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sabato 19 novembre 2011

Prete gayfriendly di Forlì parla dell'Eucarestia e della Tradizione (!?!)

Da parte di un addolorato fedele, abbiamo ricevuto questa sofferta segnalazione con in allegato la relazione di un 'presbitero' della "scassata" diocesi di Forlì-Bertinoro, tenuta alle serate di lancio del nuovo anno pastorale. (Don) Enrico Casadio, autore dello "studio" sul tema "Eucarestia e Tradizione" è da poche settimane il nuovo Abate della Basilica di San Mercuriale nella centralissima Piazza Saffi di Forlì, la chiesa più prestigiosa della città.
Giunge a tale incarico "pro benevolentia curiae", nonostante, non molto tempo fa, sia balzato agli "onori" della cronaca nazionale per la sua partecipazione sia al Family Day sia al Gay Pride (http://www.gionata.org/chiese-e-omosessualit/esperienze-pastorali/io-parroco-in-piazza-per-i-loro-diritti.html.)

Discorso sulla manna: Eucaristia e tradizione - don Enrico Casadio
Incontri di Coriano in attuazione del Progetto Pastorale Diocesano
Forlì, 17 ottobre 2011

Cominciamo col dirci quale idea di tradizione abbiamo, così come appare da quel che solitamente si dice e si sente dire. Naturalmente, al riguardo, forzatamente si semplifica.
Mi pare che la tradizione sia vista come qualcosa che viene a noi dal passato, d’autorità. D’autorità, nel senso che molto spesso la tradizione è presentata con queste parole: “si è sempre fatto così”. Donde due diverse reazioni, soprattutto nei giovani: rifiuto di quella che appare come un’imposizione autoritaria, ovvero accettazione di quella che appare un’identità rassicurante. Le due reazioni si trovano, spesso, nella stessa persona che ora accetta, ora rifiuta la tradizione. A dire il vero oggi mi sembra prevalere rispetto al rifiuto, l’indifferenza e la non conoscenza, mentre, a causa del momento di crisi dell’Occidente rispetto ad altri mondi, si nota un ritorno della tradizione come identità rassicurante, anche per molti giovani (ad es. giovani che frequentano la cosiddetta Messa di S. Pio V).

Vediamo ora che cosa significa tradizione.
La parola traditio viene dal verbo latino tradere, che significa trasmettere, consegnare: la tradizione è il modo umano di trasmettere ad altri qualcosa. Dunque la tradizione ha a che vedere con l’educazione che è la realizzazione piena della trasmissione della vita: chi educa trasmette tutto ciò che occorre per la vita, quindi anche e soprattutto il suo senso. Ecco perché la tradizione implica l’autorità, intesa propriamente come auctoritas, ossia capacità di far crescere, dato che nell’educazione/tradizione il rapporto non è alla pari, perché c’è qualcuno che ha bisogno di ricevere. Semmai è alla pari quanto alla dignità dei soggetti, nel senso che chi riceve è una persona, da educare nella libertà, senza costrizioni, e alla libertà, perché possa scegliere di far suo ciò che le viene trasmesso. Dunque chi educa/trasmette dovrà guadagnarsi la propria autorevolezza con la propria coerenza di vita, che è anche disponibilità a rimettersi in discussione, a riformarsi, nelle varie situazioni, rispetto a ciò che si vuole trasmettere come valore e senso della vita. Ora, però, occorre ricordare che dal verbo tradere viene anche l’italiano tradire, e proprio in connessione col Vangelo e con l’esperienza storica dei cristiani. Giuda Iscariota è il traditore per antonomasia perché consegnò Gesù ai suoi nemici, quindi alla morte in croce. Sotto l’Impero Romano, quando ancora i cristiani erano perseguitati, i traditores erano i battezzati che, per paura, consegnavano i libri dei Vangeli alle autorità, quindi alle fi amme.

