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venerdì 8 gennaio 2010

Benedixit, fregit, deditque discipulis

Riceviamo e pubblichiamo ben volentieri un sintetico intervento sull’intepretazione delle parole della Consacrazione del Canone Romano, da parte del dr. Salvatore Costanza, giovane ma noto ed apprezzato esperto di papirologia greca. Egli ha vasti interessi (letteratura greca, latina, italiana, storia bizantina, medievale e moderna) ed ha al suo attivo non solo decine di articoli pubblicati su prestigiose riviste, ma anche due importanti volumi: il Corpus Palmomanticum Graecum, edito a cura della Papyrologica Florentina, e La Divinazione Greco Romana, Dizionario delle mantiche: metodi, testi e protagonisti.

Nei giorni scorsi, nei commenti (peraltro
off topic) a due post – qui e qui - s’è sviluppata una discussione sull’esatta traduzione delle parole della Consacrazione nel Messale di S. Pio V, anche nell’edizione del 1962, riprese dai Vangeli, in particolare da Mt 26, 26 e da Marco 14, 22.
V’è stato chi sosteneva che il Messale di Paolo VI avrebbe corretto un grave errore di traduzione presente nel Canone Romano. Sarebbe un errore, cioè, tradurre “
qui pridie quam pateretur accepit panem… tibi gratias agens, BENEDIXIT, fregit deditque discipulis suis etc.” secondo l’interpretazione tradizionale: “prese il pane e, rendendoti grazie, LO BENEDISSE, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli etc.”. Ad avviso di quella tesi, Gesù non avrebbe benedetto il pane e il vino, ma “pronunciato la benedizione”. Arrivando a concludere che perfino il testo latino è errato.

Han già risposto sul tema i nostri Jacopo e Pastorelli, con argomentazioni esegetiche e citazioni la cui consultazione lasciamo ai lettori interessati. Qui diciamo soltanto che a sostegno della traduzione LO BENEDISSE (Gesù, cioè, benedisse il pane e il vino, o pronunciò la preghiera di benedizione sul pane e sul vino) Pastorelli invocava un’attenta lettura del testo greco e latino che citava la traduzione di grandi esegeti tra i quali Ricciotti e Lagrange, e persino quella del Bugnini, e ricordava anche l’Anafora orientale di S. Basilio (“Lo benedì, Lo santificò”). Inoltre, e soprattutto, Pastorelli ricorreva all’autorità del Concilio di Trento che nel Decreto sull’Eucaristia (Denzinger-Hunermann, 1637) infallibilmente insegna: “…i nostri padri che vissero nella vera Chiesa di Cristo hanno chiarissimamente professato che il nostro Redentore ha istituito questo meraviglioso Sacramento nell’ultima cena DOPO LA BENEDIZIONE DEL PANE E DEL VINO”: POST PANIS VINIQUE BENEDICTIONEM”. E visto che nel canone n. 6 sulla Messa il Tridentino fulmina l’anatema contro chi sostenga la presenza di errori nel Canone Romano… Ma vediamo le osservazioni del dott. Costanza:

