Il 12 gennaio scorso è morto il grande intellettuale anglicano inglese Robert Scruton (QUI il sito ufficiale), filosofo e prolifico autore.
Pubblichiamo tre articoli sul Nostro:
- un ricordo dell'amico Marco Respinti (con la bibliografia italiana aggiornata);
- un'interessante analisi di Giuliano Guzzo;
- infine il il Manifesto degli intellettuali conservatori europei, ripubblicato in suo ricordo dagli amici di Campari e de Maestre.
Gesù sarà riconoscente per la buona battaglia da lui combattuta in tutti questi anni.
E anche per la sua passione per vino, fumo, cucina e armi...
E anche per la sua passione per vino, fumo, cucina e armi...
Buon vino, cavalli e libertà. Tutto sul re dei conservatori,
in Libero, 14-01-2020
Il guru dell’“era thatcheriana”, il maggior filosofo conservatore, uno dei massimi pensatori contemporanei. Sir Roger Scruton se n’è andato di domenica, giorno del Signore, come ha vissuto: senza negarsi, come un guerriero. «Non solo aveva il fegato di dire quanto pensava», ha twittato il premier britannico Boris Johnson, «ma lo diceva pure con eleganza».
La sua sessantina di titoli sono una miniera che scaveremo a lungo: la filosofia teoretica e la morale, la politica e l’estetica, la composizione musicale e la critica, l’architettura, l’amore e il sesso, sempre controcorrente ma senza vezzi, per vocazione. Quando era fashionable dirsi gauchiste, rifondò il conservatorismo. Studiando a Parigi, da quei balconi bohémien osservò il Sessantotto: imboccò allora la strada diritta, ma a marcia inversa.
Corresse la propria formazione analitica (il Circolo di Vienna, Ludwig Wittgenstein) con la tradizione e ripescò sia il magistero settecentesco di Edmund Burke sia il maestro novecentesco T.S. Eliot andando oltre. Qui incrociò Russell Kirk, il più tory degli intellettuali della Destra americana, interprete di Burke e allievo (e amico) di Eliot: l’americano Kirk aveva rilanciato il conservatorismo negli anni 1950 e l’inglese Scruton salutò in lui il miglior discepolo americano che il padre nobile del conservatorismo, l’irlandese Burke, avesse mai avuto.
A quello che sarebbe stato il thatcherismo Scruton fornì un arsenale acuminato; e se il thatcherismo una differenza l’ha fatta, in buon parte lo si deve proprio a lui. Ma Scruton si scrollò presto di dosso anche quell’etichetta, stretta come lo sono tutte le briglie politichesi al collo di uno spirito magno che non ha tempo per le minuzie - quantunque sappia che il diavolo (e Dio) sta nei dettagli -, giacché il suo cuore pompa generoso come quello di un cavallo. E infatti a un certo punto, negli anni 1990, prese casa in una tenuta nel Wiltshire, la Sunday Hill Farm, allevando e montando cavalli con la moglie Sophie, madre dei suoi due figli, Sam e Lucy.
Lì maturò appieno, generando romanzi intriganti, riflettendo sulla crisi perenne dell’uomo, attaccando la debolezza complice con cui l’Occidente si è scordato di sé. Non credeva nell’Europa burocratica ed economicista pur difendendo il libero mercato e l’ethos europeo; tuonò contro l’islamismo; sbertucciò il pansessualismo che travolge eros, filia e agape; coltivò una “trasandatezza sobria”: fumo, vino, cuisine, gli inviolabili diritti del cacciatore (e delle prede a essere cacciate), la cura antiecologista del creato.
La chiave di tutto è stato il suo prender di petto la matrice di ogni stortura, il relativismo: che non è una cosa per addetti parrucconi ai lavori, ma l’idea che nulla ha valore, neanche il non avere valore nulla. Non bisogna essere filosofi, o religiosi, per scorgervi il suicidio dell’umano, ma pochi hanno reagito come Sir Roger indicando la via di uscita nella fede religiosa, l’unica capace di ridare un senso, verticale, a tutto. Non era un baciapile, Scruton. Lo animava un senso del sacro maschio, diretto e contagioso che sapeva odorare nella natura senza panteismi, negli anfratti delle cose, in tracce che altri non vedevano.