Dunque si può trasmettere/consegnare per la vita o per la morte. Nel primo caso c’è una tradizione che educa, nel secondo c’è una tradizione che tradisce. Insomma, così come l’autorità, la tradizione non è qualcosa da accettare o da rifi utare in blocco, a priori: ne abbiamo bisogno tutti perché nessuno si dà la vita da sé, ma dobbiamo valutarla rispetto al contenuto che trasmette. La tradizione è relativa al contenuto che trasmette, quindi è da riformare ogni volta che rischia di tradire il proprio contenuto, anzi ogni autentica tradizione comprende la propria incessante riforma per tale ragione. Negli O.P. della Cei per il decennio 2010-2020 si afferma che la Chiesa stessa è tradizione vivente, perché esiste per comunicare/trasmettere il Vangelo, cioè la vita stessa del Signore Gesù Cristo. L’apostolo Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, parla della tradizione del Vangelo (1 Cor 15,1-5), come pure della tradizione dell’Eucaristia (1 Cor 11,23-33). E la Chiesa dice di sé: Ecclesia semper reformanda. Ora dal Vangelo di Giovanni, al capitolo 6, vv. 26-71, cerchiamo di trarre qualche luce sul tema della tradizione e dell’Eucaristia. Poiché non sono un biblista, farò riferimento al commento a Giovanni dell’esegeta francese Léon-Dufour. Noi siamo abituati a pensare immediatamente all’Eucaristia, quando ascoltiamo questo passo di Giovanni, per via del riferimento costante al pane e, poi, alla carne e al sangue. In realtà qui non si parla immediatamente dell’Eucaristia: come avrebbero potuto capire gli ascoltatori dal momento che si è fuori del contesto della Cena, durante la quale il Signore rese grazie sul pane e sul vino? L’invito a mangiare la carne e bere il sangue (cf Gv 6, 53), fuori di quel contesto, suonerebbe come una sorta d’incitamento al cannibalismo, se lo si prendesse subito in senso realistico-sacramentale. In effetti, nella lettura di Giovanni, per comprenderne il senso, bisogna tener presente il principio dei due tempi: il testo, in un primo tempo, va inteso così come potevano intenderlo i contemporanei di Gesù, secondo la circostanza concreta in cui ci si trovava; in un secondo tempo, dopo la Pasqua di Gesù, alla luce della fede e nello Spirito, va ricompreso a un livello più profondo. Nel nostro caso, nel secondo tempo, si può certamente pensare al sacramento dell’Eucaristia, ma nel primo tempo si deve cogliere il riferimento alla persona di Gesù, dono che Dio fa agli uomini perché abbiano la vita. Infatti parlare del cibo che rimane per la vita eterna, per l’ebreo Gesù, che si rivolge ad altri ebrei, vuol dire parlare della
Parola/Legge di Dio che nutre (cf Dt 8,3) e, se osservata nelle opere, conduce alla vita eterna.
Nella tradizione ebraica, in particolare, la manna donata da Dio, durante l’esodo, era divenuta il simbolo di ciò che Dio dona perché il suo popolo non perisca, dunque anche e soprattutto della Parola/Legge di Dio. Alla folla che chiede che cosa si deve fare per compiere opere appunto secondo la Parola di Dio, Gesù dichiara che bisogna credere in colui che Dio ha inviato (cf Gv 6,29). A questo punto gli ascoltatori, per spingere Gesù ad accreditarsi come inviato di Dio, obiettano che loro fanno già riferimento a un dono, la manna, che fu dato ai padri nel deserto: si può dire che si richiama la tradizione di Mosè che trasmette la manna/ Parola di Dio. Così Gesù giunge a presentarsi come disceso dal cielo, cioè donato da Dio, quale vero pane, ossia quale dono in cui si realizza ciò che la manna prefi gurava, non solo per Israele, ma per l’intera umanità (cf Gv 6,33). Gesù, indicando se stesso come il vero nutrimento per la vita eterna, invita a credere in Lui per soddisfare la fame e la sete della vita divina (cf Gv 6,35), che l’antica sapienza, donata da Dio, non appagava pienamente (cf Sir 24,19.21). I Giudei, comprendendo, obiettano proprio riguardo alla pretesa di Gesù di essere disceso dal cielo, cioè di avere un’origine divina (cf Gv 6,41 s.). Ecco che Gesù replica che la fede in Lui viene dall’azione del Padre, citando la promessa di Is 54,13, estesa a tutti gli uomini: tutti potranno credere in Gesù se si saranno lasciati istruire da Dio ascoltando la sua Parola, trasmessa nellaScrittura (cf Gv 6,45). Dunque i Giudei, che rischiano di restare chiusi al dono di Dio a causa di un riferimento rigido alla loro tradizione, debbono ritornare alla Parola di Dio per aprirsi al dono di Dio! La loro tradizione, altrimenti, resta bloccata e incapace di assicurare la vita (i padri che mangiarono la manna sono morti! (Gv 6,49.58). Di più, Gesù afferma che il pane che egli darà – il futuro allude alla sua Pasqua- è la sua carne per la vita del mondo, annunciando così la sua morte salvifica per l’intera umanità (cf Gv 6,51). Se prima scandalizzava la pretesa di essere disceso dal cielo, ora urta la pretesa di poter dare, con il proprio sacrifi cio, vita e salvezza al mondo (cf Gv 6,52). I Giudei, forti della loro tradizione, trovano intollerabile che l’uomo Gesù possa accampare simili pretese: è lo scandalo dell’Incarnazione e, in un secondo momento, della morte in croce. Un tale scandalo blocca anche molti dei suoi discepoli, che lo abbandonano, lo tradiscono. Gesù non aggiusta il discorso, ma annuncia il compimento del suo percorso nella risurrezione (cf Gv 6,62) e invita a comprendere il suo discorso solo allora, nello Spirito, che è inscindibilmente legato alle sue parole (cf Gv 6,63). Di fronte ai suoi discepoli bloccati, Gesù rinvia all’azione dello Spirito legata alle sue parole! Ed ecco la professione di fede di Pietro, ossia di ogni autentico cristiano, che si riferisce appunto alle parole di Gesù (cf Gv 6,68): questa è la risposta all’invito pressante di Gesù a credere in Lui, è la risposta di chi si apre al dono inaudito che Dio sta consegnando agli uomini, in Gesù. Il capitolo, però, non termina qui, c’è un riferimento preciso a Giuda, uno dei Dodici, che avrebbe tradito, cioè consegnato alla morte Gesù (cf Gv 6,70 s.). Dunque non basta essere tra i discepoli, nemmeno tra i Dodici, per essere esenti dal rischio di ritrovarsi chiusi al dono di Dio in Gesù, come i Giudei arroccati nella loro tradizione.

