Il pensiero che ricorre con insistenza in questo periodo riguarda l'aperta ribellione di buona parte dell'episcopato al Motu Proprio del Pontefice Summorum Pontìfìcum, del 7.7.2007 e comunque a quelle direttive o istruzioni che sembra dare con il Suo Magistero ed esempio fin dalla Sua elezione.
La ragione è da individuare nel nuovo concetto di collegialità.
Dopo il Vaticano II risulta offuscato il significato tradizionale della collegialità, complicando in modo ambiguo il rapporto istituzionale tra i vescovi e il Papa, se non fosse così mai i vescovi contrari alle direttive papali avrebbero osato sfidare apertamente l'autorità del Pontefice. Il fatto è che, piaccia o meno, dopo quella riforma, i vescovi, intesi come coetus riunito in collegio con il Papa, possono considerarsi alla pari del Papa, quanto alla titolarità della summa potestas sulla Chiesa.
Infatti, qual è il concetto essenziale della riforma? A nostro avviso, ne ha dato una concisa e chiara esposizione Romano Amerio in Iota Unum.
Secondo Amerio la nuova collegialità venne introdotta dalla Costituzione conciliare Lumen Gentium all’art. 22. Ma poiché essa sembrava ambigua a molti, venne aggiunta una nota praevia o Proemio (in realtà posteriore) che doveva fornire la giusta interpretazione di quell’articolo per chiarire ogni dubbio.
"La Nota praevia respinge però della collegialità l'interpretazione classica (quella conforme alla tradizione della Chiesa), secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è solo il Papa che la condivide, quando voglia, con l'universalità dei vescovi da lui chiamali a Concilio. La potestà somma è collegiale solo per comunicazione ad nutum del Papa (non lo è di per se, ma solo in seguito ad un comando del Papa, con il quale egli convochi i vescovi in un Concilio ecumenico, per esercitarla assieme a lui e sotto di lui).
La Nota praevia respinge parimenti la dottrina neoterica (nel linguaggio di Amerio, neoterici sono i neomodernisti, penetrati in Concilio), secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante del collegio che egli ha l'obbligazione di consultare per esprimerne il senso. È la teoria improntata a quella dell'origine moltitudinaria dell'autorità (origine democratica, dal basso, dalla moltitudine), difficilmente compatibile con la costituzione divina della Chiesa. Rifiutando l'una e l'altra di queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la potestà suprema è, sì nel collegio dei vescovi unito al loro Capo, ma che il Capo può esercitarla indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può indipendentemente dal Capo".
Questa, dunque, la novità penetrata nell'insegnamento della Gerarchia attuale, novità che sembra situarsi a mezza via tra la dottrina tradizionale e le teorie più rivoluzionarie. In effetti, una potestà suprema del "Collegio dei vescovi unito al suo Capo" non esisteva nella costituzione della Chiesa prima dell'art. 22 della Lumen Gentium. Nel Codice di diritto canonico del 1917, al tempo ancora vigente, non ve n'è traccia (si vedano i codici 218 e 219, che definiscono la figura del Romano Pontefice, e 329, dedicato a quella del Vescovo). Si tratta di una novità indubbiamente rilevante. In precedenza la somma potestà di governo e di insegnamento nella Chiesa era stata sempre riconosciuta jure divino al Sommo Pontefice da solo, non al Collegio dei vescovi, anche se con il Papa sempre a capo.
Ma il fatto che nell'esercizio di questa potestà il Papa sia superiore al Collegio, perché il Collegio non può esercitarla indipendentemente dal Capo, avendo sempre bisogno della sua autorizzazione, mentre il Capo la esercita indipendentemente dal Collegio, non mantiene il Primato del Pontefice evitando così una rottura (dogmatica) con la tradizione? Proprio questo è il punto da stabilire. Il Concilio ha ovviamente affermato di voler conservare il Primato. Ciò risulta esplicitamente dalle dichiarazioni contenute nell' art. 18 della Lumen Gentium. Ma questo non basta, ovviamente. In questa delicata materia non bastano le dichiarazioni di intenti, per quanto sincere. Bisogna vedere come il primato è stato effettivamente conservato, se intatto o meno; se in modo concettualmente limpido, che non contraddica (anche solo in parte) la dottrina precedentemente insegnata.
