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mercoledì 9 dicembre 2009

Echi tridentini: Paul Bourget e il demone meridiano

Giunto alla piena maturità negli anni della transizione al nuovo secolo, Paul Bourget (1852-1935, nella foto), accademico di Francia e scrittore famoso, dovette prendere posizione in un conflitto davvero epocale. Agli occhi del mondo intellettuale soi disant progressista aveva accumulato fin allora notevoli titoli di merito: il suo amore giovanile per i versi di Baudelaire costituiva un ottimo fondamento; l’esplicita simpatia da lui manifestata per gli ideali rivoluzionari (nei mesi della “Comune”!) faceva correre un brivido di paura emozionata nella schiena dei suoi lettori, incantati dalla spiritualità intensa delle sue poesie e delle prime prove narrative: spiritualità sì, impregnata però di rassicurante scetticismo! La sua sensibilità gli aveva consentito di pre-sentire il decadentismo quando i naturalisti alla Zola si attardavano ancora nei riti pseudoscientifici del positivismo; i suoi romanzi ponevano l’ambientazione sociale sullo sfondo, privilegiando invece l’introspezione psicologica: riscoperta dell’individuo, attenzione ai turbamenti e alle anomalie della mente umana... Per questi alti meriti, Paul Bourget veniva ammesso trionfalmente all’Accademia.

Lo spartiacque fu il caso Dreyfus (1894). Un ufficiale dell’esercito francese, di famiglia ebrea,
è (ingiustamente) accusato di tradimento: processato, condannato, degradato, deportato. Il mondo intellettuale si divide, ma la maggioranza si schiera al fianco di Emile Zola (J’accuse), secondo cui Dreyfus è vittima innocente degli infami sostenitori di ogni tradizione: laudatores temporis acti, complottatori sionisti, filomonarchici, cattolici, incapaci di cogliere le magnifiche sorti e progressive di squadra e compasso, nostalgici del matrimonio indissolubile, della scuola confessionale e degli ordini religiosi contemplativi. Gli alfieri massonici del “libero pensiero” suonano la tromba; chi non si adegua viene additato al pubblico disprezzo, isolato, squalificato. Paul Bourget non si adegua.

Non si tratta di antisemitismo, da parte sua, sia chiaro: non ha assolutamente tentazioni di questo tipo. Ma la compagnia degli zolisti non gli piace: vi riconosce troppi “cattivi maestri”, esaltatori dell’immoralità e del radicalismo sovversivo. Conosce bene queste aberrazioni, che hanno caratterizzato per anni la sua formazione intellettuale e la sua vita; ma da tempo egli ha avviato un processo di riscoperta della fede, si commuove a parole d’ordine tipo “Trono e Altare”, respinge senza infingimenti le tronfie lezioni di sedicente tolleranza, sbeffeggia le velleità democraticistiche, disprezza populismo e suffragio universale. Nel 1900 dichiara pubblicamente di auspicare il ritorno della monarchia; l’anno dopo torna alla fede cattolica e alla pratica dei sacramenti.

Lo scandalo, nella repubblica delle lettere, è grande, la frattura resterà insanabile. La cultura ufficiale lo attacca con feroce determinazione, cerca di rendergli la vita difficile. Dalla solitudine e dalla depressione lo salva la fede recuperata, presenza costante al suo fianco fino alla fine; e l’amore del pubblico dei lettori, che mai viene meno. Ma alla sua morte, nel 1935, segue un’efficacissima congiura del silenzio: critici e storici della letteratura tentano di far sparire anche il ricordo di Paul Bourget. Con successo, tutto sommato.

Proviamo, nel nostro piccolo, a fare un piccolo passo in direzione contraria. Chiarendo – se ce ne fosse bisogno – che non si tratta di sposare tutte le battaglie, le impostazioni e le argomentazioni di un artista controverso, per certi aspetti superato, in qualche caso persino un po’ imbarazzante. [Ma chi non lo era, fra i suoi contemporanei? (E non solo in Francia)]. [E del resto, tanto per essere chiari, che tutti i cattolici fossero convinti della colpevolezza di Dreyfus è una bufala grossa come una casa: tre nomi fra i tanti la smentiscono al di là di ogni dubbio: il poeta Charles Péguy; Edgar Demange, avvocato-amico consigliere dell’imputato e della sua famiglia; il colonnello e giudice militare de Bréon]. Personalmente – lo confesso – non mi scandalizza più che tanto il fatto che un romanziere non sia stato capace di vedere giusto in un caso giudiziario (peraltro, all’epoca, tutt’altro che limpido). Non stiamo parlando di un giurista: nel letterato Paul Bourget mi imbarazza di più la mancanza di humour, la preferenza per i toni melodrammatici, l’onnipresenza di un io narrante ipertrofico e un po’ padreternale. Ma la qualità dell’invenzione è di prim’ordine, l’ambientazione storica appare informata e accurata, l’analisi psicologica credibile e ingegnosa, la progressione e il concatenamento delle vicende lascia a tratti senza fiato.
Il romanzo che più mi convince è Il demone meridiano: pubblicato in francese nel 1914, la sua prima edizione in italiano è del ’16, presso Salani. Questa traduzione è oggi scaricabile gratuitamente dal sito Totus tuus, insieme a diverse altre opere di Bourget, compreso l’altro importante romanzo Il discepolo (1889).

