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domenica 30 novembre 2025

Reggio Emilia, Mons. Morandi. La società ha perso il senso di Dio

Vi proponiamo oggi la lettura integrale dell'intensa omelia pronunciata lunedì scorso, 24 novembre  2025, da S.E. Mons. Giacomo Morandi, Arcivescovo - Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, in occasione della Solennità del Patrono di Reggio Emilia San Prospero.

È un intervento che merita attenzione per la lucidità e il coraggio con cui il Vescovo affronta le contraddizioni della società contemporanea, specialmente in una terra ricca e ben amministrata come l'Emilia. Mons. Morandi non si rifugia in frasi di circostanza, ma va dritto al cuore del problema antropologico moderno.

Ecco alcuni passaggi chiave che vi invitiamo a notare:

  1. L'Identità come premessa al dialogo: Contro la vulgata che vorrebbe la cancellazione dei simboli religiosi in nome di una malintesa accoglienza, l'Arcivescovo ribadisce che "l'identità non è un ostacolo al dialogo, al contrario ne è una condizione", invitando a custodire con "sana gelosia" le tradizioni cristiane, a partire dal Presepe.
  2. Il dramma educativo e psichiatrico: Mons. Morandi cita dati allarmanti (aumento del 107% dei ricoveri psichiatrici tra i minori in 5 anni) per smascherare l'illusione che il benessere economico coincida con la felicità. "Il benessere sembra non essere un sufficiente antidoto... Chi è venuto a mancare?".
  3. L'Eclissi di Dio: Con citazioni che spaziano da Dostoevskij a Nietzsche, l'omelia individua nella "morte di Dio" la causa della dissoluzione dell'uomo e della crisi demografica e familiare. "La negazione della sua esistenza non è forse la causa della follia?".

Un richiamo forte, cattolico, a ritrovare l'unica vera pace in Dio, contro il processo rivoluzionario, giunto nella sua fase in interiore homini che cerca di distruggere l’essenza stessa dell’uomo.

Di seguito il testo integrale dell'omelia e QUI e sotto il video integrale.

Luigi C.

Solennità di San Prospero

Omelia dell’Arcivescovo Monsignor Giacomo Morandi

Basilica di San Prospero, Reggio Emilia

24 novembre 2025

 

«Signore ci hai creati per te
e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te
»

«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. […] Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che l’accompagnavano»[1]. In queste parole di Gesù è contenuta, in modo sintetico ed efficace la missione che il Signore ha affidato alla Chiesa: proclamare il Vangelo ad ogni creatura. Il Vangelo, grazie agli apostoli e a una catena ininterrotta di testimoni, è giunto fino a Reggio Emilia e Guastalla e noi oggi onoriamo e veneriamo San Prospero, nostro Patrono, come una pietra miliare di questo cammino di annuncio ed evangelizzazione del nostro territorio.

L’esperienza e la vita cristiana sono, pertanto, una realtà essenziale della nostra identità sociale e pubblica che non si può e non si deve cancellare, quasi costituisse un potenziale impedimento all’incontro con coloro che provengono da altri contesti culturali e religiosi. L’identità non è un ostacolo al dialogo, al contrario ne è una condizione ed una premessa indispensabile. Reggio Emilia, da questo punto di vista, ha imparato ad essere una città accogliente, attraversando periodi storici travagliati come quelli dell’immediato dopo guerra, dove le diversità sociali e politiche hanno avuto anche risvolti drammatici e dolorosi.

L’accoglienza che abbiamo imparato non può ridimensionare o impoverire la nostra tradizione. Anzi, mentre rispettiamo chi viene da altre esperienze culturali e religiose, chiediamo di potere condividere e custodire – direi con una certa e sana gelosia – i nostri doni, la nostra tradizione cristiana, i nostri simboli che tanto hanno contribuito alla costruzione della nostra città, del nostro paese Italia e dell’intero continente europeo, che ha nelle radici cristiane una delle sue componenti identitarie fondamentali. Tra i simboli più amati dal nostro popolo c’è il presepio, il cui iniziatore fu proprio San Francesco, patrono d’Italia e infaticabile costruttore di pace. Tra un mese circa celebreremo il Santo Natale, cerchiamo di non dimenticare chi è il festeggiato! È il Natale del Signore. Anche chi vive in una prospettiva diversa non può non riconoscere che da circa duemila anni ci sono uomini e donne che festeggiano la nascita del Cristo, di Gesù.

