Prima parte della Lectio QUI
I QUATTRO SACRI NOMI DELL’UNIGENITO DI DIO.
Insistiamo allora a penetrare nei misteri della Trinità, così come
ce li hanno scoperti san Bonaventura e san Tommaso nel
1260-70 circa, alla Sorbona, dove erano apprezzati docenti.
In realtà noi qui ci riferiremo a san Tommaso, più strutturato
del Francescano, anche se questi fu il primo a fare le
scoperte di cui si parlerà.
Dunque, cosa nasce nella Mente del Padre dell’Essere?
Nasce l’Unigenito, Colui che noi abitualmente chiamiamo Logos, o Seconda Persona della ss. Trinità.
I due Santi riconoscono a tale Persona quattro precisi Nomi, o qualità sostanziali, cioè qualità necessarie, non accidentali.
Se dall’Unigenito dipendono tutte le cose, v. Col 1,16: « Tutte le cose sono state create per mezzo di lui », tutte le cose dipenderanno precisamente da tali sue qualità sostanziali, o Nomi. Vediamoli uno per uno:
Primo Nome: Immagine, o Imago, o Volto, o Species (e san Tommaso traduce ‘species’ ‘bellezza’, vedi S. Th., I, 39, 8): beninteso, non un’immagine confusa, ma il preciso Riflesso, o Specchio, o Copia di ciò che è il Padre, la Mente-Persona che pulsa e pensa, perché ciò che viene generato dalla Mente è in primo luogo, come sottolineerà padre Carbone in L’uomo immagine e somiglianza di Dio, ESD 2003, la copia fedele, di natura, del Generante.
Secondo Nome: Pensiero, o Logos, o Verbum, o Parola; non un pensiero astratto, alla Hegel, cioè biecamente idealista, ma, generato com’è dalla Realtà del Padre, sommamente realistico, e vedremo poi che Pensiero è; per ora constatiamo che il secondo Nome è Pensiero perché ciò che Dio, essere spiritualissimo, può generare, dev’essere spirituale come il Principio Generante, e il Pensiero, o Intelletto, che astrae, è un ente spirituale.
Terzo Nome: tutto ciò, però, Dio stesso – sempre in un senso del tutto spirituale – deve pur vederlo: Dio deve pur vedere, in Sé, e il Generato, e il Generante, e il Motore, per così dire, della generazione, lo Spirito Santo; tale visione è data da Splendore, o Splendor, o Claritas, Chiarezza, o Lux, Luce, che il Verbum, per la sua cristallina purezza, in Se stesso è. Come da uno scrigno – la mente è uno scrigno – gli ori e le ricchezze sprigionano e irradiano luminosità, candore, fulgore, chiarezza, magnificenza, sfarzo, grandiosità, sontuosità, fasto, bellezza massimi, così è il Logos, l’oro dello Scrigno che è la Mente del Padre: il Logos non solo è oro, non solo si identifica come oro per via del suo Volto, o Immagine, ma anche si vede, abbaglia e irraggia da oro (per via di Lux, o Splendor).
Quarto Nome, infine, essendo tutto ciò non da sé, ma per venir generato dal Principio che è la Mente (v. Gv 1,1), l’Unigenito ha nome Figlio, Filius, o Diletto, perché il Padre si compiace di tale suo splendente Logos che in tutto Lo riflette.
Nasce l’Unigenito, Colui che noi abitualmente chiamiamo Logos, o Seconda Persona della ss. Trinità.
I due Santi riconoscono a tale Persona quattro precisi Nomi, o qualità sostanziali, cioè qualità necessarie, non accidentali.
Se dall’Unigenito dipendono tutte le cose, v. Col 1,16: « Tutte le cose sono state create per mezzo di lui », tutte le cose dipenderanno precisamente da tali sue qualità sostanziali, o Nomi. Vediamoli uno per uno:
Primo Nome: Immagine, o Imago, o Volto, o Species (e san Tommaso traduce ‘species’ ‘bellezza’, vedi S. Th., I, 39, 8): beninteso, non un’immagine confusa, ma il preciso Riflesso, o Specchio, o Copia di ciò che è il Padre, la Mente-Persona che pulsa e pensa, perché ciò che viene generato dalla Mente è in primo luogo, come sottolineerà padre Carbone in L’uomo immagine e somiglianza di Dio, ESD 2003, la copia fedele, di natura, del Generante.
Secondo Nome: Pensiero, o Logos, o Verbum, o Parola; non un pensiero astratto, alla Hegel, cioè biecamente idealista, ma, generato com’è dalla Realtà del Padre, sommamente realistico, e vedremo poi che Pensiero è; per ora constatiamo che il secondo Nome è Pensiero perché ciò che Dio, essere spiritualissimo, può generare, dev’essere spirituale come il Principio Generante, e il Pensiero, o Intelletto, che astrae, è un ente spirituale.
Terzo Nome: tutto ciò, però, Dio stesso – sempre in un senso del tutto spirituale – deve pur vederlo: Dio deve pur vedere, in Sé, e il Generato, e il Generante, e il Motore, per così dire, della generazione, lo Spirito Santo; tale visione è data da Splendore, o Splendor, o Claritas, Chiarezza, o Lux, Luce, che il Verbum, per la sua cristallina purezza, in Se stesso è. Come da uno scrigno – la mente è uno scrigno – gli ori e le ricchezze sprigionano e irradiano luminosità, candore, fulgore, chiarezza, magnificenza, sfarzo, grandiosità, sontuosità, fasto, bellezza massimi, così è il Logos, l’oro dello Scrigno che è la Mente del Padre: il Logos non solo è oro, non solo si identifica come oro per via del suo Volto, o Immagine, ma anche si vede, abbaglia e irraggia da oro (per via di Lux, o Splendor).
Quarto Nome, infine, essendo tutto ciò non da sé, ma per venir generato dal Principio che è la Mente (v. Gv 1,1), l’Unigenito ha nome Figlio, Filius, o Diletto, perché il Padre si compiace di tale suo splendente Logos che in tutto Lo riflette.