Il titolo fa riferimento al versetto 6 del Salmo 91: “ab incursu et daemonio meridiano”: questo misterioso demone che colpisce nel meriggio ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro, le interpretazioni dei Padri sono acute e controverse, spesso lo si identifica col demone dell’accidia. E’ un vero demonio, nefasto e maligno, argomenta nel romanzo il saggio e avveduto dom Bayle: «l’ora sesta, il nostro mezzodì, è assai temibile per i monaci. La stanchezza del corpo estenuato dalle veglie e dal digiuno finisce col fiaccare anche l’anima, che un turbamento invade. Così l’accidia, il disgusto, la tristezza delle cose di Dio, assale il cenobita destando in lui la nostalgia del secolo abbandonato, il desiderio d’una vita diversa, una rivolta intima e profonda. Questo è il demonio meridiano. Io, poi, dò lo stesso nome a un’altra tentazione, e non credo con ciò di mancare di rispetto alla Sacra Scrittura, gravida sempre più di sensi che non comporti la lettera nuda. La tentazione di cui parlo è quella che insidia l’uomo in sul mezzo non d’un giorno ma dei suoi giorni, nella pienezza della sua forza. Egli ha condotto fino a quel punto il suo destino di virtù in virtù, di vittoria in vittoria. Ed ecco che lo Spirito di distruzione s’impadronisce di lui; intendetemi bene: della sua propria distruzione.»

Due sono le vicende che s’intrecciano in questo romanzo, uno solo il protagonista, lo storico e polemista cattolico Louis Savignan. Uomo di successo, ha da poco superato i quarant’anni: credente solido, affidabile ed equilibrato, ottimo oratore, brillante nell’argomentazione, è vedovo e ha un figlio giovane e generoso, a lui legato da affetto e devozione. Un’opportuna e fortuita alleanza fra cattolici e radicali dissidenti punta su di lui per l’elezione suppletiva di un deputato alla Camera.

Ma il demone meridiano è in agguato: la giovane moglie del possidente radicale che organizza la sua campagna elettorale è Geneviève, la tenera e infelice creatura di cui Savignan è stato, giovanissimo, innamorato deluso. L’amore di ritorno è inesorabile e spazza via passato e presente: la storia di questo adulterio appassionato, con esiti drammatici oltre ogni dire, costituisce il primo dei filoni narrativi del romanzo; il secondo è la polemica vivacissima che oppone a Savignan – tanto ortodosso nella dottrina quanto immorale nel vissuto – il “cattivo maestro” Fauchon, sacerdote rigoroso e ascetico ma studioso e propagandista dell’eresia modernista, avviato orgogliosamente alla scomunica.

Eviterò di ripercorrere le vicende del romanzo, rinviando i lettori curiosi ai “libri gratis” del sito Totus tuus; nel tragico finale un giovane innocente sarà chiamato a pagare con la vita, in piena coscienza e con deliberato consenso, un debito che non è il suo. (Il Cristianesimo è poi tutto qui, commenterà, anch’egli colpito, l’antiveggente dom Bayle). Presenterò, piuttosto, tre brevi citazioni che attestano l’attualità di alcuni spunti del pensiero di Bourget.

- Un’interessante anticipazione del fenomeno oggi chiamato “degli atei devoti”: «Il sociologo che diceva: Io sono clericale e ateo, enunciava una formula che è soltanto apparentemente un paradosso. L’empirismo organizzativo può considerare la disciplina di una Chiesa come la condizione sine qua non di un certo ordine nazionale, e difendere questa Chiesa per difendere quest’ordine, senza occuparsi dei suoi dogmi.»