Ringrazio di cuore i tanti che continuano a adoperarsi con generosità e disponibilità in questa direzione, specie nell’ambito educativo e dell’istruzione, in particolare i docenti che quotidianamente si spendono in un dialogo fecondo con i loro alunni, con grande rispetto e attenzione della loro storia e tradizione culturale e religiosa.

In questi giorni sono stati pubblicati diversi rapporti sulla qualità della vita nelle città del nostro paese, ed è sicuramente confortante che la nostra città di Reggio sia entrata tra le prime dieci città italiane per la qualità della vita, guadagnando ben nove posizioni. Buoni risultati nel campo dell’ambiente e dell’istruzione, un po’ meno su salute, lavoro e turismo, ma c’è un dato che mi ha profondamente colpito ed è ciò che emerge dal tredicesimo rapporto sulla coesione sociale a Reggio Emilia: il disagio mentale che affligge la nostra gente, in modo particolare i giovani. I dati sono veramente inquietanti: i ricoveri tra i minori di 18 anni sono cresciuti dal 2019 ad 2024 del 107% e anche il numero dei bambini in carico alla neuropsichiatria infantile, sempre nel medesimo arco di tempo, è cresciuto del 23%. Sono dati impressionati, allarmanti, inquietanti che evidentemente colpiscono non solo la nostra popolazione, ma indicano in modo inequivocabile la necessità di mettere in campo tutte le nostre risorse e capacità perché tale epidemia sia urgentemente affrontata.

Il benessere di cui gode la nostra terra sembra non essere sufficiente, sembra non essere un sufficiente antidoto o vaccino, non basta! Che cosa tormenta i nostri bambini e i nostri giovani? Che cosa è venuto a mancare? O meglio, Chi è venuto a mancare?

Quasi 40 anni fa, precisamente il 20 gennaio 1986, i Vescovi dell’Emilia-Romagna, scrissero una nota pastorale: “Una Chiesa che guarda al futuro”. In quella nota, che può essere soltanto aggiornata riguardo ai dati di cui stiamo parlando, i Vescovi osservavano che nella nostra regione affiorava «un’impressione di stanchezza e mancanza di obiettivi. La mentalità e il costume prevalenti sono quelli di una società ampiamente consumistica ed edonistica. Lo attestano ad esempio la bassissima natalità – che in questi anni si è ulteriormente aggravata, se pensiamo alle proiezioni demografiche nella nostra regione che tra dieci/undici anni ci saranno quasi 100.000 bambini in meno e l’altissima percentuale degli aborti, […] il calo della nuzialità, la grande incidenza di consumi voluttuari, la diffusione della tossicodipendenza e dei suicidi; tutti indicatori ben più elevati della media nazionale. […] Fenomeni di questo genere sono oggi certamente presenti un po’ in ogni angolo del nostro Paese. […] Tuttavia non si può sorvolare […] sulla particolare intensità che essi raggiungono in Emilia-Romagna»[2].

In queste parole che possono apparire severe, in realtà ci sono indicazioni importanti, preziose di alcune cause di quel malessere profondo che attraversa il nostro tempo e che coinvolge e travolge la speranza di tanti giovani e non. Sono un esame di coscienza, innanzitutto per noi credenti. Le nostre comunità cristiane sono luoghi in cui i nostri giovani possono attingere a quei contenuti e risposte di speranza che il Vangelo annunciato e vissuto porta sempre con sé? Qual è la visione antropologica che ispira i nostri pensieri e la nostra azione ecclesiale e anche politica? Possiamo pensare che il benessere sia sinonimo di salvezza? Possiamo eludere le domande di senso e di significato che prima o poi si impongono nella vita di ogni uomo e nel nostro cuore? Perché vivo? Che cosa mi dà la forza di affrontare con coraggio e fiducia le prove e le difficoltà che la vita ci presenta? Perché devo amare il prossimo? Perché devo amare e servire il mio fratello povero e indifeso? Quale significato dare alla malattia, al dolore e infine alla morte? Possiamo realmente pensare che avesse ragione Jacques Monod quando affermava che tutto è frutto del caso e della necessità[3]?