Nacque nel 1944. Dal 1971 cominciò a insegnare Filosofia al Birkbeck College dell’Università di Londra e poi in decine di altri atenei di mezzo mondo. Nel 1974 creò il Conservative Philosophy Group, un circolo simile a quello degli Inklings tolkieniani per discutere di filosofia e politica: lo frequentò anche Maggie Thatcher. Nel 1982 fondò The Salisbury Review, che diresse fino al 2001, un trimestrale raffinato e al contempo scanzonato con pochi pari in Albione, che gli sopravvive. In Europa Orientale è stato un faro illuminante per la generazione che, uscita dalle grinfie del dio che ha fallito, il comunismo, ha ricostruito patrie e spiriti. I suoi ultimi viaggi sono stati infatti a Praga e in Polonia per ricevere gli ultimi riconoscimenti, per salutare gli amici sotto la larga tesa di quel suo cappellone bianco, ora che il cancro gli aveva divorato persino la proverbiale chioma rossa da “Robert Redford della filosofia”.
Nel 20016 la Corona lo ha creato “Sir” per i servigi resi alla filosofia e all’insegnamento. L'Italia lo ha scoperto un po' tardi, ma bene. È comparso così su Il Foglio, Tempi, Libero e altri. Adesso lo si può approfondire con Guida filosofica per tipi intelligenti (Cortina, Milano 1997), L’Occidente e gli altri (Vita e Pensiero, Milano 2004), Manifesto dei conservatori (Cortina, 2007), Gli animali hanno diritti? (Cortina, 2008), Bevo dunque sono. Guida filosofica al vino (Cortina, 2010), Il bisogno di nazione (Le Lettere, Firenze 2012), Essere conservatore (D'Ettoris, Crotone 2015) e Sulla natura umana (Vita e Pensiero, 2018).
I suoi luoghi e il suo mondo diverso li aveva ribattezzati «Scrutopia», ma era allergico alle illusioni. Credeva semplicemente che fosse possibile un tempo diverso. Un cavaliere in un'epoca orba della cavalleria.
Marco Respinti
13-01-2020
Muore a 75 il filosofo Roger Scruton. Aveva un peccato originale imperdonabile agli occhi della cultura dominante: ne era fuori. Ha indicato i nemici dell’Occidente: islamismo e relativismo. E come antidoto ha proposto la riscoperta della nostra religione. Ha visto prima di tutti i danni del pensiero unico e della distruzione della famiglia risvegliando la cultura occidentale dal suo torpore autodistruttivo.
Filosofo, scrittore, consigliere del governo, avvocato, romanziere, giornalista, compositore, perfino esperto di vini. È quasi impossibile elencare tutte le cose che Roger Scruton (1944 –2020), il grande pensatore conservatore mancato ieri all’età di 75 anni, è stato. E già questo basterebbe a suggerire il profilo, davvero immenso, di un uomo che ha segnato profondamente la cultura degli ultimi decenni; di certo l’ha segnata molto di più di quanto i grandi media sapranno e abbiano saputo dar conto.
Sì, perché Scruton aveva un peccato originale imperdonabile agli occhi della cultura dominante: ne era fuori. Non solo. Quest’uomo di natali rurali (veniva dal Lincolnshire ed era figlio di un insegnante), ha saputo affermarsi come un pensatore di primo livello dimostrando che si può esser brillanti e fuori dal coro, coltissimi e liberi dal conformismo accademico. Tra i tanti meriti che egli ha avuto, c’è stato quello di indicare senza mezzi termini, chiamandoli per nome, i nemici odierni dell’Occidente: islamismo e relativismo.
Con riferimento a quest’ultimo, va ricordato come il filosofo inglese abbia saputo brillantemente condensare, talvolta con battute fulminanti, dal sapore quasi chestertoniano, i paradossi del relativismo. Come quando ha affermato: «Se qualcuno ti dice che non ci sono verità, o che la verità è solo relativa, ti sta chiedendo di non credergli . E allora non credergli».
