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sabato 29 novembre 2025

La quadratura del cerchio nell’interpretazione cattolica della libertà religiosa

Vi proponiamo – nella traduzione curata dall’autore – l’articolo di don Claude Barthe, liturgista e cappellano del Pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum, pubblicato sul sito Res Novae il 4 novembre, in cui, replicando a padre de Araujo, esamina il diritto alla libertà religiosa alla luce della dichiarazione Dignitatis humanae.

Lorenzo V.


Padre Antoine-Marie de Araujo F.S.V.F. critica, peraltro in modo estremamente cortese, in un articolo di Sedes Sapientiæ, Neutralité religieuse de l’État?¹, il nostro articolo Il Ralliement all’origine del magistero pastorale del Concilio Vaticano II, apparso in Res Novæ² [QUI: N.d.R.].

La «proposizione Barthe» criticata da padre Antoine-Marie de Araujo è la seguente: «Il n. 2 della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanæ impone allo Stato di permettere (non impedire) parimenti la diffusione pacifica del vero e del falso. Ciò equivale a consacrare la neutralità religiosa intrinseca dello Stato, novità considerevole».

Secondo padre Antoine-Marie de Araujo, «questo testo [Dignitatis humanæ, n. 2] non dice di permettere parimenti il vero ed il falso. Non parla nemmeno di errore, né di verità. Il criterio è la fedeltà alla coscienza. Ciò significa che la libertà religiosa non favorisce gli atti che l’uomo compie contro la sua coscienza, cioè non favorisce il peccato formale (commesso consapevolmente): ad esempio il peccato formale di blasfemia o il peccato formale di eresia».

Proteggere la diffusione del vero e del bene, impedire (prudentemente) quella del falso e del male

Vediamo quindi il testo della dichiarazione Dignitatis humanæ n. 2: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società» [QUI: N.d.R.].

Il nostro articolo non riprendeva tutte le spiegazioni anteriori alla conclusione che abbiamo tratto, ma è possibile richiamarle. L’affermazione della libertà religiosa interviene nell’ambito denominato diritto pubblico tradizionale della Chiesa. Quest’ultimo poneva delle esigenze, che appaiono oggi in totale contrasto con la realtà di un mondo politico governato dai principi laici derivanti dalla Rivoluzione. È tuttavia importante salvaguardare tali principi tradizionali e tenerli presenti per difendere malgrado tutto la libertà della Chiesa.

Da Papa Pio VI al venerabile Papa Pio XII, la Chiesa si aspetta da uno Stato che esso rispetti questi principi – di tali Stati ce n’erano ancora nel 1965, all’epoca della dichiarazione Dignitatis humanæ –, che esso protegga ed incoraggi per legge il culto organizzato dalla Chiesa e la diffusione della dottrina cattolica e che impedisca per legge la diffusione pubblica dell’errore. Così, ad esempio, la lettera enciclica Libertas di Papa Leone XIII: «La verità e l’onestà hanno il diritto di essere propagate nello Stato con saggezza e libertà, in modo che diventino retaggio comune; le false opinioni, di cui non esiste peggior peste per la mente, nonché i vizi che corrompono l’animo e i costumi, devono essere giustamente e severamente repressi dall’autorità pubblica, perché non si diffondano a danno della società» [QUI: N.d.R.].

Al contrario, la dichiarazione Dignitatis humanæ chiede che in materia religiosa non venga messa in atto alcuna coercizione da parte di alcun potere umano – cioè, di fatto, essenzialmente da parte dello Stato – sull’agire pubblico esercitato in coscienza. Qui sta il conflitto tra il magistero tradizionale e la dichiarazione del Concilio Vaticano II. Secondo il magistero tradizionale, se tale agire va nel senso del vero e del bene, non solo non deve essere impedito, ma, al contrario, dev’essere tutelato ed incoraggiato per legge. Invece, se va contro il vero ed il bene oggettivo, dev’essere impedito per legge.

In termini molto concreti, il ribaltamento operato dal Concilio Vaticano II è consistito nel far sapere allo Stato cattolico che, d’ora in poi, gli atti pubblici di culto delle Chiese separate e delle religioni non cristiane, nonché la diffusione delle loro dottrine, non potevano essere impediti: così il diritto alla libertà religiosa è diventato un diritto civile. Per questo motivo lo Stato ha il dovere di consentire (non impedire) la diffusione del protestantesimo, dell’islam ecc. Se le parole hanno un senso, si tratta proprio di consentire (non impedire) parimenti la diffusione pacifica del vero e del falso.

Certo, la dichiarazione Dignitatis humanæ ammette, a mo’ di concessione, che possano esistere degli Stati confessionali ed, in particolare, Stati cattolici, ma a condizione che rispettino la libertà religiosa: «Se, considerate le circostanze peculiari dei popoli nell’ordinamento giuridico di una società viene attribuita ad un determinato gruppo religioso una speciale posizione civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutti i gruppi religiosi venga riconosciuto e sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa» (DH 6).

La coscienza e la legge

È qui che interviene la sottigliezza di padre Antoine-Marie de Araujo: quando il n. 2 della dichiarazione Dignitatis humanæ afferma che la libertà religiosa vuole che nessuno sia impedito ad agire secondo la propria coscienza, bisogna intendere che «la libertà religiosa non protegge gli atti che l’uomo compie contro la propria coscienza, cioè che essa non protegge il peccato formale».