La Benedizione del Pane nell’Ultima Cena: considerazioni sul benedixit

All’inizio dell’anno, in margine ad un appassionato dibattito dei giorni scorsi sulla formula del benedixit e il suo esatto significato entro le formule delle preghiere di consacrazione, pare doveroso apporre una nota nell’auspicio di avviare un sereno confronto ed evitare fraintendimenti di sorta. In via preliminare ad ogni discussione teologica che rimando volentieri agli amici del blog è doveroso attenersi all’aurea regola del primum legere. In questo caso occorre riguardare la pericope evangelica di Mt. 26, 26 nel testo greco che nella sua tersa e limpida semplicità non offre adito a dubbi d’interpretazione. La frase al vaglio della nostra attenzione: eulogésas éklasen non può che tradursi alla lettera se non “avendolo benedetto, lo spezzò”, cioè “lo benedisse e lo spezzò” (lat. benedixit ac fregit), ove ‘lo’ = árton corrisponde al pane menzionato subito prima.
Neppure uno scolaretto di V ginnasiale di media preparazione avrebbe difficoltà a tradurre correttamente questo passo, ma siano consentite alcune osservazioni, visto che molti possono cadere nondimeno nel tranello di false e fuorvianti interpretazioni che possono diventare il grimaldello per un’errata prospettiva nell’ambito della teologia dell’Eucaristia.
Il participio aoristo del verbo eulogéo, peraltro nella diatesi attiva, non può essere usato in modo assoluto, ma è chiaramente un verbo transitivo che richiede un complemento oggetto: la benedizione è rivolta a qualcosa, come in questo caso, cioè al pane, o a qualcuno, ad una persona determinata. Pertanto una traduzione in italiano come: “pronunciò la preghiera di benedizione” è del tutto insostenibile e fra l’altro sostituisce non a caso in modo subdolo al verbo semplice (benedire) una perifrasi, una frase compiuta, che si discosta dal modello greco e lo riscrive a proprio gusto. Non si tratta semplicemente di una traduzione libera, ma di una glossa al testo, un commento liberamente sovrapposto al racconto evangelico. Ed è chiaro che dietro questa proposta di traduzione si cela una precisa linea esegetico-teologica che si vuole applicare alla genuina lettura dei fatti. Ma, come notato, quest’ipotesi di traduzione è insostenibile e, prima d’ogni altra riflessione, lo dimostra il fatto che non regge alla prova della sintassi ed offende gravemente la lingua greca. Se si rilegge Mt. 26, 26, infatti, si trovano di seguito tre participi aoristi che condividono il medesimo complemento oggetto (árton) e sono precisamente: labòn … eulogésas … doùs. I tre participi in successione giovano a indicare la successione temporale delle tre azioni del ‘prendere il pane’, ‘benedirlo’ e ‘darlo ai Suoi discepoli’; gli ultimi due di questi participi (eulogésas … doùs) sono legati poi dalla coordinazione kaì … kaì (= et … et) e sono seguiti da un verbo di modo finito (un indicativo aoristo) e non possono essere slegati nell’interpretazione generale del passo di S. Matteo. Una conseguenza, probabilmente imprevista e non voluta, di una traduzione quale “pronunciò una preghiera di benedizione” è, infatti, che si finisce per isolare, inopinatamente, doùs = ‘avendo dato’ da quanto precede e, quindi, si rischia perfino d’invalidare l’idea della distribuzione del Pane ai Discepoli.
Nessuno può pensare che árton non sia complemento oggetto di doùs (< dídomi), arrivando a negare che il Signore abbia dato il Pane consacrato ai Suoi discepoli! Ma proprio questo è, per assurdo, il rischio di una spiegazione della frase per chi pone uno iato fra il pane e l’atto della Benedizione. La coordinazione della sintassi è, invece, assolutamente chiara e cristallina: “e avendolo (lo = il pane) benedetto lo spezzò e avendolo (lo = il pane) dato ai Suoi discepoli disse etc.” Chiunque separa eulogésas dal suo naturale complemento oggetto (árton) non si rende conto, probabilmente, di violare così il senso di tutta la frase, d’infrangere la coordinazione ed isolare anche doùs dal medesimo complemento oggetto (árton), creando un monstrum logico-sintattico.
Tornando al passaggio neotestamentario in esame balza, infatti, in prima istanza, che i due participi aoristi di eulogéo e dídomi sono completati necessariamente dallo stesso attante ed insieme con le forme dell’indicativo (éklasen, eîpen) delineano la sequenza di atti compiuti dal Divino Maestro nella S. Cena in un contesto unitario e inscindibile dal quale deriva la Consacrazione del Pane.
Pertanto, oltre alla necessaria prudenza, nell’esegesi neotestamentaria occorre sempre un pizzico di umiltà per evitare d’avventurarsi in pericolose e franose interpretazioni. Prima di tacciare d’errore l’infinita schiera di dotti e periti in utraque lingua i quali nei secoli hanno approvato la traduzione del NT e, quindi, le preghiere di Consacrazione con la formula del benedixit proposte nel Messale, chiunque intenda diversamente il testo evangelico non dovrebbe chiedersi piuttosto di essere caduto in errore? E di aver travisato egli per poca dimestichezza con l’idioma greco il senso della frase, prima d’addossare una così grave censura a tanti illustri e stimati predecessori?
Con l’augurio per il Nuovo Anno a tutti d’usar sempre la giusta cautela e ponderare il peso d’ogni affermazione, per non muoversi avventatamente, specie nei sentieri delle lingue classiche, con i migliori rispetti,

20 commenti:

  1. Commento ineccepibile! I più vivi complimenti al Dott.Costanza ed alla Redazione! Solo un fugace monito ai neoterici di turno: in claris non fit interpretatio! 