Per inciso, andrebbe rilevato qui che da allora, in sette secoli
e mezzo, nessuno si occupò più di questi Nomi: non se
ne avvide neanche Umberto Eco, che pur aveva fondato la
sua fortuna di semiologo sulla sua celebre tesi di laurea Il problema
estetico in san Tommaso d’Aquino, più volte ristampata.
Solo von Balthasar, dalle mie ricerche, ne prese nota in quattro
paginette del secondo volume di Teologica.
Nessuno però vi ha mai impostato intorno un’Estetica.
Nessuno però vi ha mai impostato intorno un’Estetica.
Se ne accorse mons.
Antonio Livi, che, Preside di Filosofia alla Lateranense, mi
volle per tre anni al suo Corso di Filosofia della Conoscenza,
e il mio Ingresso alla Bellezza fu libro di testo del suo Corso.
TRE PRIME CONSIDERAZIONI.
Fissiamo ora in tre considerazioni il percorso fatto fin qui.
- prima considerazione: l’associazione dei due Nomi Splendor
e Filius esalta in quest’ultimo, che, secondo quel che dice la
Scrittura: « Mio Figlio sei tu, oggi io ti ho generato! » (Sal 2,7),
presenta l’aspetto precisamente generativo del Verbo, quello
che potremmo definire il suo carattere di evento, di eternante
novità; ed esalta poi nel primo, Splendor, caricato dell’aspetto
di irradiante e luminosissima solarità di Imago, il sentimento di
meraviglia rappresentato o suscitato da lui; dunque in esso esalta
il plauso, la gloria, potremmo quasi dire il compiacimento
per l’eternata aurora espressa in Filius, come canta il Salmo:
8
« Dal seno dell’aurora, come rugiada io ti ho generato » (109,5);
- seconda considerazione: la tomistica ‘Condizione di Bellezza’
(« Pulchrum est quod visum placet », “Bello è ciò che, visto,
piace”, S. Th., I, 5, 4, ad 1) è data da ciò che, percepito, allieta,
ossia: è sufficiente che un oggetto sia percepito, o visto,
per verificare se e quanto allieti.
Ora, sapendo che i Nomi
dell’Unigenito sono la Fonte di tutte le cose, per capire in che
modo essi siano ‘Origini della Bellezza’, a sua volta causa del
diletto, della gioia, e dunque del nostro sorriso, sarà sufficiente
accostare i due Nomi visti, Splendor (o Lux) e Filius, a questa
tomistica ‘Condizione di Bellezza’, al « quod visum placet »;
- terza considerazione: scomponendo soggetto e predicato di
questa ‘Condizione di bellezza’, ci si chiede: quale sarà, in
primo luogo, per quanto riguarda il soggetto (« quod visum »),
ciò che sopra ogni altra cosa un intelletto ricerca e scruta in
un ente per soddisfare la propria sete di conoscenza?
È senz’altro ciò che quell’intelletto non ha mai visto, ciò che vede per la prima volta, ciò che per esso è una novità.
Pensate alle reazioni di gioia e stupore dinanzi a un miracolo.
Ma essere una novità, una bella notizia, un euvangelium, è proprio ciò che ci viene assicurato di Filius dalla prima considerazione nella risultanza dei due nomi Splendor e Filius, dove abbiamo visto che essi sono la raggiante Aurora dell’Essere, ma cosa c’è di più bello e poetico di un’aurora per dire “novità”, e anzi “bella novità”? Nel predicato « placet », poi, riscontriamo il sentimento di plauso, di letizia, di gaudio, oltre che di interiore felicitante serenità, e questi sentimenti vivi, lieti e sorridenti – il Padre chiama il Figlio « Diletto » –, sono riconoscibili ancora nel Nome Splendor, il Sole dell’aurora che esalta l’eterna positività dell’Essere in ciò che dobbiamo chiamare, per tale congenita positività, la più intima e profonda “sorridenza” di un “Sì”.
Per cui ognuno dei due segmenti della ‘Condizione di Bellezza’ (« quod visum » da una parte e « placet » dall’altra; « ciò che visto », « piace ») trova il suo preciso riscontro nei due Nomi del9 l’Unigenito Splendor (o Lux) e Filius, che così beneficiano Imago delle due principali qualità proprie alla ‘Condizione di Bellezza’: Imago, per la ss. Trinità, è, in quel modo che si è considerato (modo del tutto analogico e dunque senz’altro approssimativo per difetto), sia la “novità” che la “letizia”, in Dio, di Dio stesso.
Detto altrimenti, pensare all’Imago, al Volto di Dio, è lo stesso che pensare al suo sorriso.
In altre parole ancora, l’Imago del Logos è « Quod visum Deo placet », “Ciò che, visto, a Dio piace”, anzi: « Illud quod, in Seipsum visum, Deo ipso placet », “Ciò che, in Se stesso visto, a Dio stesso piace (o diletta, o dà gioia, o, per così dire, commuove)”.
È senz’altro ciò che quell’intelletto non ha mai visto, ciò che vede per la prima volta, ciò che per esso è una novità.
Pensate alle reazioni di gioia e stupore dinanzi a un miracolo.
Ma essere una novità, una bella notizia, un euvangelium, è proprio ciò che ci viene assicurato di Filius dalla prima considerazione nella risultanza dei due nomi Splendor e Filius, dove abbiamo visto che essi sono la raggiante Aurora dell’Essere, ma cosa c’è di più bello e poetico di un’aurora per dire “novità”, e anzi “bella novità”? Nel predicato « placet », poi, riscontriamo il sentimento di plauso, di letizia, di gaudio, oltre che di interiore felicitante serenità, e questi sentimenti vivi, lieti e sorridenti – il Padre chiama il Figlio « Diletto » –, sono riconoscibili ancora nel Nome Splendor, il Sole dell’aurora che esalta l’eterna positività dell’Essere in ciò che dobbiamo chiamare, per tale congenita positività, la più intima e profonda “sorridenza” di un “Sì”.
