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lunedì 14 maggio 2012

L'ora delle decisioni irrevocabili per la Fraternità S. Pio X



I quattro vescovi della Fraternità San Pio X

La tormentata storia delle relazioni tra la Fraternità fondata da mons. Lefebvre e la Chiesa di Roma volge - ed era ben l’ora – al suo termine o, quanto meno, ad un punto di svolta fondamentale. E ben pochi si saranno stupiti del coup de théâtre degli ultimi giorni, ossia della pubblicazione di lettere infuocate che mostrano la verticale spaccatura sulla questione tra il vertice della Fraternità, con il suo superiore mons. Fellay, ed il resto del suo ‘collegio episcopale’: da molto tempo non manchiamo di informare i nostri incliti e colti lettori della (fino a poco fa sotterranea) profonda divergenza di vedute all’interno dell’opera fondata da mons. Lefebvre: vi basti un rinvio a questo nostro post già del gennaio 2011.

Anche se la pubblicazione delle lettere tra i vescovi della Fraternità è stata organizzata dall’ala tradifanatica (la loro prima apparizione è avvenuta su un sito semisedevacantista e Le Figaro la attribuisce all'ambiente di mons. Williamson); anche se un comunicato della sede generalizia della Fratenità considera 'peccato grave' e fomite di divisioni l’indiscrezione; noi invece salutiamo con vero favore questo svelamento, che finalmente porta alla luce del giorno (e sottrae a tutti quei rumori, illazioni e sussurri che girano da mesi e mesi) un tema che riguarda la sorte di tutti noi cristiani, su cui è opportuno avere un’opinione la più informata possibile. E, per dirvela tutta, onestamente non ci sembra né che mons. Fellay ignorasse il rischio di una probabile diffusione della sua lettera – sembra, anzi, essere stata scritta apposta, al pari di quella dei tre vescovi - né che la cosa possa averlo infastidito più di tanto.

Ma veniamo alla sostanza e cerchiamo di analizzare sinteticamente i fatti degli ultimi tempi (mi perdonerete se la prendo alla lontana, ma da un po’ di tempo non vi affliggevo con le mie considerazioni) e di prevedere i futuri sviluppi.

La situazione era già ben chiara prima dello scambio di quelle lettere: la Fraternità San Pio X si trova nella solo apparentemente invidiabile posizione di aver di fronte a sé un Papa che, in sostanza, la asseconda in tutto. “Non discuteremo se prima la Messa di sempre non sarà stata liberalizzata e le scomuniche revocate” – dixit mons. Fellay. E fu cosa fatta. “Nessun accordo canonico senza prima approfondite discussioni dottrinali da pari a pari”. E ne seguiron incontri teologici ai massimi livelli durati due anni (e non trenta come preconizzava, con wishful thinking, Mons. Tissier de Mallerais). “Occorre una struttura che garantisca la libertà d’azione della Fraternità” e, anche se il punto è ancora da chiarire, lo stesso Fellay riconosce che questo da parte romana non ha mai costituito un problema.

Questa attitudine di Benedetto XVI ha tolto alla Fraternità ogni alibi. Ma se il Papa ha tutto concesso, perché tanta agonia nel corpo stesso della Fraternità? Perché mai lo stesso mons. Fellay scrive – ma la cosa era già palese a qualunque attento osservatore – che avrebbe preferito mantenere indefinitamente lo status quo, in cui la Fratenità paga un rispetto (si fa per dire…) meramente labiale alla potestà del Papa, ma di fatto si comporta come una piccola chiesa autocefala? Non certo (o quanto meno non soltanto) per poter continuare ad essere alla guida di un ente che, di fatto, superiorem non recognoscet. Ma soprattutto perché mons. Fellay sa benissimo che l'ora della verità sarà anche il momento del trauma e dei litigi intestini. Cosa che, molto comprensibilmente, vorrebbe a tutti i costi evitare. Ma non sarà facile.