Anche i cristiani possono tradire!
Dalle premesse sulla tradizione in generale e dall’ascolto del vangelo di Giovanni traiamo alcuni spunti di rifl essione per noi:
• la tradizione per noi cristiani è il modo della Chiesa di trasmettere, di generazione in generazione, il dono di Dio, cioè la comunione in Gesù risorto con Lui e fra di noi; quindi la tradizione dev’essere valutata, continuata o riformata in relazione al suo contenuto, che fonda la nostra vita di singoli battezzati e della Chiesa, se no diviene tradimento;
• la valutazione della tradizione deve avvenire tenendo presente che la vera autorità, che consegna il dono, è Dio stesso; quindi si deve far riferimento alla Parola di Dio custodita e accolta dalla Chiesa nelle Scritture, sapendo che lo Spirito agisce con la Parola;
• si deve ricordare che il dono è da trasmettere a tutti, cioè a ogni uomo, a ogni popolo, in ogni cultura, in ogni situazione. Un’ultima osservazione circa la forma della tradizione, a partire dalla celebrazione eucaristica. Nel secondo tempo, come si diceva, il passo di Giovanni esaminato può indubbiamente essere riferito all’Eucaristia, cioè al sacramento che contiene e trasmette/consegna a noi la comunione col Signore Gesù risorto e, in Lui, col Padre e fra di noi.
La celebrazione dell’Eucaristia, come insegna il Concilio Vaticano II, avviene attraverso le azioni rituali e le preghiere (SC 48), e dà forma al nostro essere Chiesa (l’Eucaristia fa la Chiesa). Quindi l’Eucaristia non è semplicemente una verità teologica, che si può celebrare in varie forme che fi nirebbero con l’essere un ornamento dipendente dai gusti.
Poiché l’Eucaristia trasmette la comunione, in Cristo, con Dio e tra di noi, che ci fa Chiesa, la forma della celebrazione o trasmette effettivamente questo oppure tradisce. Bisogna ricordarlo, in questo tempo di crisi in cui si rischia di perdere la lucidità e di rimpiangere antiche sicurezze. Il problema, per noi, non è un generico ricupero del senso del sacro, ma un rinnovato senso della tradizione eucaristica che ci faccia trovare in essa la forma della Chiesa e della vita cristiana.
Concretamente: mentre la Messa di S. Pio V (che non è affatto la Messa di sempre, ma quella degli ultimi 4 secoli), con la sua forma, presupponeva e strutturava una Chiesa fatta praticamente solo dal clero, con i laici muti spettatori/esecutori, la Messa di Paolo VI (che ricupera molti elementi della tradizione più antica) esprime e plasma una Chiesa-comunione, dove con ministeri e doni diversi, tutti sono attivi e corresponsabili. Se a volte, ci troviamo in diffi coltà, nelle nostre Messe, forse è perché non abbiamo ancora scoperto la ricchezza della celebrazione che la Chiesa, col Concilio Vaticano II, ci ha trasmesso per restare fedele al dono ricevuto.

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