Per cui ognuno dei due segmenti della ‘Condizione di Bellezza’ (« quod visum » da una parte e « placet » dall’altra; « ciò che visto », « piace ») trova il suo preciso riscontro nei due Nomi del9 l’Unigenito Splendor (o Lux) e Filius, che così beneficiano Imago delle due principali qualità proprie alla ‘Condizione di Bellezza’: Imago, per la ss. Trinità, è, in quel modo che si è considerato (modo del tutto analogico e dunque senz’altro approssimativo per difetto), sia la “novità” che la “letizia”, in Dio, di Dio stesso.
Detto altrimenti, pensare all’Imago, al Volto di Dio, è lo stesso che pensare al suo sorriso.
In altre parole ancora, l’Imago del Logos è « Quod visum Deo placet », “Ciò che, visto, a Dio piace”, anzi: « Illud quod, in Seipsum visum, Deo ipso placet », “Ciò che, in Se stesso visto, a Dio stesso piace (o diletta, o dà gioia, o, per così dire, commuove)”.
BELLEZZA (CIOÈ SORRISO) E SACRIFICIO.
E cosa commuove Dio, di Dio?
Per saperlo, torniamo sulla terra.
Il filosofo Roger Scruton, noto per la sua forte difesa delle conquiste della cultura occidentale, in un suo saggio si sofferma a lungo sul concetto di sacrificio, concludendo: « Il sacrificio è l’essenza della virtù, è l’origine del significato e il vero tema dell’arte elevata » (La Bellezza. Ragione ed esperienza estetica, p. 163).
Per dirla tutta, nel senso attribuitogli dall’accademico inglese, ‘sacrificio’ è l’essenza della caritas, dell’amore oblativo, allorché è riversata da un uomo in un’espressione artistica.
Noi vedremo qui che all’arte bisognerà dare un’estensione tale che possa abbracciare anche la realtà più quotidiana. Infatti va considerato che noi siamo fatti in modo che tra noi e la realtà dovrebbe instaurarsi una condizione di verità che la filosofia ha delineato con la celebre formula aristotelico-tomista: « Veritas est adæquatio rei et intellectus » (S. Th., I, 16, 1), che io parafraserei così: “La Verità è la relazione [armonica, unitiva, cosciente e pacificante] tra noi e la realtà”.
Fare questa positiva relazione tra noi e la realtà (anche di tutti i giorni) è il fine per cui viviamo e che Cristo, per noi, ha già compiuto, giacché « fare la verità » (Gv 3,21) non è altro che compiere l’eguaglianza (tra noi e la realtà) realizzata dall’amore di dedizione tra il nostro cuore e la realtà della vita, che a ben guardare, in ultimo, è l’unione tra noi e Cristo (è la nostra “cristificazione”) e, compiendo tale unione, è in ultimissimo l’unione tra 10 “Noi-armonizzati-in-Cristo” e il Padre che Lo ha inviato.
Per via della diade Imago/Verbum sopra vista e per la proprietà commutativa dei trascendentali (“ens, unum, pulchrum, verum et bonum convertuntur”, cioè sono convertibili) la realizzazione di questa ‘Condizione di verità’ è medesimamente anche la realizzazione della ‘Condizione di bellezza’.
Queste due condizioni sono entrambe necessarie a rendere meno sciatta, anzi a rendere del tutto eroica e santa la nostra vita.
La loro realizzazione, cioè fare verità e fare bellezza, ha necessità di uno sforzo d’amore, di ciò che Roger Scruton definisce un vero e proprio « sacrificio », e il miraculum, la “cosa meravigliosa”, ha bisogno, perché se ne presentino le condizioni, di un « sacrificio » persino doppio: quello dell’infermità e quello della fede –. Merita allora fare qui due considerazioni.
La prima è che il sacrificio dell’infermità non è ristretto a quel singolo graziato in quel momento dalla Vergine, ma è il sacrificio suo e di tutta la collettività, che nei samaritani da una parte e nei bisognosi dall’altra – nei medici e nei malati – condensa la grande quantità di sofferenza necessaria, unita ai meriti del Redentore e della Mediatrice di grazie, a far scattare, diciamo così, il plenum della misericordia divina.
La seconda è che vorrei far notare che ho parlato di “sacrificio dell’infermità e della fede”, ed è questo della fede (che fra poco vedremo se è un sacrificio) quello che dà l’apporto qualitativo reale, decisivo, capace di smuovere nostro Signore come fu smosso con l’insistenza della Cananea di Mc 7,24-36.
E anche qui la necessità è che il Luogo deputato, la città di Loreto, la “Terra del sì” nata dalla “Vergine del sì”, sia coinvolto tutto in tale opera di ammasso di beni: rubini di sofferenza, diamanti di abnegazione, perle di umiltà, ori di bontà, gemme di sapienza eccetera, così che, unito e come convogliato nell’unico flusso di fede oltre ogni ragione, smuova il ricchissimo e munifico divino Elargitore di grazie al miracoloso “Fiat!”.
Il male infatti può diventare utilissimo al mondo, se nella teleologia della salvezza preparata dal Cristo.
Per cui si può dire che la bellezza è il tramite più solido, la cartina di tornasole più sicura, più visibile, più chiara, per far 11 emergere la relazione di caritas, la relazione sacrificale, la relazione oblativa che si instaura tra Dio e uomo e poi tra uomo e uomo attraverso la Bellezza/Verità, l’Imago/Logos, e quando in qualcosa c’è la bellezza che si vede, vuol dire che c’è anche la verità che non si vede, ossia che si vede attraverso la sua bellezza. (Un miracolo, tanto più è bello tanto più è vero.) 7.
Per saperlo, torniamo sulla terra.
Il filosofo Roger Scruton, noto per la sua forte difesa delle conquiste della cultura occidentale, in un suo saggio si sofferma a lungo sul concetto di sacrificio, concludendo: « Il sacrificio è l’essenza della virtù, è l’origine del significato e il vero tema dell’arte elevata » (La Bellezza. Ragione ed esperienza estetica, p. 163).
