A proposito del teatro di Castellucci, una risposta ad Antonio Socci
di Corrado Gnerre, Università Europea di Roma
di Corrado Gnerre, Università Europea di Roma
Caro Socci, lei ci ha abituato spesso a delle uscite “a sorpresa”. Lo ha fatto ultimamente anche con le celebrazioni sull’Unità d’Italia, lei che tanto aveva scritto sulla necessità di poter adeguatamente riscrivere questa dolorosa pagina della storia che non meritava e non merita festival di retorica. Adesso, lei, si esprime sullo spettacolo di Castellucci prendendo le distanze (anche se assolvendone la buona intenzione) da quei tanti cattolici che hanno manifestato indignazione per una scena dello spettacolo: l’imbrattamento del volto di Cristo di Antonello da Messina con finte feci. Lei, però, ci tiene a precisarlo, non ha visto la rappresentazione teatrale. Come me, che pur mi onoro di essere tra i cattolici indignati. Siamo dunque, io e lei, nelle stesse condizioni. E allora è su altro che entrambi dobbiamo basarci. Lei si sente di difendere lo spettacolo basandosi su ciò che ha scritto il regista Castellucci. E il punto è proprio questo. Cosa ha scritto il regista? Riprendo ciò che lei stesso ha riportato nel suo articolo su Libero. Dice Castellucci: “Questo spettacolo è una riflessione sul decadimento della bellezza, sul mistero della fine … Per questo spettacolo ho scelto il dipinto di Antonello a causa dello sguardo di Gesù che è in grado di fissare direttamente negli occhi ciascuno spettatore con una dolcezza indicibile. Lo spettatore guarda lo svolgersi della scena ma è a sua volta continuamente guardato dal volto. Il Figlio dell’uomo, messo a nudo dagli uomini, mette a nudo noi, ora… Alla fine infatti “la tela del dipinto si lacera” e appare “una scritta di luce: ‘Tu sei il mio pastore’. E’ la celebre frase del salmo 23. Ma ecco che si può intravedere un’altra piccola parola che si insinua tra le altre, dipinta e quasi inintelligibile: un ‘non’, in modo tale che l’intera frase si possa leggere nel seguente modo: Tu ‘non’ sei il mio pastore. La frase di Davide si trasforma così per un attimo nel dubbio. Tu sei o non sei il mio Pastore?”.
Ebbene, caro Socci, con queste parole Castellucci non mi sembra sminuisca l’offesa al volto di Cristo, anzi sembra legittimarla ancora di più. La bellezza del volto di Cristo, infatti, soccombe dinanzi alla rovina del corpo. La bellezza del volto di Cristo –esito dell’Incarnazione- soccombe, si dissolve, viene ad essere (secondo Castellucci) la manifesta menzogna di un Dio che ha preteso restaurare l’uomo e la sua integrità, e che non solo non ha saputo far questo, ma nulla fa dinanzi al decadimento del corpo, dinanzi ad una dissenteria che concretamente esprime la disturbante fragilità della carne.
Lei, Socci, dovrebbe sapere che Castellucci nel 2002, mentre era in scena la rappresentazione Genesis, rilasciò ad una rivista australiana (Real Time Arts) un’intervista dove dichiarò di essere di fatto convinto dell’inaccettabilità (e in un certo qual modo della pericolosità) del peccato originale, in nome di una rivisitazione cabalistica della creazione. L’intervistatore era Jonathan Marshall. Ecco alcuni passi significativi. Marshall: Lei è d'accordo che ogni atto creativo sia un atto di violenza? O per lo meno una violazione del tabù contro la Creazione? Ho in mente qui la sua dichiarazione che Lucifero, l'angelo caduto, sarebbe il primo artista con cui l'umanità si debba identificare.
Castellucci: Naturalmente, la Genesi affronta il problema del Principio. Ogni artista sa che, al Principio, il palcoscenico vuoto è un mare aperto di possibilità. Questo è anche ciò che costituisce il "terrore della scena". Non si tratta — almeno in ciò che mi riguarda — di un terrore o di una paura del vuoto in sé, ma piuttosto del terrore della pienezza e della perfezione: c'è troppa Creazione. La quantità ci travolge. La materia è oscura.” Quello di Castellucci non è l’offerta della bellezza di Cristo che vince l’insignificanza del dolore, ma è l’insignificanza del dolore che imbratta il volto di Cristo; e che dovrebbe far capire che la creazione così com’è avvenuta è sbagliata, che la materia può essere “redenta” solo se si costruisce in un’infinita possibilità. E’ ciò che De Sade affermava parlando della natura come “materia in azione”.
