
Il nostro grande Don Camillo.
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Luigi C.
Ott 26, 2025, Centro Studi Livatino
Il mondo narrativo di Don Camillo di Guareschi mette in scena la tensione tra diritto positivo e coscienza morale attraverso il confronto dialettico tra Don Peppone e Don Camillo. La comunità diventa spazio di negoziazione del giusto, mentre l’ironia funge da correttivo critico del potere. Ne emerge un modello di pluralismo giuridico fondato sul riconoscimento reciproco e sul limite etico della legge.
Introduzione
Nella Bassa Padana, dove il Po scorre lento e le zanzare sono più testarde delle ideologie, si consuma una delle più paradossali guerre fredde della narrativa italiana: quella tra un parroco dal pugno rapido e dalla fede altrettanto muscolosa, Don Camillo, e un sindaco comunista dalla scorza dura e dal cuore meno ateo di quanto vorrebbe far credere, Peppone. Non ci sono salotti intellettuali, né aule parlamentari: qui il diritto si amministra nella piazza, tra una processione e una riunione di partito, tra un funerale e una mozione rivoluzionaria scritta con la biro rossa del Partito.
Guareschi non racconta solo storie paesane: costruisce un laboratorio giuridico e filosofico travestito da commedia popolare. La legge, nei suoi racconti, non è quella dei codici citata in latino, ma quella che nasce nei bar, nelle sacrestie e nei consigli comunali improvvisati. La legalità formale, impersonata da Peppone e dalle sue delibere, si scontra continuamente con la giustizia sostanziale, che Don Camillo invoca guardando un Cristo in croce che, tra un sospiro e una battuta, fa da giudice supremo delle coscienze.
E così, in quel “mondo piccolo”, si combatte la più umana delle battaglie: quella tra ciò che è permesso dalla legge e ciò che è giusto secondo coscienza. Guareschi lo racconta senza mai predicare, affidandosi alla grande arma che solo i veri scrittori e i veri giuristi possiedono: l’ironia come forma alta di verità.
2. Il villaggio come laboratorio giuridico
Il paese immaginato da Guareschi non ha tribunali, corti d’appello o codici annotati. Ha qualcosa di molto più spietato: la gente. In quella comunità, la legge non nasce nei ministeri, ma nei campi, tra una bestemmia e un’Ave Maria, e si applica non con sentenze ma con occhiate, mormorii e strette di mano. È una comunità giuridica primitiva, dove il diritto vive non nei testi ufficiali, ma nella memoria collettiva, fatta di accordi taciti, di “si è sempre fatto così” e di “questa volta chiudiamo un occhio”.
In questo scenario, Peppone entra in scena come un legislatore improvvisato: ha la fascia tricolore, l’ideologia in tasca e la convinzione tutta moderna che la legge sia figlia della maggioranza. Per lui il diritto è un atto pubblico, una delibera, un timbro sul registro comunale, possibilmente accompagnato da un comizio e da una stretta di mano proletaria. È lo Stato che scende in piazza, versione emiliana e con l’odore di lambrusco.
Don Camillo, invece, non delibera: assolve o fulmina, spesso nella stessa giornata. Per lui la legge non si vota: si riconosce. Non viene dall’assemblea, ma dalla coscienza. È un diritto pre-statuale, arcaico e inflessibile, che si richiama più a Mosè che alla Gazzetta Ufficiale. Quando Peppone parla di norme, Don Camillo risponde citando il Vangelo e se non basta, passa direttamente ai fatti, magari con un remo o un ceffone evangelico.
Così, tra una riunione di partito e una benedizione, si consuma il più serio dei dibattiti giuridici mai visti in campagna: chi decide ciò che è giusto? La legge degli uomini o quella delle coscienze? Guareschi non dà risposte. Si limita a mostrare che, in quel piccolo mondo padano, il diritto è un territorio conteso tra il municipio e il campanile.
3. Legge e coscienza: il conflitto tra legalismo e giustizia sostanziale
In quel paese, le delibere di Peppone finiscono spesso affisse sul muro del municipio, stampate in bella copia e timbrate come si conviene a un atto ufficiale. Ma basta che Don Camillo le legga, magari con l’occhiale abbassato sulla punta del naso, perché la legge dello Stato si scontri con un’altra legge, più antica e meno incline alle procedure: la legge della coscienza. E allora il parroco, con quella sua teologia pratica e un po’ ruvida, non esita a dire che ci sono cose che possono essere legali senza essere giuste un concetto che nei codici non c’è, ma che nelle sacrestie si conosce da secoli.
Qui sta l’essenza del conflitto: Peppone è il positivista inconsapevole, convinto che ciò che è stato deliberato è automaticamente legittimo perché votato dalla maggioranza o timbrato da un ufficio. Don Camillo è il giusnaturalista istintivo, persuaso che esista una legge più alta, che non ha bisogno di bolli ma solo di essere riconosciuta — come si riconosce la differenza tra il bene e il male, anche senza aver studiato diritto.
