Uscito ieri 10 marzo 2021 su LNuovaBussolaQ una bella analisi di Cascioli sull'affaire "Bose/Bianchi-SantaSede" che, in effetti, ci ha lasciati tutti molto sconcertati per la perdurante e inspiegabile segretezza sui fatti e sui motivi che hanno portato allo strappo violento tra le parti, "Come è già accaduto in tante altre occasioni durante questo pontificato".
Qui il recentissimo comunicato della S. Sede (5.3.2021), qui la notizia della partenza di Bianchi da Bose dopo 60 anni (e dopo una battaglia tormentata). Qui i nostri post sulle ultime vicende e su Bianchi.
Roberto
Il caso di Bose rivela l'ambiguità di Roma
La dura battaglia che oppone il fondatore della Comunità di Bose Enzo Bianchi al suo successore Luciano Manicardi è l’ennesima dimostrazione della distanza che esiste in questo pontificato tra la retorica della trasparenza e della giustizia e la realtà fatta di opacità e arbitrio. Così Enzo Bianchi è l’ennesimo caso di personaggio che passa dalle stelle alle stalle, dalla manica di papa Francesco al pubblico ludibrio, in un batter d’occhio e senza che venga mai spiegato il perché.
La vicenda è nota: dopo le dimissioni da priore della comunità di Bose (diocesi di Biella) e la elezione del successore Luciano Manicardi nel gennaio 2017, sono ben presto circolate voci sulle difficoltà di rapporti tra vecchio e nuovo corso nella singolare comunità monastica, che rappresenta un esperimento ecumenico ed è composta sia da uomini che da donne. Il conflitto è venuto allo scoperto con la visita apostolica inviata dalla Santa Sede nel dicembre 2019 e poi con il decreto del 13 maggio 2020 con cui il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin – con approvazione del Papa -, intimava a Enzo Bianchi di allontanarsi definitivamente da Bose.
Successivamente identificata in una casa in Toscana di proprietà della comunità di Bose la destinazione di Bianchi, la situazione è però rimasta in stallo e Enzo Bianchi non si è mai mosso dall’eremo nel terreno della comunità di Bose dove già risiedeva.
La situazione è poi esplosa nei giorni scorsi quando prima il Papa è intervenuto direttamente nella vicenda confermando, alla vigilia della partenza per l’Iraq, il decreto del maggio 2020. E poi con il comunicato di Enzo Bianchi del 5 marzo in cui racconta la sua verità accusando il suo successore di non aver rispettato gli accordi raggiunti con la segreteria di Stato vaticana riguardo alle condizioni del suo trasferimento; e in pratica di volerlo buttare in mezzo alla strada impedendogli anche la vita monastica lontano da Bose.
I toni, da una parte e dall’altra sono molto duri, e costituiscono certamente un ottimo spunto di riflessione sul significato della fraternità (altro concetto tanto predicato a parole quanto disatteso nei fatti), ma non è principalmente questo il motivo per cui ci interessiamo alla “guerra di Bose”. È anche noto che siamo stati sempre molto critici verso questa esperienza monastica e in particolare nei confronti di Enzo Bianchi che tanti danni, con la sua predicazione eterodossa e il suo potere mediatico, ha provocato nella Chiesa italiana e non solo. Non è quindi la simpatia nei suoi confronti o nei confronti dell’esperienza di Bose che ci muove ad interesse.
Quello che invece ci colpisce è la rapidità con cui è passato da favorito del Papa a reprobo. Ricordiamo le tante occasioni in cui è stato ricevuto da papa Francesco, i cui gesti pubblici sottolineavano la grande stima per Enzo Bianchi. Nominato consultore del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani già nel 2014, fino almeno al giugno 2017 è stato indicato come possibile nuovo cardinale ad ogni avvicinarsi di Concistoro; poi, ancora nel 2018 è stato nominato dal Papa uditore dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi sui giovani. Quindi l’improvvisa caduta in disgrazia e l’invio della visita apostolica con tutto quel che ne segue.
Che tutto sia riconducibile al dissidio circa l’esercizio dell’autorità nella comunità di Bose – come dicono i comunicati ufficiali – è francamente poco credibile. La durezza delle sanzioni contro colui che è il fondatore della comunità si possono spiegare soltanto con accuse molto gravi. La mancanza di trasparenza legittima ovviamente qualsiasi tipo di speculazione sulle vere ragioni, cosa che non è giusta nei confronti né della comunità cristiana, che ne è scandalizzata, né di Enzo Bianchi, che non ha la possibilità di difendersi. Se cose gravi sono state commesse è giusto che si apra un processo canonico, come tante volte è stato detto a parole.
Ha giustamente notato il vaticanista Sandro Magister, che a inquietare è il ricorso al “decreto singolare” approvato dal Papa “in forma specifica”, ovvero uno strumento canonico per comminare una pena in modo definitivo e inappellabile. Strumento che con questo pontificato sta diventando una consuetudine, aprendo a una forma di esercizio arbitrario del potere.
Del resto le carriere fulminanti e le altrettanto rapide cadute in disgrazia, tipiche delle rivoluzioni e dei regimi, sono una caratteristica consolidata anche di questo pontificato. I casi dei cardinali Theodore McCarrick e Angelo Becciu sono i più clamorosi: puniti pubblicamente senza che si sia mai arrivati a una verità stabilita davanti a una regolare corte o commissione. In questo modo però rimangono nell’oscurità il sistema e le reti di complicità che hanno portato i singoli ad essere protagonisti di abusi sessuali o di episodi di corruzione.
Un uso così personalistico e arbitrario della giustizia fa nascere il sospetto che si voglia sacrificare una persona – garantendosi così anche gli applausi del popolo a cui è consegnato il colpevole – per salvare il sistema e continuare ad andare avanti come solito. Se si vuole essere davvero credibili nella lotta agli abusi e alla corruzione, ci vuole ben altra trasparenza. Cominciare con Bose non sarebbe male.
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