Induratum est cor di una parte molto significativa degli esponenti della Fraternità, come inevitabilmente succede in tutti i gruppi dissidenti. E’ una malattia che si chiama ‘settarismo’. Scherzando io dico da tempo che certi elementi della Fraternità rigetterebbero con orrore un preambolo dottrinale che pur contenesse soltanto le parole “Credo in unum Deum”, per il sol fatto che esso proviene da Roma.

La lettura della requisitoria dei vescovi Tissier de Mallerais, Williamson e Galarreta non fa che confermare quest’impressione. Leggetela attentamente: non vi trovate critiche (che in quel caso sarebbero costruttive, o almeno degne di attenzione) a passaggi specifici del testo del Preambolo, o alla soluzione canonica proposta, o simili. Nossignori: l’argomento portato avanti è apodittico e senz’appello: il Papa è ‘soggettivista’, ossia non crede alla realtà oggettiva delle verità di fede; come tale, può accogliere nel pantheon del cattolicesimo conciliare tutte le sensibilità e le opinioni, anche contraddittorie, poiché ciascuna è ‘vera’ solo relativamente al suo ambito.

Ora, affermare queste cose del Papa, di questo Papa, che della lotta al relativismo religioso (conseguenza appunto del soggettivismo) ha fatto il programma del proprio pontificato fin dall’omelia della sua Messa pro eligendo pontifice, non è nemmeno una caricatura (la quale presuppone pur sempre un fondo parziale di verità): è un capovolgimento dei fatti e del buon senso.

Come replica ben a proposito mons. Fellay ai suoi confratelli, la Chiesa è sì orrendamente sfigurata, ma d’altro canto, non si può attendere nella torre d’avorio ch’essa guarisca: occorre partecipare al combattimento per sanare i suoi mali; e anche quando quei mali saranno passati, altri nuovi insorgeranno: la vita non solo del singolo cristiano, ma dell’intero Corpo mistico è permanente militia, è combattimento contro l’idra sempre risorgente del male e dell’eresia.

Non si manchi di notare, in generale, il tono quasi aulico, oltre che analitico, della lettera di risposta di mons. Fellay e dei suoi assistenti, che contrasta con il parlare per slogan dei suoi contraddittori. La lettera della sede generalizia sembra scritta non solo per tacitare il dissenso interno con la forza delle argomentazioni, ma anche per fornire, grazie al suo stile studiatamente misurato e riflessivo e ad insistiti richiami al sensus ecclesiae, un’arma preventiva al Vaticano quando dovrà cercare di far digerire la riconciliazione agli episcopati; il cui apparente silenzio sulla questione può sì derivare da speranzoso scetticismo circa l’esito dei colloqui, ma può anche esser preludio di tempestosa ribellione al momento del dunque.

Che succederà adesso? Nell’ultimo scorcio di tempo, il barometro lefebvriano registra un’inversione di tendenza: nei mesi immediatamente successivi alla consegna del Preambolo dottrinale, i contrari all’accordo hanno prevalso e lo stesso Fellay non ha avuto di meglio che cercare di rinviare il più possibile la risposta; causando per conseguenza nei ‘romani’ un certo moto di impazienza – e anche qualche durezza, che certo non l’ha aiutato nella sua difficile posizione intermedia. Ma se la resistenza antipapista nella Fraternità si è organizzata, cementando le posizioni dei tre vescovi con quelle del superiore del potente distretto francese Cacqueray  (che ancora nell’editoriale dell’ultimo numero di Fideliter ci descrive un Benedetto XVI prigioniero di “profonde e gravi illusioni” circa la “nuova religione” conciliare), in favore di una riconciliazione sono venute le prese di posizione di alcuni superiori di distretti, primo tra tutti di quello tedesco Schmidberger, che fu pure il primo successore di mons. Lefebvre alla testa della Fraternità, insieme con quelli di Stati Uniti, Olanda-Belgio ed Asia, e soprattutto l’importante appoggio dell’abbé Simoulin, che in piena conoscenza di causa – all’epoca era rettore del seminario di Ecône - ha ribaltato l’argomento per cui occorre rifiutare le profferte romane come fece mons. Lefebvre, rivelando che quel rifiuto nel 1988 non dipese per nulla da dissensi dottrinali, ma solo da questioni pratiche circa la nomina di un suo successore.