Per dirla tutta, nel senso attribuitogli dall’accademico inglese, ‘sacrificio’ è l’essenza della caritas, dell’amore oblativo, allorché è riversata da un uomo in un’espressione artistica.
Noi vedremo qui che all’arte bisognerà dare un’estensione tale che possa abbracciare anche la realtà più quotidiana. Infatti va considerato che noi siamo fatti in modo che tra noi e la realtà dovrebbe instaurarsi una condizione di verità che la filosofia ha delineato con la celebre formula aristotelico-tomista: « Veritas est adæquatio rei et intellectus » (S. Th., I, 16, 1), che io parafraserei così: “La Verità è la relazione [armonica, unitiva, cosciente e pacificante] tra noi e la realtà”.
Fare questa positiva relazione tra noi e la realtà (anche di tutti i giorni) è il fine per cui viviamo e che Cristo, per noi, ha già compiuto, giacché « fare la verità » (Gv 3,21) non è altro che compiere l’eguaglianza (tra noi e la realtà) realizzata dall’amore di dedizione tra il nostro cuore e la realtà della vita, che a ben guardare, in ultimo, è l’unione tra noi e Cristo (è la nostra “cristificazione”) e, compiendo tale unione, è in ultimissimo l’unione tra 10 “Noi-armonizzati-in-Cristo” e il Padre che Lo ha inviato.
Per via della diade Imago/Verbum sopra vista e per la proprietà commutativa dei trascendentali (“ens, unum, pulchrum, verum et bonum convertuntur”, cioè sono convertibili) la realizzazione di questa ‘Condizione di verità’ è medesimamente anche la realizzazione della ‘Condizione di bellezza’.
Queste due condizioni sono entrambe necessarie a rendere meno sciatta, anzi a rendere del tutto eroica e santa la nostra vita.
La loro realizzazione, cioè fare verità e fare bellezza, ha necessità di uno sforzo d’amore, di ciò che Roger Scruton definisce un vero e proprio « sacrificio », e il miraculum, la “cosa meravigliosa”, ha bisogno, perché se ne presentino le condizioni, di un « sacrificio » persino doppio: quello dell’infermità e quello della fede –. Merita allora fare qui due considerazioni.
La prima è che il sacrificio dell’infermità non è ristretto a quel singolo graziato in quel momento dalla Vergine, ma è il sacrificio suo e di tutta la collettività, che nei samaritani da una parte e nei bisognosi dall’altra – nei medici e nei malati – condensa la grande quantità di sofferenza necessaria, unita ai meriti del Redentore e della Mediatrice di grazie, a far scattare, diciamo così, il plenum della misericordia divina.
La seconda è che vorrei far notare che ho parlato di “sacrificio dell’infermità e della fede”, ed è questo della fede (che fra poco vedremo se è un sacrificio) quello che dà l’apporto qualitativo reale, decisivo, capace di smuovere nostro Signore come fu smosso con l’insistenza della Cananea di Mc 7,24-36.
E anche qui la necessità è che il Luogo deputato, la città di Loreto, la “Terra del sì” nata dalla “Vergine del sì”, sia coinvolto tutto in tale opera di ammasso di beni: rubini di sofferenza, diamanti di abnegazione, perle di umiltà, ori di bontà, gemme di sapienza eccetera, così che, unito e come convogliato nell’unico flusso di fede oltre ogni ragione, smuova il ricchissimo e munifico divino Elargitore di grazie al miracoloso “Fiat!”.
Il male infatti può diventare utilissimo al mondo, se nella teleologia della salvezza preparata dal Cristo.
Per cui si può dire che la bellezza è il tramite più solido, la cartina di tornasole più sicura, più visibile, più chiara, per far 11 emergere la relazione di caritas, la relazione sacrificale, la relazione oblativa che si instaura tra Dio e uomo e poi tra uomo e uomo attraverso la Bellezza/Verità, l’Imago/Logos, e quando in qualcosa c’è la bellezza che si vede, vuol dire che c’è anche la verità che non si vede, ossia che si vede attraverso la sua bellezza. (Un miracolo, tanto più è bello tanto più è vero.) 7.
A COSA È FINALIZZATA LA BELLEZZA (IL SORRISO).
Prendiamo per esempio – qui a Loreto, dove, con la deferente
ospitalità data alla sacra Casa, nata dall’Ospitalità
della Vergine al Bambino, l’ospitalità è innalzata a vera virtù
– una tavola da pranzo.
La cura e l’attenzione che la padrona di casa dà all’aspetto della propria dimora per accogliere con un sorriso l’ospite, specie se difficile o, a volte, sconosciuto, richiedono da lei tempo, energie, conoscenza delle cose, gusto, impegno, premura, amore per l’arte e amore per la persona; richiedono insomma tutto un patrimonio di ‘capacità di donazione’ che si riassume nella sua disponibilità a sacrificarsi con altruismo e gioia, e simmetricamente richiedono, da parte dell’ospite, la medesima capacità di adeguarsi, con la comprensione intuitiva di tutto ciò attraverso la vista del bello della casa in cui è entrato, di saper innalzare anche in sé la stessa ‘capacità di donazione’ nel sacrificio che compie apprezzando e gustando la cosa come si deve anche se magari non gli piace affatto, deponendo in sé ogni eventuale interno sentimento egotista, e anzi attivamente partecipando, in qualche modo certo simbolico, al confezionamento della pulchritudo in cui si sono profusi gli sforzi della sua ospite, per esempio presentandosi con un adeguato bouquet di fiori, figura del sacrificio cui ci si è volentieri offerti per contribuire alla realizzazione della bellezza della casa, a sua volta sublime latrice dello scopo per cui essa è istituita e tesa: la relazione di unità.
