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mercoledì 10 luglio 2019

Tolkien: inglese, professore, cattolico


Un'intervista dell'amico Ivo, dal sito dell'Università Cattolica,  sul nostro grande J.R.R. Tolkien il creatore de Il Signore degli Anelli e grande estimatore della Messa Tridentina: vedere QUI MiL.
Luigi



Ivo Musajo Somma | 30 maggio 2019


J.R.R. Tolkien (1892-1973), soprattutto per le recenti versioni cinematografiche delle sue opere principali, è entrato in qualche modo a far parte della cultura popolare, con il conseguente rischio di banalizzarlo riducendolo a semplice “autore di libri fantasy” o di piegare la sua opera ai dogmi del relativismo contemporaneo. Ne parliamo con Guido Milanese, professore ordinario di Lingua e letteratura latina e docente di Cultura classica e Letteratura comparata presso la Facoltà di Scienze linguistiche dell'Ateneo.


Professore, qual è a suo avviso il profilo culturale autentico dell’opera di Tolkien?
Credo che la chiave di lettura essenziale per accostarsi a Tolkien consista in un dato composito: Tolkien era un linguista, un padre, un professore ed era tutte queste cose in quanto cattolico. Era un linguista vero, uno di quelli che sanno le lingue, e sapere le lingue sul serio significa ascoltare le parole, il suono, le forme. Tolkien creava attraverso le lingue che conosceva. Si è detto tante volte, ed è vero, credo, che il suo raccontare nasce dalla volontà, forse dalla necessità, di far parlare a qualcuno le lingue che si era costruito – insomma un mondo che nasce perché qualcuno parli quelle lingue. Era un padre, uno che davvero amava raccontare favole e storie ai suoi bambini; era un professore noto per il modo trascinante con cui leggeva in classe i testi delle amatissime lingue dell’Inghilterra pre–normanna, l’Inghilterra anglosassone; quando spiegava il Beowulf venivano a sentirlo anche studenti che dell’antico inglese ben poco capivano.



Una delle dimensioni più profonde della personalità di Tolkien fu proprio la sua sincera adesione alla fede cattolica. Si può definire Tolkien un grande autore cattolico del Novecento?


Appunto, come dicevo prima, era un cattolico: un padre cattolico, un professore cattolico… cioè un uomo che pensava, e sentiva, il mondo come un luogo dotato di senso, un mondo verso il quale il Principio ha interesse, nel senso proprio di inter-esse, esserci in mezzo. Non so se Tolkien conoscesse Manzoni; ma credo che nel «la c’è la Provvidenza» di Don Lisander si sarebbe riconosciuto. Ovviamente questo dato è passato sotto silenzio dal mainstream corrente. Pensi solo al disastro di Notre-Dame: l’arcivescovo di Parigi ha fatto presente come in tanti interventi pubblici, anche apprezzabili, non fosse minimamente presente un dato appena un po’ importante, cioè che l’edificio medievale andato a fuoco è una chiesa cattolica; “cattolico” non è una brutta parola, ha detto l’arcivescovo… Nel caso di Tolkien, si apprezza il narratore, alle volte anche lo studioso, ma lo si proietta in una religiosità neutra, cioè vuota. Con il risultato di non capire più nulla: la dimensione della Provvidenza, come si diceva, il senso della vocazione personale che si fa carne solo nell’accettazione del senso della vita (perché altrimenti diventa una folle prigione), il dramma della non–redenzione di Gollum. Non è un “fantasy” per effetti speciali: è il dramma, terribile e splendido, della vocazione di ciascuno di noi. Se si elimina il fondamento, nascosto ma palese, della mitologia di Tolkien, si ha un’epica impazzita, e nasce quel “tolkienismo” senza Dio che per opporsi alle ideologie del mainstream diventa a sua volta una forma di ideologia, e alquanto perversa.


