Una notizia pubblicata ad ora solo dal Corriere della Sera, con un articolo dell’inviato Marco Imarisio.
Dopo un lungo conflitto con la Santa Sede (da ultimo leggi QUI), si è forse conclusa la permanenza del rag. Enzo Bianchi nella comunità monastica di Bose: vi terremo aggiornati.
L.V.
Il monaco lascia la comunità che ha fondato, sollecitato anche da un decreto del Papa. Il dolore dei sui collaboratori più stretti. Le casse per il trasloco caricate su un furgone
MAGNANO (Biella) La cassa di cartone che il volontario carica su un furgone Iveco vale più di ogni conferma ufficiale. Fratel Enzo Bianchi sta lasciando l’eremo nel quale ha trascorso gli ultimi mesi, a poche decine di metri dalla sua creatura, la comunità che aveva fondato nel 1963, eppure mai così lontano, sempre più lontano. Fino a un punto che si sperava non arrivasse mai. Per nessuna delle parti coinvolte in una contesa cominciata ormai quattro anni fa e ancora oggi incomprensibile ai più.
La comunità di Bose
Cosa è o cosa è stata Bose lo sanno tutti, e tutti sanno che è difficile riassumere in poche righe. Una delle comunità più famose e visitate d’Italia e forse d’Europa, formata da monaci di entrambi i sessi che provengono da Chiese cristiane di diversa estrazione e votata al dialogo ecumenico con ogni forma di cristianità. Nasce nel 1963 a Torino, su impulso di un ex ragioniere divenuto monaco sull’onda del Concilio Vaticano II, che guida un gruppo di giovani cattolici e protestanti. Nel 1965 si trasferiscono sulle serre, le alture moreniche che separano la provincia di Torino da quella di Biella, a Bose, in una frazione di Magnano e subito iniziano gli incontri ecumenici. Superano indenni i veti dell’allora vescovo di Biella, e quando nel fatidico 1968 il cardinale di Torino Michele Pellegrino bussa alla porta di quello che all’epoca era solo un cascinale, la legittimazione del nuovo monastero diventa implicita ma reale.
Dopo quasi 60 anni
Sono passati quasi sessant’anni, duranti i quali tutto è diventato più grande, la comunità, che oggi conta più di cento persone, la fama, l’interesse, sono state aperte altre sedi in Italia e a Gerusalemme. Nel 2017 Enzo Bianchi rinuncia alla carica di priore, all’età di 74 anni, lasciandola al suo successore designato da tempo, Luciano Manicardi. Si sposta in un edificio all’esterno del perimetro della comunità, per non interferire. Poi succede qualcosa. All’inizio sono soltanto voci. Nel maggio 2020, in piena pandemia, un decreto della Santa Sede, firmato da papa Francesco, che in occasione del cinquantesimo anniversario della comunità, fissato per convenzione nel 1968, aveva scritto a Bianchi definendo la comunità «una feconda presenza nella Chiesa e nella società», ordina all’ex priore di allontanarsi in modo definitivo. Non è ancora dato sapere la ragione di un provvedimento così duro.
Il decreto
Il «decreto singolare» del Vaticano lasciava intuire una storia di divisioni interne. L’eredità del fondatore, che si era spostato in un eremo poco distante, la sua ombra e il suo carisma potevano essere una presenza incombente, potevano inibire e condizionare decisioni e comportamenti. Per questo era meglio che Bianchi si trasferisse «entro e non oltre dieci giorni dalla notifica» in un’altra sede di Bose, l’eremo di Cellole San Gimignano, in provincia di Siena. Non succede nulla. A gennaio di quest’anno la sede designata per fratel Enzo «con un passo sofferto» dismette la sua appartenenza alla comunità, e viene ceduta «in comodato d’uso» all’ex priore. Come se ci fosse bisogno di un taglio ancora più netto.
L’ultimo termine
L’ultimo termine per il trasferimento viene fissato al 17 febbraio, prima dell’inizio della Quaresima. Il giorno seguente, con un comunicato anch’esso di inedita durezza, la «sua» Comunità prende atto «con profonda amarezza» del fatto che fratel Enzo non è ancora partito. «Lo spostamento a Cellole avrebbe contribuito ad allentare la tensione e la sofferenza di tutti e avrebbe facilitato il lento cammino di riconciliazione e comprensione reciproca. Purtroppo, la mano tesa non è stata accolta». Qualche giorno prima, fratel Enzo aveva scritto in un tweet una frase neppure troppo sibillina, che lasciava capire come ormai ogni ponte fosse stato bruciato. «Silenzio sì, assenso alla menzogna no». La verità sta emergendo, sostiene l’ex priore, una delle figure religiose più conosciute del nostro Paese.
L’addio
Sabato le serre di Biella erano coperte della nebbia e dall’umidità. Il monastero era deserto, in tempi di epidemia i visitatori sono pochi. Da un anno non è più possibile ospitare nessuno per le settimane di meditazione. I frutti dell’enorme orto sono stati regalati alla Caritas, perché non c’era nessun turista a comprarli. La piccola comunità fa notizia solo per questo dissidio lacerante e doloroso. Nessun ospite è autorizzato a parlare. Abbiamo saputo che questo capitolo si chiude con l’addio di fratel Enzo ai suoi luoghi da monaci che raccomandavano l’anonimato, da persone vicine al diretto interessato, e da quelle poche cose in attesa di essere portate via. «Non è un trasferimento, si tratta di un esilio» dice amaro un suo ex collaboratore, che gli vuole bene, come gliene vogliono quasi tutti. Non sta a noi dare giudizi su una vicenda che ha coinvolto anche il Papa. Ma quale che sia la causa del conflitto, sappiamo che non è stato ben gestito, lasciando trapelare voci, illazioni, sospetti, generando tensioni ulteriori. Fino a questa frattura così definitiva. Non è scritto da nessuna parte che le cose belle come Bose possano durare per sempre.
Ormai è una telenovela!
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