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  2. condivido e ringrazio di cuore!

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  3. condivido e ringrazio di cuore!

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  4. Francesco Colafemmina8 gennaio 2010 alle ore 15:52

    Vedi anche Luca 9,16 (moltiplicazione dei pani e dei pesci): λαβὼν δὲ τοὺς πέντε ἄρτους καὶ τοὺς δύο ἰχθύας, ἀναβλέψας εἰς τὸν οὐρανὸν εὐλόγησεν αὐτοὺς καὶ κατέκλασε, καὶ ἐδίδου τοῖς μαθηταῖς παραθεῖναι τῷ ὄχλῳ.

    "presi i cinque pani e i due pesci, sollevatili al cielo li benedisse e li diede ai discepoli da mettere dinanzi alla folla" dove li benedisse è sciolto rispetto agli altri sinottici con "evlogisen autous".

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  5. Grazie infinite, Redazione,
    per aver riproposto questo nodo storico-linguistico centrale, fondante della nostra Fede e della Santa Liturgia da Cristo stesso donata alla sua Chiesa.
    Egli stesso ve ne renderà merito, così come a tutti gli studiosi che in ogni secolo si applicano alla riproposizione dell'esatta formula pronunciata da Nostro Signore, e alla sua corretta e umile traduzione, nel pieno rispetto e intima venerazione di quella sequenza sacra originaria di atti e parole divine inscindibili, non passibili di manipolazione o "interpretazione" umana (e laddove una traduzione sbadata o presuntuosa veramente rischia di diventare un tradimento, il peggiore che l'uomo possa commettere, dopo quello di Giuda...)
    Lode imperitura al dott. Costanza per questa sua meritoria puntualizzazione nell'a.D. 2010 !
    Valeria

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  6. <p><span style=" ">“Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: prendete, mangiate: questo è il mio corpo” (Mt 26,26) [Nuovo testo CEI] </span>

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  7. a proposito del miracolo della moltiplicazione dei pani, durante una delle mie ultime messe NO, il dicono (che lesse il vangelo e lo commentò) disse :"questo passo del vangelo ci deve far pensare a quelli che non hanno da mangiare per colpa di noi ricchi e quindi carlo marx non aveva tutti i torti". Sissignori qiesto ho sentito con le mie orecchie durante una messa NO! Che eresia

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  8. Mi sento in qualche modo chiamato in causa in quanto ho partecipato alla discussione sul "benedixit".
    Dal punto di vista esegetico mi sembra che il papirologo Salvatore Costanza sia stato più che esauriente nella sua lucida quanto dotta analisi, sostenuto, fra l'altro,  dal lapidario intervento d'un altro studioso ragguardevole, Francesco Colafemmina. Ne viene confermata l'interpretazione da me  difesa con molto minor efficacia per i limiti culturali che sono il primo a riconoscermi: per questo motivo m'appello sempre al Magistero o ai teologi ed esegeti  "probati".
    Il pericolo teologico-sacramentale d'una assolutizzazione della "preghiera di benedizione" staccata dal suo oggetto, può consistere, a mio avviso, nel far della Messa un semplice zikaron ebraico, mentre la Messa è memoriale nel senso di rinnovamento, ripetizione, attualizzazione nella realtà sacramentale del Sacrificio di Cristo, e non solo nella memoria per quanto viva e produttrice di ringraziamento a Dio e auspicio di protezione per il futuro.