Caro Socci, lei che giustamente ha sempre affermato che la bellezza del Cristianesimo sta anche nella sua intima carnalità, quella carnalità che fece dire al grande san Bernardo di Chiaravalle: “poiché siamo carnali, Dio vuole che la salvezza si realizzi nella carne”, non si accorge che ciò che andrà in scena al Teatro “Parenti” è proprio la negazione della bellezza della carne. Non una bellezza rappresentata dal decadimento del corpo, bensì una bellezza di un corpo decaduto salvato dalla bellezza del volto di Cristo. Invece quel volto viene imbrattato.
Lei, Socci, vede addirittura nel teatro di Castellucci una possibile risposta a certe derive “mancusiane”, cioè di Vito Mancuso. Che le derive “mancusiane” vadano rigettate sono ampiamente d’accordo con lei, ma non si accorge che è proprio il contrario: rappresentare il fallimento della Redenzione è proprio dar ragione a quella teologia dell’assurdo che si evince dalle affermazioni dello pseudo-teologo della facoltà del “San Raffaele”.
Lei, Socci, si è richiamato a don Giussani che ebbe l’intuizione di annunciare l’intrinseca liberazione del Cristianesimo utilizzando anche poeti per nulla religiosi. Mi permetto di ricordarle (malgrado io non sia di CL) che il riferimento non regge. Prima di tutto perché –mi sembra- in don Giussani l’utilizzazione di questi poeti faceva sempre riferimento ad un discrimine: da una parte l’affermazione di bisogni universali e la constatazione del fallimento senza il riconoscimento di un fondamento per la vita, dall’altra la denuncia di chi nella constatazione dell’assenza della risposta ha avuto la disonesta pretesa d’intravedere la liberazione dell’uomo. Giussani parlava in questo caso di atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo.
Insomma, caro Socci, un conto è la domanda, altro è la risposta. Il teatro di Castellucci, per quella scena e per quel “non” (Tu “non” sei il mio pastore), non si configura semplicemente come domanda e invocazione, ma anche come risposta, come risposta sbagliata, come risposta che Dio –pur nella sua onnipotenza- nulla vuole fare per la salvezza del corpo dell’uomo.
Caro Socci – lo ricordo - io e lei non abbiamo visto lo spettacolo, ma quello di Castellucci non è preghiera. La preghiera non è semplicemente non evitare Cristo (come lei invece afferma facendo riferimento ad alcuni versi di Testori). Anche il bestemmiatore non evita Cristo, eppure lo offende. La preghiera è adorazione. La preghiera può anche essere riconoscimento di un mistero che lì per lì non si capisce (il dolore dell’innocente), ma è soprattutto riconoscimento di un significato di amore che c’è. Possono sfuggire i significati, non sfugge mai la presenza del Significato. La preghiera non è scagliarsi disperatamente contro il Volto dei Volti, ma è mendicare da quel Volto la risposta nell’umile (ma gioiosa) constatazione del proprio limite e di quanto possa essere stupidamente blasfema una ribellione che sarebbe ed è segno di luciferina stoltezza.
Caro Socci, il Volto di Cristo e la generosità di chi prega, soprattutto la generosità di quei semplici che affermano la più grande sapienza (quella tanto irrisa dai salotti radical-chic) e cioè che solo Lui, Cristo, può sovvenire la nostra miseria … non possono essere offesi in questo modo.
Ebbene, caro Socci, con queste parole Castellucci non mi sembra sminuisca l’offesa al volto di Cristo, anzi sembra legittimarla ancora di più. La bellezza del volto di Cristo, infatti, soccombe dinanzi alla rovina del corpo. La bellezza del volto di Cristo –esito dell’Incarnazione- soccombe, si dissolve, viene ad essere (secondo Castellucci) la manifesta menzogna di un Dio che ha preteso restaurare l’uomo e la sua integrità, e che non solo non ha saputo far questo, ma nulla fa dinanzi al decadimento del corpo, dinanzi ad una dissenteria che concretamente esprime la disturbante fragilità della carne.
Lei, Socci, dovrebbe sapere che Castellucci nel 2002, mentre era in scena la rappresentazione Genesis, rilasciò ad una rivista australiana (Real Time Arts) un’intervista dove dichiarò di essere di fatto convinto dell’inaccettabilità (e in un certo qual modo della pericolosità) del peccato originale, in nome di una rivisitazione cabalistica della creazione. L’intervistatore era Jonathan Marshall. Ecco alcuni passi significativi. Marshall: Lei è d'accordo che ogni atto creativo sia un atto di violenza? O per lo meno una violazione del tabù contro la Creazione? Ho in mente qui la sua dichiarazione che Lucifero, l'angelo caduto, sarebbe il primo artista con cui l'umanità si debba identificare.