La supremazia del Papa nei confronti del Collegio dei vescovi riguarda solo l'esercizio della summa potestas o anche (come sarebbe logico) la titolarità della stessa? Infatti, se non ha la supremazia anche nella titolarità della summa potestas, in base a che cosa (ci chiediamo) il Pontefice può esercitare la sua supremazia sui vescovi nell' esercizio della stessa? Ma come può, questa supremazia, ricomprendere (come dovrebbe) anche la titolarità di questa potestà, se quest'ultima è ora attribuita anche all'ordine dei vescovi in unione con il Papa? "L'ordine dei vescovi - recita l'art. 22 della Lumen Gentium - è anch'esso insieme col suo capo, il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice". L'art. 22 precisa qui (anch'esso) perche ha appena richiamato il concetto tradizionale del Primato : "Infatti il romano Pontefice, in forza del suo ufficio, cioè di vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente".
L'estensione al Collegio dei vescovi (con il suo Capo) della titolarità della summa potestas non comporta la diminuzione della superiorità del Papa nei confronti dei Vescovi, introducendo come una fessura nel Primato? E ben più di una fessura, ci sembra. Essa sembra addirittura attribuire la summa potestas a due soggetti distinti, in quanto organi della costituzione della Chiesa : al Papa ut singulus e al Collegio dei vescovi con il Papa, in quanto coetus con il Pontefice come suo capo. Ma una summa potestas, che di per sé è addirittura di origine divina, può esser attribuita a due soggetti, costituzionalmente distinti ed inoltre gerarchicamente subordinati, dato che è il Papa a nominare e disciplinare i vescovi, non questi ultimi il Papa? No, evidentemente. Ciò darebbe origine ad una inaccettabile diarchia, fonte di ogni possibile confusione, concettuale e pratica, nella Chiesa.
Questi ambigui e nello stesso tempo essenziali aspetti delle "riforme" introdotte dal Vaticano II dovrebbero esser chiariti una volta per tutte, per il bene delle anime. Si fa sempre più urgente la necessità di aprire finalmente, nella Chiesa, il dibattito sul Vaticano II. Non ci sembra saggio continuare ad impedirlo trincerandosi dietro la convinzione che tutto è a posto, dal momento che il Papa non è stato subordinato al Collegio episcopale, come volevano i rivoluzionari, i nouveaux théologiens, e ha conservato il Primato, potendo egli esercitare da solo la summa potestas, al contrario del Collegio episcopale. In realtà, la superiorità del Papa non è più come nel passato, ed anzi è diventata meno chiara nel suo fondamento, se la titolarità della summa potestas è ora attribuita anche al Collegio con il Papa.
In conseguenza della nuova posizione costituzionale garantita al coetus vescovile, si è sbiadita in generale l'immagine del Sommo Pontefice quale Vicario di Cristo che esercita unilateralmente il primato. Ragion per cui, un Motu Proprio come il Summorum Pontificum, con il quale il Pontefice ha esercitato il primato ordinando in sostanza ai vescovi di non frapporre ostacoli a coloro che avrebbero richiesto la celebrazione della S. Messa di rito romano antico, è stato accolto dai vescovi stessi con la freddezza e l' atteggiamento di resistenza passiva che sono sotto gli occhi di tutti, dando anzi vita, presso i più audaci, ad una vera e propria ribellione, così come gli altri consigli sul modo di ricevere la Comunione, sulla disposizione del sacerdote all’altare, sulla musica sacra, sulla traduzione del pro multis, ecc.
La ragione è da individuare nel nuovo concetto di collegialità.