    Vedo che Osservatore riporta la traduzione della Bibbia della CEI. A tal proposito voglio ricordare che la CEI non è un organo del Magistero e non gode dell'infallibilità. Il Concilio di Trento, al contrario, si esprime in modo definitivo ed irreformabile.
    Pertanto, se proprio si vuole usare la perifrasi "recitò la benedizione" o altre simili, si deve specificare, o almeno intendere ed insegnare, che si tratta della benedizione del pane e del vino, ma non vedo perché correre il rischio di generar confusione ed errore.

    Per ben specificare che si benedice il pane ed il vino, nella Consacrazione (Canone Romano) si legge scritto BENE + DIXIT, col segno della croce fra le coppie delle sillabe: e si legge anche (tra parentesi) che il sacerdote "signat super Hostiam", "super eum [praeclarum calicem]".
    Non mi resta che ringraziare la Redazione per il contributo che ha voluto portare alla precedente discussione.

    Noto cambiamenti nell'impostazione del blog: ma che fatica scrivere e leggere caratteri così  minuscoli!

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  9. Esprimo un plauso de corde al ritorno, in così delicata quaestio su sacri argomenti, dell'esimio prof. Pastorelli, del quale sentivo con rammarico la prolungata assenza.

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  10. Anonimo (come ai vecchi bei tempi)8 gennaio 2010 alle ore 20:43

    Ecco, bravo, bene hai tu fatto a tornare, perché qui stava diventando una ricreazione incessante.

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  11. Ma il blog dev'essere ricreazione dello spirito. Se poi diventa ricreazione nel senso di oscuramento della verità, della razionalità e della buona educazione, è la redazione che ci deve pensare. Noi possiamo solo segnalare.

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  12. Pastorelli...mane nobiscum! Se no mi tocca leggere pigne di libri!
    Matteo Dellanoce

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  13. Leggi, leggi, che ti fa bene.

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  14. Amico vostro e della ventura8 gennaio 2010 alle ore 22:19

    Il punto lasciato non esaminato nel dotto intervento del prof. Costanza è proprio il testo di partenza. La sua traduzione dal greco è ineccepibile (come è chiaro che le polemiche di quei link sono state create a bella posta dalla sguaiatezza dell'interlocutore neocatecumenale).
    Il discorso è però che è del tutto possibile che nella mentalità e dunque nel sottofondo ebraico di quelle espressioni greche ci sia spazio per una considerazione del "benedire" come "un dire bene di Dio", un dire bene di Dio così efficace che ottiene la benedizione della "creatura" che si offre a Lui. Analogamente la cosa funzione con il termine "memoriale": l'azione del ricordo dei benefici operati da Dio è così efficace da ottenerne la sua reale Presenza!
    Attenzione poi a dire: "Non si tratta semplicemente di una traduzione libera, ma di una glossa al testo, un commento liberamente sovrapposto al racconto evangelico. Ed è chiaro che dietro questa proposta di traduzione si cela una precisa linea esegetico-teologica che si vuole applicare alla genuina lettura dei fatti." Con questo discorso sarebbe, nel rito paolino, non si potrebbe più dire "questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi": che regalo ai modernisti!

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  15. <span style="color: #3a3a3a; line-height: 16px;">aro amico vostro, 
    interpretazione suggestiva ma, pur condividendo il fatto che la benedizione di Gesù è da inserire nel contesto ebraico della berakà, tuttavia l'efficacia dell'<span style="font-style: italic;">actio</span> della preghiera eucaristica, non deriva dal 'dire bene di Dio' da parte della creatura o dell'assemblea, ma dal fatto che nella formula consacratoria il sacerdote pronuncia <span style="font-style: italic;">in persona Christi</span> proprio <span style="font-style: italic;">ipsissima verba</span> del Signore ed è Sua l'azione e i conseguenti effetti che esse PRODUCONO...</span>

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  16. vede, Mic,
    come si sono diluiti fino a sparire nella memoria collettiva le verità fondanti della Fede cattolica,
    sopratutto questa che lei ha lumeggiato, cioè che la Parola del Signore FA ciò che dice...?
    Miserando e lacrimevole approdo delle catechesi sempre più  insulse e orizzontali, sempre più vuote di dogmi e fondamenti, e della Liturgia "divulgativa" in forma democratizzata, assembleare, dove con le lingue vernacolari ci si illudeva che tutti avrebbero capito tutto di un Mistero così ineffabile (che gli Angeli adorano in umile silenzio attorno all'altare...) !
    :'(