La cura e l’attenzione che la padrona di casa dà all’aspetto della propria dimora per accogliere con un sorriso l’ospite, specie se difficile o, a volte, sconosciuto, richiedono da lei tempo, energie, conoscenza delle cose, gusto, impegno, premura, amore per l’arte e amore per la persona; richiedono insomma tutto un patrimonio di ‘capacità di donazione’ che si riassume nella sua disponibilità a sacrificarsi con altruismo e gioia, e simmetricamente richiedono, da parte dell’ospite, la medesima capacità di adeguarsi, con la comprensione intuitiva di tutto ciò attraverso la vista del bello della casa in cui è entrato, di saper innalzare anche in sé la stessa ‘capacità di donazione’ nel sacrificio che compie apprezzando e gustando la cosa come si deve anche se magari non gli piace affatto, deponendo in sé ogni eventuale interno sentimento egotista, e anzi attivamente partecipando, in qualche modo certo simbolico, al confezionamento della pulchritudo in cui si sono profusi gli sforzi della sua ospite, per esempio presentandosi con un adeguato bouquet di fiori, figura del sacrificio cui ci si è volentieri offerti per contribuire alla realizzazione della bellezza della casa, a sua volta sublime latrice dello scopo per cui essa è istituita e tesa: la relazione di unità.
Quel che si vuol dire è che la bellezza, risultato ed espressione
unici e sublimi del moto di carità sacrificale con cui sempre e
solo la si raggiunge e la si manifesta, la bellezza, dicevo, fa l’unità, essa è il più forte strumento di pace, la bellezza mette
in relazione le persone: con i fiori, le stelle, i voli delle rondini,
il profumo delle gardenie e i miracoli mette in relazione
Dio con gli uomini, e con le grandi Pale d’altare del
Lotto o le Cantate di Bach gli uomini fra loro; quanto sforzo
infatti fa la pianticella di gardenia per sbocciare lentamente
in quei candidi petali, quanto ferro deve assorbire, quanta
luce tiepida, e acqua, e tempo, e calore: davvero la Natura
non ha la mano secca, ma si profonde con abbondanza, e
quasi, pare, senza badare a spese, senza restrizioni di sorta,
seppur in tutta semplicità, pur di mostrare all’uomo la sovrabbondante
generosità di Dio.
E che lieti, sovrumani sforzi
compiono gli artisti « poveri di spirito » (Mt 5,3), quelli
svuotati del proprio Io come il Lotto, allorché, con altrettanta
illimitata generosità, profondono nel creato le loro
opere, le loro gardenie pittoriche o musicali, o stelle, o cime
di bellezza, per unire così le loro piccole-grandi voci all’altissima,
eppur vicina maestà della Voce – miracolo di comunione!
– del loro buon Creatore, che vuole proprio tale unione
con le sue opere di Creazione e poi di Redenzione.
La Bellezza, faccia della Verità, come valore raggiungibile
solo attraverso la quotidiana e faticosa, ma appagante « adæquatio
rei et intellectus » del filosofo, dell’artista, della casalinga,
dell’ospite, di tutti coloro che perseguono ciò che altrimenti
si è visto poter chiamare ‘caritas’, il « sacrificio » richiamato da
Scruton, è pure il primo dei risultati perseguibili dal sacrificio
compiuto con l’atto di fede, quell’atto che Romano Amerio
indica essere senza dubbio, di tutti, il sacrificio supremo cui
può essere sottoposto l’uomo, martirio compreso.
È il primo,
quello compiuto per la fede, e, da qui, per la Bellezza, perché
con la flessione della propria ragione, e specialmente – da qui
– con l’amputazione della propria libertà a favore della libertà
di Dio, l’uomo viene deificato, gli viene fatto compiere, per
grazia, uno straordinario salto di qualità di natura, come è
scritto: « Chi si umilia sarà esaltato » (Lc 14,11); e chi più bello
ed esaltante di un ‘deiforme’? chi più bello e glorioso di un
‘cristificato’?
Si veda la ss. Vergine.
IN COSA CONSISTONO LA GLORIA E IL SACRIFICIO DI CRISTO.
Questi movimenti, cui ci hanno portato le prime considerazioni
permesse da una filosofia dell’estetica trinitaria, impostata
cioè su alcune qualità della Trinità, ci permettono di avvicinarci
a esiti altrimenti non dico irraggiungibili, ma senz’altro
non garantiti da un’altrettanta solidità di impianto.
Infatti, se quel concetto di sacrificio immerso nelle profondità degli atti che portano alla Bellezza – e con ciò alla Verità, come si è visto e come dimostro in tutti i miei studi, specie in La Bellezza che ci salva e in Il domani del dogma –, il “sacrificio” dunque come fecondazione della Bellezza, lo avviciniamo a quelle parole del Signore che dicono: « Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse » (Gv 17,5), scopriremo finalmente quanto è stretto il vincolo che unisce il sorriso, lo Splendore, a Dio, a Cristo, fin dall’abisso dell’eternità, ovvero fin dal suo più primigenio, stabile e glorioso status divino d’essere.
Infatti, se quel concetto di sacrificio immerso nelle profondità degli atti che portano alla Bellezza – e con ciò alla Verità, come si è visto e come dimostro in tutti i miei studi, specie in La Bellezza che ci salva e in Il domani del dogma –, il “sacrificio” dunque come fecondazione della Bellezza, lo avviciniamo a quelle parole del Signore che dicono: « Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse » (Gv 17,5), scopriremo finalmente quanto è stretto il vincolo che unisce il sorriso, lo Splendore, a Dio, a Cristo, fin dall’abisso dell’eternità, ovvero fin dal suo più primigenio, stabile e glorioso status divino d’essere.
Sì, perché quel « glorificami » rivolto da Cristo/Logos al Padre,
come sappiamo, alla luce di quelle altre parole del Signore:
« Quando sarò innalzato da terra… » di Gv 12,32a, non significa
altro che “Innalzami da terra”, “Conducimi al sacrificio”,
insomma: “Fai di me, Padre, ciò che Tu vuoi”.
Ma notate: quell’esaltante « glorificami » Cristo lo specifica
con un complemento di modo che non lascia dubbi: « Glorificami
– dice – con quella gloria che avevo presso di te prima che il
mondo fosse ».