Possiamo continuare a mortificare quella dimensione trascendente che ogni uomo ha inscritto nel profondo del suo cuore? Non aveva forse ragione Dostoevskij quando affermava che se Dio non esiste, tutto diventa possibile[4]? È la tesi di fondo del celebre romanzo I fratelli Karamazov. La negazione della sua esistenza non è forse la causa della follia di Ivan Karamazov?

Il disagio profondo che molti di noi stanno vivendo non è forse l’esito tragico dell’eclisse di Dio? La morte di Dio – come annunciava entusiasticamente Nietzsche[5] – non ha forse portato con sé anche la dissoluzione di colui che è creato a sua immagine e somiglianza: l’uomo?

Credo sia un dato incontrovertibile che la crisi della famiglia nel nostro mondo occidentale coincida con il suo declino. I dati demografici del nostro paese sono implacabili nel dirci che siamo un paese che sembra aver perso la speranza nel presente e anche nel futuro.

Sono interrogativi che come credente e Vescovo mi assalgono quotidianamente, soprattutto quando ascolto le parole dell'Apostolo Paolo – non sempre i sogni di un Vescovo sono tranquilli se pensa alla grande responsabilità che gli è affidata – e mentre attraverso e percorro la nostra amata terra, pensando ai nostri bambini, ai giovani e alle famiglie che sono da tanto tempo, troppo, in attesa che qualcuno bussi alla loro porta, alla porta del loro cuore per annunciare quella gioia e speranza di cui come credente sono destinatario e al tempo stesso responsabile! La gioia è il grande segreto e dono che il credente può fare a tutte le persone che incontra! La gioia che nasce dall’essere amati! La gioia che nasce qui, da un Dio che è «misericordioso e pietoso […], lento all’ira e grande nell’amore»[6]! Nel celebre romanzo Diario di un curato di campagna uno dei protagonisti, il parroco di Torcy, dice: «Non è colpa mia se porto questa divisa da beccamorto. Dopo tutto il Papa si veste di bianco e i cardinali di rosso; avrei diritto di andarmene parato come la regina di Saba io, perché porto la gioia!»[7].

Abbiamo bisogno, cari fratelli e sorelle, di fare questa esperienza, di essere amati, sopra di noi non c'è un supremo orologiaio, un architetto, c'è un Padre che ci ama, incondizionatamente, nella nostra povertà, nella nostra miseria. Abbiamo bisogno di diffondere gioia, che è ben altra cosa dal piacere e dal benessere! Certo, come credenti non possiamo assecondare pensieri di scoraggiamento o di resa. Ogni generazione di credenti e non credenti deve affrontare e deve confrontarsi con queste domande, senza indulgere al pessimismo o alla rassegnazione.

Uniamo le nostre forze per aiutare i nostri giovani a riscoprire la bellezza e il fascino di una vita spesa e vissuta nel dono di sé e ricordiamoci della lezione di Sant’Agostino, che grazie anche a Papa Leone è ritornato in auge: «Domine, fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te – Signore, ci hai fatto per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te»[8]!



[1] Mc 16,15.20.

[2] Una Chiesa che guarda al futuro. Nota pastorale dei vescovi dell’Emilia-Romagna, Bologna, EDB, 20 gennaio 1986, nn. 4-5.

[3] Cf. Jacques Monod, Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 2001.

[4] Cf. Fëdor M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1992, vol. II, pag. 866.

[5] Cf. F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, Marzorati, Milano, 1976, vol. XXV, pagg. 213-214.

[6] Cf. Sal 103 (102), 8.

[7] Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano, 1998, p.552.

[8] Sant’Agostino, Le Confessioni, 1,1.5.