Dopo il Vaticano II risulta offuscato il significato tradizionale della collegialità, complicando in modo ambiguo il rapporto istituzionale tra i vescovi e il Papa, se non fosse così mai i vescovi contrari alle direttive papali avrebbero osato sfidare apertamente l'autorità del Pontefice. Il fatto è che, piaccia o meno, dopo quella riforma, i vescovi, intesi come coetus riunito in collegio con il Papa, possono considerarsi alla pari del Papa, quanto alla titolarità della summa potestas sulla Chiesa.
Infatti, qual è il concetto essenziale della riforma? A nostro avviso, ne ha dato una concisa e chiara esposizione Romano Amerio in Iota Unum.
Secondo Amerio la nuova collegialità venne introdotta dalla Costituzione conciliare Lumen Gentium all’art. 22. Ma poiché essa sembrava ambigua a molti, venne aggiunta una nota praevia o Proemio (in realtà posteriore) che doveva fornire la giusta interpretazione di quell’articolo per chiarire ogni dubbio.
"La Nota praevia respinge però della collegialità l'interpretazione classica (quella conforme alla tradizione della Chiesa), secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è solo il Papa che la condivide, quando voglia, con l'universalità dei vescovi da lui chiamali a Concilio. La potestà somma è collegiale solo per comunicazione ad nutum del Papa (non lo è di per se, ma solo in seguito ad un comando del Papa, con il quale egli convochi i vescovi in un Concilio ecumenico, per esercitarla assieme a lui e sotto di lui).
La Nota praevia respinge parimenti la dottrina neoterica (nel linguaggio di Amerio, neoterici sono i neomodernisti, penetrati in Concilio), secondo la quale il soggetto della suprema potestà nella Chiesa è il collegio unito col Papa e non senza il Papa che ne è il capo, ma in guisa tale che quando il Papa esercita, anche solo, la suprema potestà, la esercita in quanto capo appunto del collegio e quindi come rappresentante del collegio che egli ha l'obbligazione di consultare per esprimerne il senso. È la teoria improntata a quella dell'origine moltitudinaria dell'autorità (origine democratica, dal basso, dalla moltitudine), difficilmente compatibile con la costituzione divina della Chiesa. Rifiutando l'una e l'altra di queste due teorie la Nota praevia tiene fermo che la potestà suprema è, sì nel collegio dei vescovi unito al loro Capo, ma che il Capo può esercitarla indipendentemente dal Collegio, mentre il Collegio non può indipendentemente dal Capo".
Questa, dunque, la novità penetrata nell'insegnamento della Gerarchia attuale, novità che sembra situarsi a mezza via tra la dottrina tradizionale e le teorie più rivoluzionarie. In effetti, una potestà suprema del "Collegio dei vescovi unito al suo Capo" non esisteva nella costituzione della Chiesa prima dell'art. 22 della Lumen Gentium. Nel Codice di diritto canonico del 1917, al tempo ancora vigente, non ve n'è traccia (si vedano i codici 218 e 219, che definiscono la figura del Romano Pontefice, e 329, dedicato a quella del Vescovo). Si tratta di una novità indubbiamente rilevante. In precedenza la somma potestà di governo e di insegnamento nella Chiesa era stata sempre riconosciuta jure divino al Sommo Pontefice da solo, non al Collegio dei vescovi, anche se con il Papa sempre a capo.
Ma il fatto che nell'esercizio di questa potestà il Papa sia superiore al Collegio, perché il Collegio non può esercitarla indipendentemente dal Capo, avendo sempre bisogno della sua autorizzazione, mentre il Capo la esercita indipendentemente dal Collegio, non mantiene il Primato del Pontefice evitando così una rottura (dogmatica) con la tradizione? Proprio questo è il punto da stabilire. Il Concilio ha ovviamente affermato di voler conservare il Primato. Ciò risulta esplicitamente dalle dichiarazioni contenute nell' art. 18 della Lumen Gentium. Ma questo non basta, ovviamente. In questa delicata materia non bastano le dichiarazioni di intenti, per quanto sincere. Bisogna vedere come il primato è stato effettivamente conservato, se intatto o meno; se in modo concettualmente limpido, che non contraddica (anche solo in parte) la dottrina precedentemente insegnata.