Castellucci: Naturalmente, la Genesi affronta il problema del Principio. Ogni artista sa che, al Principio, il palcoscenico vuoto è un mare aperto di possibilità. Questo è anche ciò che costituisce il "terrore della scena". Non si tratta — almeno in ciò che mi riguarda — di un terrore o di una paura del vuoto in sé, ma piuttosto del terrore della pienezza e della perfezione: c'è troppa Creazione. La quantità ci travolge. La materia è oscura.” Quello di Castellucci non è l’offerta della bellezza di Cristo che vince l’insignificanza del dolore, ma è l’insignificanza del dolore che imbratta il volto di Cristo; e che dovrebbe far capire che la creazione così com’è avvenuta è sbagliata, che la materia può essere “redenta” solo se si costruisce in un’infinita possibilità. E’ ciò che De Sade affermava parlando della natura come “materia in azione”.
Caro Socci, lei che giustamente ha sempre affermato che la bellezza del Cristianesimo sta anche nella sua intima carnalità, quella carnalità che fece dire al grande san Bernardo di Chiaravalle: “poiché siamo carnali, Dio vuole che la salvezza si realizzi nella carne”, non si accorge che ciò che andrà in scena al Teatro “Parenti” è proprio la negazione della bellezza della carne. Non una bellezza rappresentata dal decadimento del corpo, bensì una bellezza di un corpo decaduto salvato dalla bellezza del volto di Cristo. Invece quel volto viene imbrattato.
Lei, Socci, vede addirittura nel teatro di Castellucci una possibile risposta a certe derive “mancusiane”, cioè di Vito Mancuso. Che le derive “mancusiane” vadano rigettate sono ampiamente d’accordo con lei, ma non si accorge che è proprio il contrario: rappresentare il fallimento della Redenzione è proprio dar ragione a quella teologia dell’assurdo che si evince dalle affermazioni dello pseudo-teologo della facoltà del “San Raffaele”.
Lei, Socci, si è richiamato a don Giussani che ebbe l’intuizione di annunciare l’intrinseca liberazione del Cristianesimo utilizzando anche poeti per nulla religiosi. Mi permetto di ricordarle (malgrado io non sia di CL) che il riferimento non regge. Prima di tutto perché –mi sembra- in don Giussani l’utilizzazione di questi poeti faceva sempre riferimento ad un discrimine: da una parte l’affermazione di bisogni universali e la constatazione del fallimento senza il riconoscimento di un fondamento per la vita, dall’altra la denuncia di chi nella constatazione dell’assenza della risposta ha avuto la disonesta pretesa d’intravedere la liberazione dell’uomo. Giussani parlava in questo caso di atteggiamenti irragionevoli di fronte all’interrogativo ultimo.
Insomma, caro Socci, un conto è la domanda, altro è la risposta. Il teatro di Castellucci, per quella scena e per quel “non” (Tu “non” sei il mio pastore), non si configura semplicemente come domanda e invocazione, ma anche come risposta, come risposta sbagliata, come risposta che Dio –pur nella sua onnipotenza- nulla vuole fare per la salvezza del corpo dell’uomo.
Caro Socci – lo ricordo - io e lei non abbiamo visto lo spettacolo, ma quello di Castellucci non è preghiera. La preghiera non è semplicemente non evitare Cristo (come lei invece afferma facendo riferimento ad alcuni versi di Testori). Anche il bestemmiatore non evita Cristo, eppure lo offende. La preghiera è adorazione. La preghiera può anche essere riconoscimento di un mistero che lì per lì non si capisce (il dolore dell’innocente), ma è soprattutto riconoscimento di un significato di amore che c’è. Possono sfuggire i significati, non sfugge mai la presenza del Significato. La preghiera non è scagliarsi disperatamente contro il Volto dei Volti, ma è mendicare da quel Volto la risposta nell’umile (ma gioiosa) constatazione del proprio limite e di quanto possa essere stupidamente blasfema una ribellione che sarebbe ed è segno di luciferina stoltezza.
Caro Socci, il Volto di Cristo e la generosità di chi prega, soprattutto la generosità di quei semplici che affermano la più grande sapienza (quella tanto irrisa dai salotti radical-chic) e cioè che solo Lui, Cristo, può sovvenire la nostra miseria … non possono essere offesi in questo modo.
Nessun commento:
Posta un commento