E che gloria mai aveva il Figlio presso il Padre suo « prima che il mondo fosse »?
E che gloria mai aveva il Figlio presso il Padre suo « prima che il mondo fosse »?
IN COSA CONSISTANO GLORIA E SACRIFICIO QUANDO SI PARLA DELLA SECONDA PERSONA DELLA SS. TRINITÀ.
Se « prima che il mondo fosse » il Figlio riceveva dal Padre
un’ontologica gloria di tutta sorridenza e felicità, e la riceveva
per via del pronunciamento in Sé del Suo stesso status d’essere:
« Io sono Colui che sono! », tali Sue infinite Bellezza e Verità
di Imago e di Verbum vanno fatte coincidere con le parole
di nostro Signore nel Discorso d’addio dell’Ultima Cena, ossia con la Gloria della Croce: nel sacro Nome di Dio, manifestato
a Mosè dal Roveto ardente, Dio rivela all’uomo il Suo
status glorioso di essere, e, in tale ineffabilità – del Suo essere
“Glorioso” –, Egli si dice “Glorioso” in quanto “Innalzato”,
perché il Figlio è obbediente al Padre ontologicamente, « fin dal
principio », perfettissimo Figlio qual è per essere sua perfettissima
Imago, Copia, e l’obbedienza è un Sì, è un fare la volontà
dell’Essere, che è la volontà della Vita che si dona a Se stessa,
cioè, in qualche modo arcano, a “darsi tutto a Sé”, che è a dire
al Padre, Principio riconosciuto dal Figlio pur senza implicare
con ciò alcuna subordinazione, perché tale volere è
dell’unico Io delle tre Persone.
Dunque “donarsi a Sé”, mettendo in continuità lo status
ontologico di Gloria con quello che poi sarà il suo status esistenziale:
Gloria “ontologica” e Gloria “esistenziale” sono in
Dio la stessa medesima Gloria, sono dello stesso segno, non
è l’una una certa Gloria e l’altra un’altra, ma la stessa, pur variando,
la natura in cui si traduce, in due nature diverse: una
divina, l’altra umana.
Come se il Figlio avesse in Sé, nel « tutto insieme » dell’eternità, ciò che nel tempo è forzatamente diviso in un prima e in un poi: morte prima, resurrezione poi: “morte” nel farsi tutto Figlio; “resurrezione” nel suo essere la Verità, la divina affermazione di realtà, la prima « adæquatio rei et intellectus » che si possa mai avere – proprio per tale risposta obbedenziale al Padre che Gli dice (Sal 2,7): « Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato » –.
Questo atto, di somma e inconcepibilmente donativa e divina caritas, l’orgoglioso Lucifero non lo accettò, fu per lui troppo: Lucifero si ribellò all’umiltà della Gloria che il Figlio di Dio in Sé gli mostrava, sia prefigurandogli la Croce che Egli avrebbe portato sul Golgota come uomo-Dio, sia, prima ancora, con la propria gloriosa, ma anche realistica e in fondo umile affermazione di essere Figlio,(giacché la Maestà di Dio non è superba, non ne ha bisogno: è una Maestà gloriosa e basta), quasi dicesse al Padreanalogamente al Salmo: “Tuo Figlio son io, oggi Tu mi hai generato!”). 15 10.
Come se il Figlio avesse in Sé, nel « tutto insieme » dell’eternità, ciò che nel tempo è forzatamente diviso in un prima e in un poi: morte prima, resurrezione poi: “morte” nel farsi tutto Figlio; “resurrezione” nel suo essere la Verità, la divina affermazione di realtà, la prima « adæquatio rei et intellectus » che si possa mai avere – proprio per tale risposta obbedenziale al Padre che Gli dice (Sal 2,7): « Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato » –.
Questo atto, di somma e inconcepibilmente donativa e divina caritas, l’orgoglioso Lucifero non lo accettò, fu per lui troppo: Lucifero si ribellò all’umiltà della Gloria che il Figlio di Dio in Sé gli mostrava, sia prefigurandogli la Croce che Egli avrebbe portato sul Golgota come uomo-Dio, sia, prima ancora, con la propria gloriosa, ma anche realistica e in fondo umile affermazione di essere Figlio,(giacché la Maestà di Dio non è superba, non ne ha bisogno: è una Maestà gloriosa e basta), quasi dicesse al Padreanalogamente al Salmo: “Tuo Figlio son io, oggi Tu mi hai generato!”). 15 10.
TENTATIVO LUCIFERINO DI INTERROMPERE IL PROCESSO DI “COPIATURA” DELL’IMMAGINE DI DIO CHE DEVE TORNARE A DIO.
Quello di Lucefero è una ribellione al sì che sta avvenendo
anche nel mondo: la civiltà d’oggi rifugge dalla Croce, ma così
rifugge anche dall’essere, rifugge dalla realtà, che può acquistare
la sua pienezza solo risorgendo dalla Croce, ed è per ciò
che il mondo non fa più Bellezza, ed è perciò che i miracoli
sono più rari di un tempo: perché l’uomo rifiuta il passaggio
cruciale, il passaggio di adeguamento, solo attraverso il quale si
può poi arrivare a quello glorioso.
Vorrei però sottolineare che c’è una differenza sostanziale
tra il rifiuto che gli uomini compivano nei secoli di compiere
tale primo passaggio e il rifiuto che fanno oggi, perché dopo
Cartesio la mentalità dell’uomo “tipico” della civiltà occidentale,
culla del Cristianesimo, si è lentamente ma programmaticamente
svuotata dei valori forgiati dalla necessità di farli
corrispondere alla Verità, cui tutti essi si proiettavano, accogliendo
in suo luogo la Libertà e la conseguente proiezione
valoriale soggettiva, antropomorfica, snaturata dalla contestuale
decapitazione della Verità, che è a dire, in noi, di Dio.