La supremazia del Papa nei confronti del Collegio dei vescovi riguarda solo l'esercizio della summa potestas o anche (come sarebbe logico) la titolarità della stessa? Infatti, se non ha la supremazia anche nella titolarità della summa potestas, in base a che cosa (ci chiediamo) il Pontefice può esercitare la sua supremazia sui vescovi nell' esercizio della stessa? Ma come può, questa supremazia, ricomprendere (come dovrebbe) anche la titolarità di questa potestà, se quest'ultima è ora attribuita anche all'ordine dei vescovi in unione con il Papa? "L'ordine dei vescovi - recita l'art. 22 della Lumen Gentium - è anch'esso insieme col suo capo, il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice". L'art. 22 precisa qui (anch'esso) perche ha appena richiamato il concetto tradizionale del Primato : "Infatti il romano Pontefice, in forza del suo ufficio, cioè di vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente".
L'estensione al Collegio dei vescovi (con il suo Capo) della titolarità della summa potestas non comporta la diminuzione della superiorità del Papa nei confronti dei Vescovi, introducendo come una fessura nel Primato? E ben più di una fessura, ci sembra. Essa sembra addirittura attribuire la summa potestas a due soggetti distinti, in quanto organi della costituzione della Chiesa : al Papa ut singulus e al Collegio dei vescovi con il Papa, in quanto coetus con il Pontefice come suo capo. Ma una summa potestas, che di per sé è addirittura di origine divina, può esser attribuita a due soggetti, costituzionalmente distinti ed inoltre gerarchicamente subordinati, dato che è il Papa a nominare e disciplinare i vescovi, non questi ultimi il Papa? No, evidentemente. Ciò darebbe origine ad una inaccettabile diarchia, fonte di ogni possibile confusione, concettuale e pratica, nella Chiesa.
Questi ambigui e nello stesso tempo essenziali aspetti delle "riforme" introdotte dal Vaticano II dovrebbero esser chiariti una volta per tutte, per il bene delle anime. Si fa sempre più urgente la necessità di aprire finalmente, nella Chiesa, il dibattito sul Vaticano II. Non ci sembra saggio continuare ad impedirlo trincerandosi dietro la convinzione che tutto è a posto, dal momento che il Papa non è stato subordinato al Collegio episcopale, come volevano i rivoluzionari, i nouveaux théologiens, e ha conservato il Primato, potendo egli esercitare da solo la summa potestas, al contrario del Collegio episcopale. In realtà, la superiorità del Papa non è più come nel passato, ed anzi è diventata meno chiara nel suo fondamento, se la titolarità della summa potestas è ora attribuita anche al Collegio con il Papa.
In conseguenza della nuova posizione costituzionale garantita al coetus vescovile, si è sbiadita in generale l'immagine del Sommo Pontefice quale Vicario di Cristo che esercita unilateralmente il primato. Ragion per cui, un Motu Proprio come il Summorum Pontificum, con il quale il Pontefice ha esercitato il primato ordinando in sostanza ai vescovi di non frapporre ostacoli a coloro che avrebbero richiesto la celebrazione della S. Messa di rito romano antico, è stato accolto dai vescovi stessi con la freddezza e l' atteggiamento di resistenza passiva che sono sotto gli occhi di tutti, dando anzi vita, presso i più audaci, ad una vera e propria ribellione, così come gli altri consigli sul modo di ricevere la Comunione, sulla disposizione del sacerdote all’altare, sulla musica sacra, sulla traduzione del pro multis, ecc.
Non voler sapere chi l'ha detto ma poni mente a ciò ch'è detto
Già. Ma toccherebbe al papa mostrare di essere nel pieno possesso della summa potestas. Se teme di farlo perché potrebbe scoppiare un'aperta ribellione, di fatto ha già rinunciato alle sue prerogative.
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