In Manifesto dei conservatori (Raffaello Cortina, 2006), si è spinto ad indicare proprio nella fede religiosa un antidoto al relativismo e all’idea che non esistano più punti fermi. «Riscoprire la nostra religione», scrisse «non è liberarsi dell'ordine temporale. Al contrario. Significa entrare più profondamente nella storia, in modo da trovare in ciò che è puramente transitorio il marchio e il segno di ciò che non finisce mai». Si deve inoltre riconoscere a Scruton di aver saputo denunciare la portata sovversiva del pensiero unico.
Mirabili per chiarezza, ad esempio, sono state le sue parole sulla lotta in corso ai danni della famiglia: «La famiglia è denunciata come una fonte di oppressione o come una istituzione patriarcale dedita alla subordinazione delle donne. La guerra intellettuale alla famiglia è un prodotto dell’ultima parte del XX secolo. La famiglia è diventata un’istituzione sovversiva in guerra con la cultura sponsorizzata dallo stato». A proposito della guerra culturale contro la famiglia, il pensatore inglese seppe riconoscere, lui anglicano, il ruolo chiave della Chiesa cattolica: «Va a credito della Chiesa cattolica il fatto di rifiutarsi di blandire l’autoindulgenza contemporanea».
Rimase molto male per le dimissioni di papa Benedetto XVI, che interpretò come un segnale preoccupante non solo per la Chiesa. «Il cattolicesimo», disse, «è stato intimidito. Quello che Giovanni Paolo II chiamava ‘odio di sé’ io lo chiamo ‘cultura del ripudio’». Pur non essendo cattolico, insomma, seppe osservare da vicino - e con straordinario acume – le vicende della Chiesa, al cui ruolo di guida morale guardava con non comune rispetto.
In conclusione, quel che va sottolineato – ed è forse già intuibile anche da questo articolo - è che Scruton non è affatto stato un conservatore per il gusto di esserlo o per partito preso. Tutt’altro. Egli è giunto alle sue posizioni dopo aver visto in prima persona gli effetti sconvolgenti dell’onda lunga del ’68 sull’Europa e sull’Occidente. Ed ha cercato in tutta la sua opera, fatta di volumi, conferenze, e prese di posizione coraggiose, di risvegliare la cultura occidentale dal suo torpore autodistruttivo, invitandola a riscoprire una bellezza valoriale che lui ha apprezzato fino all’ultimo, nonostante il cancro che in una manciata di mesi se l’è portato via. In un uno dei suoi ultimi articoli ha infatti scritto che è solo «avvicinandoti alla morte che inizi a capire cosa significa vita e cosa significa gratitudine».
di Alessandro Rico
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Alcuni di voi avranno notato che pochi giorni fa, su Il Giornale, Luigi Iannone ha rilanciato il manifesto per la “vera Europa” sottoscritto da alcuni importanti intellettuali liberali e conservatori, tra i quali Roger Scruton, Pierre Manent e Robert Spaemann. Ecco il link ai 36 punti del Paris Statement.
Si tratta di una delle iniziative più importanti e stimolanti, anche per il suo respiro internazionale, che la destra europea abbia intrapreso finora (prendendo forse finalmente coscienza di sé). Le questioni sollevate nello scritto sono molte e molto complesse, ma vorrei trasmettervi un breve commento su alcuni punti salienti.
In primo luogo, è interessante che gli autori del manifesto contrappongano l’idea di una “vera Europa” a quella di una “falsa Europa”, fondata sul dominio di una tecnocrazia irresponsabile, votata a un’utopia multiculturale e appiattita sulla retorica della globalizzazione e sulle «superstizioni del progresso inevitabile». Per questo gruppo di intellettuali, l’Europa è minacciata «da una falsa comprensione di sé».