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  17. Leggo in ritardo le interessanti e garbate osservazioni di AMICO VOSTRO e la precisazione di MIC che condivido. E proprio le parole di AMICO mi confermano nella mia convizione che l'uso di certe perifrasi più o meno generiche al posto del concreto benedisse il pane ed il vino, può alterare il significato della formula consacratoria, al di là della volontà di chi la propone: e divien realtà il pericolo che paventavo della riduzione della Messa da rinnovazione, ripresentazione sacramentale del Sacrificio Redentivo in ebraico zikaron. La conversione della sostanza del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo avviene "vi verborum" che il sacerdote, alter Christus, e con retta intenzione, pronuncia sulle oblate. Il grande amore per Dio, il benedirlo ("dire bene"), il ringraziarlo per i benefici già ottenuti e l'invocarlo per ottenerne altri o sviluppare i primi, non possono in alcun modo realizzare la "presenza reale". Certo, nello zikaron Dio è presente: il popolo ebraico ricorda la liberazione dalla schiavitù d'Egitto,  ne rammenta le sofferenze, benedice il Signore, l'evento storico e l'aiuto di Dio son rivissuti nell'anima, nel flusso della storia, e sono un monito per il futuro, ma quella presenza è soltanto spirituale. La liberazione dall'Egitto non si ripete sacramentalmente.

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  18. Quanto al problema di pericolose glosse, voglio fare alcune considerazioni. Per prima cosa rimarco che la formula della consacrazione riprende sì la Sacra Scrittura, ma non alla lettera: la Chiesa l'ha articolata, senza mutarne l'essenza, in modo icastico per rendere più comprensibile il profondo mistero che avviene sull'altare. Così nella formula della consacrazione del calice troviamo, nel Canone Romano,
    il paolino "mysterium fidei", ch'è un'aggiunta magnifica per sottolineare lo stupore e la professione di fede da parte del sacerdote e, per esso, della Chiesa e dei fedeli presenti, nel grandioso evento della Transustanziazione. Glossa alle parole di Gesù in Matteo 26,26? Sì, ma utilissima.
    Nel Novus Ordo, come ricorda AMICO VOSTRO, nella consacrazione del pane  troviamo "offerto in sacrificio per voi". Sotto l'aspetto sostanziale non è una specificazione che muta il senso delle parole della Scrittura, al contrario esplicita il senso del sacrificio redentivo.
    Non manca chi parla di indebita amplificazione nella versione italiana della formula latina (Hoc est corpus meum quod pro vobis tradetur") che non si rinviene nella francese, nella inglese, nella tedesca. Ma francamente mi sembra una preoccupazione eccessiva e infondata, giacché, in fin dei conti, si viene ad accentuare quel che nell'Offertorio rimane in ombra: l'aspetto sacrificale della Messa.
    Semmai si potrebbe aver da obbiettare su quell' "OFFERTO" che è un participio passato, mentre si sarebbe dovuto tradurre il "tradetur" con "sarà offerto...". E ciò perché la S. Messa è una ripetizione da parte del sacerdote "in persona Christi" di quel che Gesù fece nell'ultima cena, in cui sacramentalmente anticipò la sua Morte di Croce, istituendo il rito che, ricordando i sacri ministri quel ch'Egli fece, si perpetuerà sino alla consumazione dei secoli.

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  19. Vivissimi ringraziamenti al dott. Costanza e al prof. Pastorelli per le loro puntuali ed articolate precisazioni. Abbiamo veramente bisogno d'interpreti così preparati e di retta dottrina.
    La discussione sul "benedixit" mi ha riportato alla mente un episodio in qualche modo attinente. Ho udito un sacerdote e liturgista affermare che, secondo gli studi più recenti ed aggiornati, l'ultima cena che Gesù consumò con i suoi discepoli NON sarebbe stata una cena pasquale ebraica, ma un diverso tipo di pasto. Una simile interpretazione suscita in me una vivissima diffidenza. Cosa ne pensate?

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  20. Boh!  forse era un picnic.

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