Lo stesso Fellay si dev’esser pienamente avveduto di due cose. La prima: che Roma non gli avrebbe consentito di ciurlare nel manico ancora a lungo (come pur avrebbe tanto preferito) e avrebbe dovuto decidersi per il sì o per il no. La seconda: che in caso di risposta negativa all’accordo, egli, per il solo fatto di aver condotto trattative in modo ‘moderato’, sarebbe finito ben presto destituito e, probabilmente, perfino epurato da una Fraternità incamminata sulla via dell’estremismo e dell’autoghettizazione. Rischio ben reale, come mons. Fellay scrive: “Questa incapacità di distinguere conduce l’uno o l’altro di voi verso un indurimento ‘assoluto’. Ciò è grave perché questa caricatura è fuori della realtà e condurrà logicamente in futuro a un vero scisma. E forse questo fatto è uno degli argomenti che mi spinge a non tardar più a rispondere alle istanze romane”.

Lo scambio delle lettere finite su internet tradisce in effetti due cose. Da un lato, il timore molto forte dei tre vescovi recalcitranti che all’accordo si giunga davvero. Dall’altro, il senso di sicurezza che ha ormai acquisito mons. Fellay, il quale finora pareva invece più simile ad un re Tentenna che ad un von Clausewitz: lo si vede chiaramente da come non si preoccupi di apostrofare i confratelli con accuse durissime (di sedevacantismo, di assenza di fiducia soprannaturale, di insubordinazione per avergli ‘remato contro’).

I problemi legati al preambolo dottrinale paiono, in effetti, risolti. Così afferma mons. Arrieta, segretario del pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi (dicastero che, c’è da giurarvi, si sta occupando del problema successivo: la definizione di una struttura canonica). Un’indiscrezione che ci è stata rivelata (prendetela per tale, ma vi assicuro che è attendibile) è che l’ultima risposta di mons. Fellay, con cui accetta il famoso Preambolo ma con alcune significative modifiche, prima di essere inviata ufficialmente all’Ecclesia Dei e alla Congregazione per la Dottrina della Fede è stata fatta avere, via mons. Georg, direttamente al Papa, il quale non ha sollevato obiezioni. Un modo per assicurarsi che qualche zelante funzionario romano, magari per eccessiva affezione al testo del Preambolo originariamente preparato dal suo dicastero, non sollevi problemi… Sicché possiamo attendere con fiducia mercoledì, allorché la Congregazione per la Dottrina della Fede è chiamata a dire la sua sulla risposta della FSSPX.

Sgombrato il campo dai preamboli dottrinali, potremo passare alle cose veramente serie. Che sono, naturalmente, quelle giuridiche… Da un lato, quale sarà il destino della Fraternità in caso di scissione interna: sia in termini numerici, sia in termini di proprietà delle strutture e dei centri di apostolato (sul punto, comunque, azzardo a far previsione che lo scisma interno – che pur avverrà – sarà sostanzialmente circoscritto e probabilmente non coinvolgerà tutti i tre vescovi: non mi pare esservi gran voglia di creare una sorta di ‘rifondazione lefebvrista’).

Dall’altro lato, sorge la questione della struttura canonica. Personalmente son convinto che questo sia l’unico punto per cui la FSSPX  avrebbe ogni ragione di rifiutare l’accordo, qualora non ottenesse assoluta esenzione canonica dal potere dei vescovi diocesani. Ma su questo punto, e sulle soluzioni che si profilano, rinvio ad un prossimo post, ché mi avvedo di avervi per oggi già annoiato fin troppo.
Enrico

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