozione di tutti quei segni con cui la bellezza della verità [lo] manifesta […]. In questa celebrazione […] lo splendore del Vangelo riluce nelle note che gli antichi musici della nostra cattedrale dedicarono alla lode di Dio”.
Pietro De Marco

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