Il Liberalismo è il nuovo paradigma su cui si sono modellati i valori della perversa civiltà occidentale post-cristiana, infiltrandosi per osmosi anche nella compagine ecclesiale, e non solo, di questa, nei suoi strati più larghi ed esposti, ma anche tra i Pastori. Il Veritarismo – così possiamo chiamare la dottrina che viceversa ha per Apollo musagete la Verità – è stato abbandonato ormai dalla maggioranza dei popoli, e con esso l’identità delle cose, la Bellezza, l’Unità, il Bene morale.
Il Liberalismo si fonda, luciferinamente, sulla dissimilitudine, sul rifiuto cioè di compiere quella « adæquatio rei et intellectus », quella amorosa relazione di somiglianza che si è vista essere la prima relazione tra Padre e Figlio in virtù della qualità Imago, e intelligente Imago per via del Logos, e sorridente Imago per via di Splendor, relazione di somiglianza così decisiva da costituire il paradigma conformativo non solo, come si vide, della ss. Trinità, ma, da Essa, del rapporto tra Essa e Creato, tra Essa e uomo, poi tra uomo e uomo e poi, in ritorno, tra uomo e realtà e tra uomo e Trinità: senza somiglianza, senza immagine, senza copia, non c’è nulla, e con la dissimilitudine, o dissomiglianza, operata da satana, ancora si tende al nulla.
Quello che avviene oggi nel campo etico rispecchia queste prospettive: l’avanzata della cosiddetta omosessualità, radicalizzata nell’invenzione delle strutture culturali di gender, poi dell’equiparazione della famiglia a istituti spuri di aggregazione sociale come i matrimoni civili e il riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto, l’avanzata infine della cancellazione delle conseguenze che tali stati immorali hanno sull’anima e sulla sua possibilità di ricevere i Sacramenti, non è che l’avanzata degli strumenti più perversi per perseguire la disgregazione della famiglia e con ciò la sterilizzazione della società, la cui curva demografica in Italia e in Germania ha superato il punto di non ritorno, punto che si ha quando il numero di persone sopra i sessanta eccede il numero di coloro che sono sotto i venti.
La peculiarità del punto di non ritorno è che è irreversibile: una volta raggiunto, non è mai successo nella storia che il numero di persone sotto i vent’anni sia stato in grado di effettuare il controsorpasso sugli ultra sessantenni.
Quelli enumerati sopra sono tutti istituti familiari ad alta volatilità, dovuta a non saper/poter elaborare in essi, per mancanza di grazia divina, la sofferenza – la carità oblativa – necessaria a plasmare in sé la santa copia di Cristo che invece ogni uomo deve saper plasmare nel proprio tragitto vitale.
Essi sono organismi non solo votati alla morte, ma fatti apposta per essere strumenti di morte, ossia fatti apposta per isterilire la società, per ammazzarla.
Ma cosa vuol dire “isterilire la società”?
Vuol dire, in realtà, interrompere il santo processo “copiativo” per il quale noi siamo stati creati, processo che ad altro non è finalizzato che a moltiplicare – con la moltiplicazione dei cuori e degli intelletti umani – l’adorazione.
Adorazione che da una parte, “naturalmente”, è dovuta da ogni creatura ragionevole a Dio Padre, Principio dell’Essere e somma Maestà; dall’altra, “sopranaturalmente”, costituirà la visione beatifica in cui si realizza la massima felicità soprannaturale possibile offerta ad ogni creatura ragionevole da Dio Padre, infinita bontà.
Il Liberalismo è il nuovo paradigma su cui si sono modellati i valori della perversa civiltà occidentale post-cristiana, infiltrandosi per osmosi anche nella compagine ecclesiale, e non solo, di questa, nei suoi strati più larghi ed esposti, ma anche tra i Pastori. Il Veritarismo – così possiamo chiamare la dottrina che viceversa ha per Apollo musagete la Verità – è stato abbandonato ormai dalla maggioranza dei popoli, e con esso l’identità delle cose, la Bellezza, l’Unità, il Bene morale.
Il Liberalismo si fonda, luciferinamente, sulla dissimilitudine, sul rifiuto cioè di compiere quella « adæquatio rei et intellectus », quella amorosa relazione di somiglianza che si è vista essere la prima relazione tra Padre e Figlio in virtù della qualità Imago, e intelligente Imago per via del Logos, e sorridente Imago per via di Splendor, relazione di somiglianza così decisiva da costituire il paradigma conformativo non solo, come si vide, della ss. Trinità, ma, da Essa, del rapporto tra Essa e Creato, tra Essa e uomo, poi tra uomo e uomo e poi, in ritorno, tra uomo e realtà e tra uomo e Trinità: senza somiglianza, senza immagine, senza copia, non c’è nulla, e con la dissimilitudine, o dissomiglianza, operata da satana, ancora si tende al nulla.
Quello che avviene oggi nel campo etico rispecchia queste prospettive: l’avanzata della cosiddetta omosessualità, radicalizzata nell’invenzione delle strutture culturali di gender, poi dell’equiparazione della famiglia a istituti spuri di aggregazione sociale come i matrimoni civili e il riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto, l’avanzata infine della cancellazione delle conseguenze che tali stati immorali hanno sull’anima e sulla sua possibilità di ricevere i Sacramenti, non è che l’avanzata degli strumenti più perversi per perseguire la disgregazione della famiglia e con ciò la sterilizzazione della società, la cui curva demografica in Italia e in Germania ha superato il punto di non ritorno, punto che si ha quando il numero di persone sopra i sessanta eccede il numero di coloro che sono sotto i venti.
La peculiarità del punto di non ritorno è che è irreversibile: una volta raggiunto, non è mai successo nella storia che il numero di persone sotto i vent’anni sia stato in grado di effettuare il controsorpasso sugli ultra sessantenni.
Quelli enumerati sopra sono tutti istituti familiari ad alta volatilità, dovuta a non saper/poter elaborare in essi, per mancanza di grazia divina, la sofferenza – la carità oblativa – necessaria a plasmare in sé la santa copia di Cristo che invece ogni uomo deve saper plasmare nel proprio tragitto vitale.
