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sabato 26 dicembre 2009

Echi tridentini - Eco tridentino

Eco tridentino. Un calembour, perché stiamo parlando di Umberto Eco, cui dedichiamo l'odierna versione della nostra rubrica letteraria degli echi tridentini. E' un brano tratto, come prevedibile, da Il nome della rosa (1980), romanzo che si svolge in un monastero benedettino del XIV secolo. Il che ci porta in epoca anteriore al Concilio di Trento, ma nondimeno l'aggettivo 'tridentino' si giustifica, sia perché l'Autore, gli piaccia o no, è incontestabilmente segnato da una paideia post-tridentina, sia soprattutto perché sappiamo che il riferimento al Concilio di Trento in materia liturgica è puramente convenzionale, dato che la liturgia romana è rimasta essenzialmente la stessa dal primo millennio fino al 1969.

Nel brano che segue l'azione si svolge a matutino del sesto giorno (siamo, come informa il noto
incipit del romanzo, a 'fine novembre'). I monaci, terminato l'ufficio, intonano il graduale Sederunt principes della Messa di S. Stefano protomartire: non un inno prescritto per quell'occasione, quindi, ma l'artifizio è che l'abate inviti ad effettuare prove in vista della stagione natalizia che appropinqua.

Apprezzeremo l'inconfondibile prosa di Eco, in particolare l'uso disinvolto della figura retorica dell'accumulazione che qui, attraverso l'alluvionale richiamo ai nomi delle note tipiche del canto gregoriano ("neumi liquescenti e subpuntati" ... "vibrare di un
climacus o di un porrectus, di un torculus o di un salicus"), attinge risultati singolarmente evocativi. Non staremo quindi a pedanteggiare indugiando sulla singolare circostanza che i monaci cantino il gregoriano a più voci...

***

L'Abate invitò a intonare il "Sederunt":

Sederunt principes
et adversus me
loquebantur, iniqui.
Persecuti sunt me.
Adjuva me, Domine,
Deus meus salvum me
fac propter magnam misericordiam tuam.
Mi chiesi se l'Abate non avesse scelto di far cantare quel graduale proprio quella notte, quando ancora erano presenti alla funzione gli inviati dei principi, per ricordare come da secoli il nostro ordine fosse pronto a resistere alla persecuzione dei potenti, grazie al suo privilegiato rapporto col Signore, Dio degli eserciti. E invero l'inizio del canto diede una grande impressione di potenza.


Sulla prima sillaba "se" iniziò un coro lento e solenne di decine e decine di voci, il cui suono basso riempì le navate e aleggiò sopra le nostre teste, e tuttavia sembrava sorgere dal cuore della terra. Né s'interruppe, perché mentre altre voci incominciavano a tessere, su quella linea profonda e continua, una serie di vocalizzi e melismi, esso - tellurico - continuava a dominare e non cessò per il tempo intero che occorre a un recitante dalla voce cadenzata e lenta per ripetere dodici volte l'"Ave Maria". E quasi sciolte da ogni timore, per la fiducia che quell'ostinata sillaba, allegoria della durata eterna, dava agli oranti, le altre voci (e massime quelle dei novizi) su quella base petrosa e solida innalzavano cuspidi, colonne, pinnacoli di neumi liquescenti e subpuntati. E mentre il mio cuore stordiva di dolcezza al vibrare di un climacus o di un porrectus, di un torculus o di un salicus, quelle voci parevano dirmi che l'anima (degli oranti e mia che li ascoltavo), non potendo reggere alla esuberanza del sentimento, attraverso di essi si lacerava per esprimere la gioia, il dolore, la lode, l'amore, con slancio di sonorità soavi. Intanto, l'ostinato accanirsi delle voci ctonie non demordeva, come se la presenza minacciosa dei nemici, dei potenti che perseguitavano il popolo del Signore, permanesse irrisolta. Sino a che quel nettunico tumultuare di una sola nota parve vinto, o almeno convinto e avvinto dal giubilo allelujatico di chi vi si opponeva, e si sciolse su di un maestoso e perfettissimo accordo e su un neuma resupino.

Pronunciato con fatica quasi ottusa il "sederunt", s'innalzò nell'aria il "principes", in una grande e serafica calma. Non mi domandai più chi fossero i potenti che parlavano contro di me (di noi), era scomparsa, dissolta l'ombra di quel fantasma sedente e incombente.