Eppure, sarebbe un errore ridurre la faccenda a una lotta tra lo Stato e la Chiesa. Guareschi non scrive un trattato, ma una commedia umana, e in quella commedia Peppone, nonostante la retorica rivoluzionaria, sa di non poter tutto, perché il consenso del popolo cambia in fretta e la vergogna sociale è più temuta di una multa. Allo stesso modo Don Camillo, pur appellandosi al Vangelo, sa che la giustizia senza un minimo di ordine diventa arbitrio, e che la carità ha bisogno, ogni tanto, di un verbale.
Così, mentre il mondo discute di ideologie, nel paesino sul Po si consuma una lezione di filosofia del diritto fatta di processioni, comizi e pugni sul banco dell’altare: perché il diritto, prima che su carta, si scrive nelle coscienze — e nelle facce della gente che ti guarda mentre esci dal bar.
4. Filosofia politica in pianura: l’avversario, non il nemico
Don Camillo e Peppone passano metà del tempo a minacciarsi e l’altra metà a salvarsi la pelle a vicenda. È una curiosa idea di conflitto: si combatte feroce, ma senza voler distruggere l’altro, perché se davvero uno dei due sparisse, il paese intero perderebbe il suo equilibrio. Peppone ha bisogno del prete per ricordarsi che il potere non è un assegno in bianco. Don Camillo ha bisogno del sindaco per ricordarsi che la fede, se resta chiusa in sacrestia, diventa bigotteria.
Qui Guareschi che non era accademico ma aveva più filosofia sotto il cappello di tanti professori anticipa l’idea moderna di “avversario legittimo”. Non si tratta di volersi bene: si tratta di riconoscere che anche l’altro ha titolo a stare sulla scena pubblica. È una lezione di democrazia detta senza citare Tocqueville o Habermas, ma con una bestemmia di Peppone e una predica di Don Camillo. E, paradossalmente, funziona meglio.
5. Il Cristo parlante: giurisdizione delle coscienze
Nel mezzo di questo braccio di ferro, c’è una figura che non vota, non fa comizi e non firma delibere: il Cristo del crocifisso, che osserva tutto con un misto di pazienza e ironia. Non condanna con trombe d’apocalisse: fa domande scomode, come un giudice che non ha bisogno di codice perché giudica per intuizione morale. A Don Camillo non dice cosa fare: gli ricorda semplicemente quando sta barando con la propria coscienza.
È una giurisdizione interiore, la più severa di tutte, perché non prevede appelli né sconti di pena per buona condotta. Là dove il diritto ufficiale punisce o assolve secondo prova, questa giustizia interiore obbliga a fare i conti con ciò che si è, non con ciò che si appare. Peppone ha il timbro comunale. Don Camillo ha l’acqua benedetta. Cristo ha la verità, che è più leggera di un sorriso e più tagliente di una sentenza.
6. Conclusione: quando l’ironia diventa giustizia
Alla fine, la vera protagonista del Mondo piccolo non è né la Chiesa né il Partito, ma la comunità, che assorbe i colpi, ride, mormora, giudica e perdona. Guareschi, che conosceva bene l’Italia profonda, sembra dirci che la giustizia non nasce solo dalle leggi ma dalla misura delle cose, quella capacità tutta contadina di capire quando una norma è giusta e quando è solo burocrazia vestita a festa.
Ed è qui che entra in gioco l’arma più raffinata: l’ironia. Non quella che deride, ma quella che ridimensiona. L’ironia che ricorda a Peppone che il marxismo non può sostituire il buon senso, e che ricorda a Don Camillo che il Vangelo non è una clava. L’ironia come garanzia costituzionale della proporzione umana, prima ancora che giuridica.
In un mondo dove tutti vogliono avere ragione, Guareschi ci mostra due uomini che litigano per principio, ma si salvano per umanità. Ed è forse la definizione più sincera e più cristiana di giustizia.
Daniele Onori
Bibliografia
Guareschi, Giovannino, Don Camillo, Milano: BUR, 1979
Guareschi, Giovannino, Mondo piccolo, Milano: Rizzoli, 1948
Bobbio, Norberto, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino: Giappichelli, 1960
Zagrebelsky, Gustavo, Il diritto mite, Torino: Einaudi, 2024
Fiandaca, Giovanni & Musco, Enzo, Diritto penale. Parte generale, Bologna: Zanichelli, 2024
Rodotà, Stefano, Diritto d’amore, Roma-Bari: Laterza, 2015
Cattaneo, Michele, Il diritto nella letteratura italiana del Novecento, Roma: Carocci, 2007
Grossi, Paolo, Prima lezione di diritto, Roma-Bari: Laterza, 2025
Sartori, Giovanni, Teoria della democrazia, Bologna: Il Mulino, 2007