Tolkien tipico professore di Oxford della sua epoca, visceralmente “inglese”, sospettoso verso gli Americani; trova orribile che un ottavo della popolazione mondiale già a quel tempo, a quanto aveva sentito dire, parlasse inglese: «Se è vero, che vergogna – dico io. Che la maledizione di Babele possa colpire le loro lingue in modo che possano dire solo “baa baa”». Intravedeva – e coerentemente giudicava – i primi segni del mondo in cui viviamo?

Comincerei dalla visione “inglese”, non “britannica”, di Tolkien. Il mondo che egli amava era in realtà quello dell’Inghilterra precedente il 1066, l’arrivo dei Normanni; e non apprezzava in modo particolare la letteratura inglese. C’è una spruzzata di "little England" in Tolkien… ed è un tratto certamente curioso della sua personalità che si capisce se si conosce un po’ del mondo inglese lontano da Londra; che è poi il mondo inglese non londinese che ha portato alla Brexit. Il rapporto di Tolkien con l’America e gli americani è a tratti alquanto buffo – sembra di sentire la Dowager Countess di Downton Abbey – anche quando parla con una qualche nostalgia del mondo di Jane Austen in una lettera del 1944 al figlio Christopher. Ma nel suo “antiamericanismo” Tolkien (identitario, cattolico, critico della modernità) intravvede la globalizzazione delle culture, cioè l’omologazione in una non-identità. Guardi che Tolkien era tutt’altro che un isolato dal mondo; contro il razzismo nazista scrive in modo sprezzante, e negli anni ’40 capisce che il pericolo di un imbarbarimento anche in Inghilterra, causato dalla guerra, esiste. Forse vedeva un po’ troppo in là; in generale, per chi capisce le cose (o le intuisce, per un tipo come Tolkien), il destino è quasi sempre segnato: quando si affermano certe verità non si è presi sul serio e spesso si è messi in ridicolo; quando poi il “quadro” previsto si verifica, chi ne aveva parlato in anticipo viene accuratamente cancellato dalla memoria, e i cantori della contemporaneità (che non avevano capito niente del processo in corso) sono felicissimi di illustrare le loro profonde interpretazioni di ciò che sta avvenendo. Il segno di questa omologazione dove tutti sono nulla è una non-lingua, la lingua del “baa baa” evocata da Tolkien.


È atteso a settembre anche in Italia, dopo l'uscita nelle sale inglesi e americane, un film sugli anni giovanili di Tolkien[1], che si aggiunge ai film di Peter Jackson, sui quali i giudizi sono stati diversi. Qual è il suo parere al riguardo?


Tolkien non aveva rifiutato l’idea di un adattamento cinematografico della sua opera, anzi si era impegnato a lungo nel progetto, pur fallito all’epoca. Un adattamento cinematografico è una traduzione, e ovviamente tutte le traduzioni perdono qualcosa e la necessità del mezzo modifica l’equilibrio compositivo. Pensi, in un altro campo, a una trascrizione per pianoforte di una sinfonia o di scene d’opera, alla Listz, o, al contrario, all’orchestrazione di opere nate originariamente per pianoforte, com’è il caso dei Quadri di un’esposizione. A me l’adattamento cinematografico del Signore degli anelli di Jackson piace molto; l’ambiente neozelandese è splendido, molti attori sono di alto livello, la musica è ben scritta ed eseguita. La versione cinematografica de Lo Hobbit mi piace decisamente meno. Sul film biografico in arrivo, ne parleremo quando sarà disponibile. Ho visto solo il trailer; temo aria di politically correct, ma vedremo.



Un paio di consigli di lettura che aiutino ad accostare l’opera e il suo autore in maniera più consapevole…
Le Lettere, prima di tutto[2]. Si capisce davvero qualcosa di quest’uomo così complesso ed ingenuo, coltissimo e semplice. Poi, per chi se la sente, il volume che raccoglie i saggi più importanti di Tolkien professore, The Monsters and the Critics[3], e infine la biografia di Humphrey Carpenter[4]. Come opera di consultazione, la Tolkien Encyclopedia[5], non tradotta in italiano fino ad ora. Poi, delle altre opere di Tolkien, certamente il Silmarillion[6]: da questo libro, ricavare un film è proprio impossibile.

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