Essi sono organismi non solo votati alla morte, ma fatti apposta per essere strumenti di morte, ossia fatti apposta per isterilire la società, per ammazzarla.
Ma cosa vuol dire “isterilire la società”?
Vuol dire, in realtà, interrompere il santo processo “copiativo” per il quale noi siamo stati creati, processo che ad altro non è finalizzato che a moltiplicare – con la moltiplicazione dei cuori e degli intelletti umani – l’adorazione.
Adorazione che da una parte, “naturalmente”, è dovuta da ogni creatura ragionevole a Dio Padre, Principio dell’Essere e somma Maestà; dall’altra, “sopranaturalmente”, costituirà la visione beatifica in cui si realizza la massima felicità soprannaturale possibile offerta ad ogni creatura ragionevole da Dio Padre, infinita bontà.
Questo processo perverso di sterilizzazione della società,
che in realtà è un processo di de-adorazione di Dio, va combattuto
con tutte le forze, e l’unica potenza abilitata a farlo e
a conseguirne la vittoria è la Chiesa, e ciò solo se essa Chiesa
si appoggia alla Mediatrice di grazie, la Vergine Immacolata.
Per farlo, la Chiesa poi non ha a disposizione altri strumenti
che la Pietra angolare su cui sempre si appoggia, parlo
del Dogma, ossia della Verità garantita al massimo grado, solo
con la quale l’Imago, che trasmette di copia in copia la Verità,
è garantita pienamente e infallibilmente della sua qualità.
CONCLUSIONE. SOLO DIO È BELLO, È VERO, È BUONO. SOLO DIO SORRIDE. SOLO DIO. E L’UOMO IN DIO.
Sant’Ambrogio, nel Commento al Salmo 118, enumera decine
di martirii incruenti: quello del casto che resiste alla tentazione,
del misericordioso che resiste all’avarizia, di chi non viola
i diritti della vedova, di chi resiste allo spirito di superbia, di
chi soffre in segreto per Cristo, per la Chiesa, per la dottrina
e per la morale (anche allora) bistrattate, e noi potremmo aggiungere
i martirii di chi offre le proprie sofferenze negli ospedali,
dell’operatore sanitario che fa obiezione di coscienza,
di chi prepara la tavola ogni giorno con amore, e così pure i
letti d’ospedale, le sale operatorie e via dicendo.
Ecco, queste sono tutte, dice il grande Dottore, perfette
conformazioni a Cristo: tutte piccole e grandi immagini di
Cristo: preparare la tavola, la sala operatoria, la sala parto, fare
le piccole cose, poi magari, quando si può e si è chiamati,
le grandi, è, copiando Cristo, fare comunque e sempre Bellezza,
in controtendenza al Liberalismo e alle sue sterili costruzioni,
e facendo Bellezza è fare, come si è visto, relazione
e unità, ma ciò è possibile solo attraverso la caritas, il martirio,
la cristificazione.
Questa Lectio Magistralis è stata intitolata “Il sorriso di Dio
e il sorriso dell’uomo”.
Questo titolo potremmo ora migliorarlo:
“Il sorriso di Dio e il sorriso di Dio”:
1), Dio sorride nella
Gloria di essere eternamente Padre generante il Figlio, l’Originale
generante la Prima Copia;
2), Dio ancora sorride come
Dio, nella Prima Copia (Imago) del Figlio generato dal Padre;
3), Dio sorride ancora come Dio nella Gloria della Seconda
Copia dalla Prima, nell’Uomo-Dio risorto da morte;
4), Dio
sorride infine ancora come Dio negli uomini cristificati, tutti
dèi in Dio, come affermano san Gregorio di Nazianzo in Oriente
e sant’Agostino in Occidente su 2 Pt 1,4 (« Affinché diveniate
partecipi della natura divina »), tutti uomini per grazia di
Dio fatti Copie Terze, dunque tutte misticamente simili all’Originale,
al Padre, come ci evidenzia il dolcissimo sorriso,
in primis, della Vergine santissima, attraverso la cruciale mediazione
di Cristo, di cui è scritto: « In nessun altro c’è salvezza;
non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale
sia stabilito che possiamo essere salvati » (At 4,12), mediazione
per la quale dunque in Paradiso il Dio, diciamo così, raccolto
da Cristo sulla terra, radiosamente e gloriosamente sorriderà
in eterno a Se stesso sorridente Dio, che si è inviato sulla terra
a raccogliersi – la Chiesa è il generoso cesto della divina
raccolta – ad maiorem Dei gloriam, come volevasi dimostrare.
Non è un miracolo? E sommo, anche.
Grazie, Imago. Grazie,
santa sofferenza.
E grazie, o “Maria del Sì”, che hai calpestato il Regno del
No.
A Loreto, nel 1294, fu portata dagli angeli la Casa del Sì,
del sorriso alla vita.
Antonio Paolucci, riferendosi alle prime
pitture Rinascimentali, indicò certe zone della Toscana, l’Umbria
e le Marche come patria della Bellezza.
Vogliamo mettere
in relazione la miracolosa scelta dei Cieli di porre la Santa
Casa del Sorriso alla Vita, alla allocazione della Bellezza – tra
tutte le terre del mondo – proprio a Loreto?
Mettiamola.
E
mettiamola, specialmente, notando che è proprio qui, in queste
tre regioni, che in quei tempi ferve più che altrove la forte
religione, l’intensa spiritualità, la viva carità oblativa dei figli
di san Francesco.
È ancora da qui, da Loreto, dalla Patria del Sì alla vita, che
può tornare a irradiarsi nel mondo la Bellezza, la Verità religiosa,
cultuale e morale, perché la sacra Casa non si è spostata,
è sempre lì, e Maria, da sempre la vera Musa della Bellezza
intorno alla quale sono fiorite le più belle opere dell’uomo,
che più belle non ce n’è,
Maria attende solo di donarcele, le
grazie sante: basta chiederGliele.
* * *
( fine )
( fine )