In secondo luogo, Scruton e gli altri sostengono che la vera essenza dell’Europa sia di essere una «comunità di nazioni»: il superamento dello Stato nazionale attraverso la creazione di organismi sovranazionali è solo un modo per allentare l’esercizio dei meccanismi di controllo democratici da parte degli elettorati. L’Europa è stata tanto più spiritualmente florida e culturalmente unita quanto più è stata suddivisa in una serie di Stati nazionali concorrenti. Queste entità politiche si sono spesso combattute anche duramente, ma non hanno mai perso la consapevolezza di appartenere a un’unica grande famiglia culturale. Peraltro, l’articolazione politica del continente, che ha consentito di oltrepassare la forma dell’impero (la quale pure aveva permesso di cementare quella unità spirituale che l’Europa non ha mai abbandonato), è all’origine dello ius publicum europaeum che, come ha sempre sostenuto Carl Schmitt, ha a lungo di incanalato e contenuto l’inimicizia tra gli Stati (non tra i popoli!), fino alla crisi di tale diritto internazionale moderno, esplosa drammaticamente con la comparsa delle “guerre totali”.
In terzo luogo, gli autori del manifesto condannano la falsa idea di libertà basata sul soddisfacimento immediato dei capricci edonistici (se non delle perversioni) che la postmodernità ci ha venduto. La liberazione dalle forme di «auto-controllo», nel campo del sesso o delle relazioni interpersonali e sociali, ha solo accresciuto l’insoddisfazione e il senso di solitudine di individui privati del loro orizzonte comunitario. È in questo vuoto che la globalizzazione ha lavorato ad alimentare l’atomizzazione, mentre un falso egualitarismo ci ha portato a respingere ogni manifestazione di gerarchia sociale. Al contrario, gli intellettuali della “vera Europa” propongono di ritornare dal sapere tecnico alla «saggezza», cioè a una naturale divisione dei ruoli fondata non tanto sulla certificazione asettica delle competenze, quanto sulla consapevole accettazione delle responsabilità che ciascuna funzione comporta. Per usare una formula ormai fuori moda: My stance and its duties.
Un quarto punto è l’assoluta primazia che questi intellettuali attribuiscono alla nostra comune eredità cristiana, condannando invece la chimera del multiculturalismo. Il punto è che quest’ultimo o coincide con una spersonalizzazione (o una colonizzazione) delle nostre comunità, oppure implica una volontà di coercizione e assimilazione nei confronti dei gruppi che ci fregiamo di accogliere. E probabilmente è con questa «cattiva coscienza» che le élite, secondo i sottoscrittori del Paris Statement, ci stanno imponendo l’agenda multiculturalista: sono falsamente e maliziosamente convinte che prima o poi gli immigrati accetteranno i nostri costumi e le nostre tradizioni politiche. Si sbagliano. Non si rendono conto che il multiculturalismo o sancirà la scomparsa della nostra, di cultura, o accrescerà esponenzialmente la conflittualità delle nostre società (e i due esiti non sono incompatibili tra loro).
Un quinto aspetto fondamentale è l’opposizione all’universalizzazione della logica di mercato. L’economia libera ha comportato enormi vantaggi e ha garantito al nostro mondo un sistematico vantaggio sui concorrenti, ma «non possiamo consentire che tutto sia in vendita». Secondo gli autori del manifesto, il buon funzionamento del mercato richiede un rafforzamento delle istituzioni giuridiche (rule of law, che potremmo tradurre con la formula non del tutto esaustiva di “supremazia del diritto") e sociali che non operano in base alle logiche di mercato.
In ultima istanza, vorrei sottolineare il giudizio che gli autori esprimono sul populismo. Pur biasimando il ricorso a «slogan semplicistici» e ad «appelli emotivi divisivi», costoro riconoscono che questo fenomeno politico rappresenta una «sana ribellione» contro il fallimento delle élite, del «fanatismo di centro» e della falsa idea di Europa. Naturalmente, le istanze del populismo vanno interpretate. Esso è destinato a fallire se si limiterà a invocare la scomparsa delle élite. Come insegnano teorici politici del calibro di Gaetano Mosca, il governo sarà sempre oligarchico (ci saranno sempre pochi che governano e molti che sono governati). Le élite non spariranno mai; quello che bisogna ottenere, piuttosto che la loro soppressione, è il miglioramento dei meccanismi di selezione e ricambio delle classi dirigenti. Ma di questo potremo parlare in una successiva occasione.