E altri fantasmi, credetti allora, si dissolsero a quel punto perché riguardando lo stallo di Malachia, dopo che la mia attenzione era stata assorbita dal canto, vidi la figura del bibliotecario tra quella degli altri oranti, come se mai fosse mancato. Guardai Guglielmo e vidi una sfumatura di sollievo nei suoi occhi, la stessa che scorsi da lontano negli occhi dell'Abate. Quanto a Jorge, aveva di nuovo teso le mani e, incontrando il corpo del suo vicino, le aveva prontamente ritratte. Ma di lui non saprei dire quali sentimenti lo agitassero.

Ora il coro stava intonando festosamente lo "adjuva me", di cui la "a" chiara lietamente si espandeva per la chiesa, e la stessa "u" non appariva cupa come quella di "sederunt", ma piena di santa energia. I monaci e i novizi cantavano, come vuole la regola del canto, col corpo diritto, la gola libera, la testa che guarda in alto, il libro quasi all'altezza delle spalle in modo che vi si possa leggere senza che, abbassando il capo, l'aria esca con minore energia dal petto. Ma l'ora era ancora notturna e, malgrado squillassero le trombe della giubilazione, la caligine del sonno insidiava molti dei cantori i quali, persi magari nell'emissione di una lunga nota, fiduciosi nell'onda stessa del cantico, a volte reclinavano il capo, tentati dalla sonnolenza. Allora i veglianti, anche in quel frangente, ne esploravano i volti col lume, a uno a uno, per ricondurli appunto alla veglia, del corpo e dell'anima.

***

Enrico

5 commenti:

  1. Sarà quello di Perotino?
    Ecco il link con, purtroppo il solo inizio "SEDERUNT"
    http://www.youtube.com/watch?v=i_-sPWu2Q_o&feature=related

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  2. Bellissimo il brano di Eco! Sarà anche vero che - come disse lui stesso nel corso di un'intervista a Vittorio Messori - all'origine del "Nome della rosa" c'è la sua voglia pluridecennale di ammazzare un frate, ma il suo rapporto con la fede e la liturgia è certamente molto più complesso di quanto non mostri di credere lui.

    Quanto alla polifonia, anch'io come l'Anonimo delle 14.22 ritengo trattarsi dell'organum a quattro voci "Sederunt principes" del Magister Perotinus Magnus: il maestro fu attivo a Parigi fin verso il 1230, l'azione del "Nome della rosa" si colloca un centinaio d'anni dopo, niente da stupirsi che la diffusione degli organa nei monasteri benedettini fosse, in quel momento storico, un dato di fatto compiuto.

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  3. Ne "Il nome della rosa" trovo molto attuali e pertinenti anche gli eretici dolciniani che si sono ritagliati un ottimo posto all'interno dell'istituzione eccelesiastica (il potente monastero) per poter fare i comodacci loro all'ombra della cocolla. Eco aveva certamente in mente i sessantottini arrabbiati che si sono poi sistemati in qualche posto pubblico, ma restando in ambito ecclesiale la metafora gira ancora meglio.

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  4. ...PAIDEIA POST-TRIDENTINA? MA COME??!! E L'ERMENEUTICA DELLA CONTINUITA'????ALLORA PER VOI ESISTE UN POST-CONCILIO DI TRENTO COME ESISTE UN POST CONCILIO VATICANO??? ORRORE!!!

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  5. Ciao, Anonimo Strillone delle 17.46. Se perdi la trebisonda in questo modo a mente fredda in pieno inverno, la mente vacilla all'idea di quel che combinerai sotto il solleone del riscaldamento globale.
    Allora:
    1- Datti una calmatina, ché sennò ti salta la pressione.
    2 - Umberto Eco, data l'età e molti notissimi particolari biografici, ha avuto una formazione teologica e liturgica pre-conciliare (CVII), e cioè - semplificando un poco - post-tridentina.
    3 - Che esistano un post-CT e un post-CVII non è un fatto dottrinale, è semplicemente un ovvio elemento cronologico.
    4 - Dell'ermeneutica della continuità noi siamo convinti, soprattutto grazie alla carità cristiana e all'ottimismo della volontà. La Chiesa, assistita dallo Spirito Santo, è sempre la stessa. Certo che: per sentirmi in continuità con uno come te, ho bisogno di molta umiltà e molte molte preghiere: Signore, lo so che sono anch'io uno stronzo, aiutami a sentirmi fratello del mio intemperante interlocutore!

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