- Un’ovvia considerazione, utile a tutti i modernisti di ieri e di oggi: «Mi maravigliai ancora una volta che i modernisti non s’avvedano d’un fatto patente: la religione da loro sognata esiste già, e si chiama protestantesimo.»

- Il finale dell’opera, una specie di sugo manzoniano di tutta la storia: «L’insegnamento è questo: bisogna vivere come si pensa, se no, prima o poi, si finisce col pensare come s’è vissuto.»

Quanto agli “echi tridentini”, sarebbe facile far riferimento alle brevi citazioni relative all’ordinario della Messa (il salmo “Judica me Deus”), all’ordinario della Compieta, ai Vespri dei Defunti, al versetto del Graduale che recita: «Anima nostra, sicut passer, erepta est de laqueo venantium…» (L’anima nostra, come il passero, si è liberata dalla rete dei cacciatori), ascoltato da Savignan durante la Messa proprio nel momento in cui lo sventurato corre a impaniarsi nella rete del peccato mortale.

Più interessante mi sembra, invece, riportare il brano in cui un seguace di Fauchon illustra gli elementi di base della “modernista” fede predicata e praticata dal maestro. Di seguito, la descrizione della Messa “riformata” da questo parente (lontano?) degli “annibalici” e “farinellici” che ohinoi abbiamo dovuto imparare a conoscere.


*

«Abbiamo dunque, sotto la direzione del nostro maestro, inaugurato un culto cattolico, perché restiamo cattolici, ma un culto semplificato, o piuttosto, permettetemi di dirlo, purificato, ricondotto ai riti della Chiesa primitiva. (...) Intendiamo pregare conforme alle nostre credenze. Crediamo che Cristo ha istituito quattro Sacramenti: il Battesimo, la Penitenza, il Matrimonio e l’Eucaristia, non ne ammettiamo altri. Crediamo che è anzitutto una Vita. Cristo non si dimostra, si sente. Questo motto ammirabile dell’abate Fauchon è la nostra divisa. Ma se Egli vive, si evolve, e il suo campo di evoluzione è la Chiesa. Crediamo che questa evoluzione andrà fino alla salvezza universale. Non ammettiamo dunque l’Inferno. Come all’epoca delle catacombe, tra noi i sacerdoti vengono eletti dai fedeli, dei quali non sono che i delegati, perché ciascun fedele è un membro vivente del Sacerdote Eterno, che è Nostro Signore. Vogliamo che i nostri preti possano prendere moglie. (...) Vogliamo la Messa come era detta nei primi tempi, in lingua volgare, e l’abate Fauchon ce la dice così, da due mesi, tutte le domeniche, nella cappella di un antico convento che abbiamo preso a pigione per lui...»

*

Dopo aver pronunziato in francese le parole della Salutazione già rivolte da Booz ai suoi mietitori: Il Signore sia con voi!…, il Celebrante incominciò la supplicazione, la litania con cui nei primi secoli s’apriva la messa. Nel suo chimerico tentativo di ritorno ai lontani riti primitivi Fauchon aveva ridotto il santo sacrificio a pochi elementi semplicissimi: non più Introito, ma quella litania; la lettura, in guisa d’Epistola, d’una delle lettere che riceveva ogni giorno da traviati come lui; poi qualche versetto del Vangelo con un commento, e, per finire, la consacrazione, la comunione sotto le due specie, accompagnata da preghiere, il bacio di pace, insomma tutto un cerimoniale che doveva riprodurre la Cena. A quest’ultima parte dell’officio, egli aveva sempre più dato l’ampiezza e la solennità che la distinguevano nei primi secoli, quando la sinassi eucaristica, il pasto di carità, costituiva la messa tutta.»




Giuseppe

1 commento:

  1. Ahinoi, più Farinella che Bugnini? Veramente mi dicono che i riti farinelliani son molto lunghi.
    E' evidente, per parlare seriamente, che la lunga marcia di sovvertimento del significato della Messa era da tempo cominciata e che anche Bourget, ai suoi tempi, aveva respirato quel clima, quegli intenti. La decattolicizzazione intracattolica era cominciata, nonostante gli sforzi di San Pio X. Bugnini non avrebbe potuto fare quel che ha fatto senza una lunga preparazione culturale, un sovvertimento di senso che è il frutto del modernismo.
    Certo la Messa NO non è in sè sbagliata, è purtroppo aperta ad interpretazioni moderniste che ne alterano il significato e conducono a risultati nefasti, se non c'è una direttiva che incanali correttamente verso il giusto significato: il Sacrificio, il culto reso a Dio, non solo "pasto in comune".

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