La difficoltà sta nel fatto che il potere pubblico debba allora penetrare nel foro della coscienza e discernere per ciascun individuo, che compie atti pubblici contrari alla vera religione, se agisca o meno secondo la propria coscienza. Lo Stato dovrebbe giudicare, se ben si comprende, il carattere invincibilmente errato o meno della coscienza di ogni individuo, che diffonde l’errore o il male. Lo spazio di libertà dell’errore si ridurrebbe così agli atti malvagi in materia religiosa compiuti in buona fede o, più precisamente, secondo una coscienza invincibilmente erronea. Ma tutti gli altri atti pubblici contrari alla verità potrebbero essere impediti, in particolare i peccati di eresia. A ciò padre Antoine-Marie de Araujo aggiunge che «la verità si impone alla coscienza più dell’errore», il che è di per sé innegabile, ma da qui egli conclude in modo un po’ ottimistico, per non dire liberale, che «affermare la libertà di agire pacificamente seguendo la propria coscienza significa dare molta più libertà alla verità che all’errore». Mutatis mutandis, Charles de Montalembert, nel suo discorso di Malines del 20 agosto 1863, era animato da un ottimismo simile: «Di tutti gli abusi che permette la libertà, forse non ce n’è uno solo che resista a lungo alle contraddizioni, alla resistenze del senso morale che la libertà suscita e che essa arma del suo inesauribile vigore».

Resta il fatto che gli atti errati in materia religiosa (ateismo e false religioni) sono evidentemente molto diffusi. Occorre concluderne che essi siano il più delle volte compiuti contro la coscienza dei loro autori… e che, per questo fatto, essi non siano tutelati dalla legge? Come peccati formali, commessi con cognizione di causa, possono essere legittimamente impediti. Invece, gli atti contrari alla vera religione compiuti secondo una coscienza invincibilmente erronea – molto rari nell’ipotesi di padre Antoine-Marie de Araujo – non potrebbero essere impediti. Il venerabile Papa Pio XII aveva tuttavia ricordato il 6 dicembre 1953 un principio, nel discorso Ci riesce ai giuristi cattolici: «ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto né all’esistenza, né alla propaganda, né all’azione» [QUI: N.d.R.]. Oggettivamente: siamo nell’ambito della legge. La libertà religiosa, così come la interpreta padre de Araujo, non annullerebbe frontalmente, ma introdurrebbe una mitigazione al principio posto dal venerabile Papa Pio XII: il male e l’errore non hanno alcun diritto, salvo che chi commetta questo errore o questo male morale agisca secondo una coscienza invincibilmente erronea. Questa piccola finestra concessa da padre de Araujo alla libertà religiosa viene così precisata: «La dichiarazione Dignitatis humanæ n. 2 permette allo Stato di impedire il peccato deliberato in materia religiosa e gli chiede di lasciare alle credenze una libertà proporzionata alla loro credibilità». Egli conclude: «Si è lontani dalla neutralità [dello Stato]». È vero, poiché allo Stato viene riconosciuto il diritto di valutare la sincerità delle false credenze per decidere se debba consentirle o meno.

La libertà religiosa ben intesa consisterebbe quindi nel «lasciare alle credenze una libertà proporzionale alla loro credibilità». Ora, padre Antoine-Marie de Araujo ha giustamente spiegato, citando mons. Lucien Bernard Lacoste S.C.I. di Béth., che, quando l’intelligenza è posta seriamente di fronte al proprio oggetto, la verità, essa non può non coglierlo³. La credibilità della vera religione è assoluta, quella delle altre credenze è nulla. Ciò sembra voler dire che la libertà religiosa è concessa solo alla vera fede.

Si ha così l’impressione che, per cancellare la discontinuità col magistero tradizionale, padre Antoine-Marie de Araujo assimili la libertà religiosa alla libertà della Chiesa. Un modo di procedere pieno di buona volontà, che fa pensare a quello di Papa Benedetto XVI nel suo discorso sulle due ermeneutiche del Concilio⁴, dove il Papa sembrava assimilare la libertà religiosa alla libertà dell’atto di fede: la libertà religiosa è « una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento», cosa che l’intero insegnamento tradizionale approva [QUI: N.d.R.].

Ma la dichiarazione Dignitatis humanæ non parla della libertà, di cui gode solo la verità espressa dall’unica Chiesa di Cristo, cioè la libertà della Chiesa, né dell’impossibilità di obbligare chiunque a credere, cioè della libertà dell’atto di fede. La dichiarazione Dignitatis humanæ, come afferma Papa Benedetto XVI nel discorso citato, ha voluto cristianizzare «un principio essenziale dello Stato moderno». Il criterio della legge in ciò che concerne l’organizzazione dello spazio religioso pubblico non è più quel criterio oggettivo che è il magistero della Chiesa, bensì il rispetto della coscienza individuale. Per riassumere, si può dire che l’obiettivo di questo testo, ispirato in particolare dallo statunitense padre John Courtney Murray S.I., era in sostanza duplice:
  • ai governanti, che, bene o male, in quel periodo cercavano di attuare «la costituzione cristiana delle società» predicata dalla lettera enciclica Immortale Dei, chiedeva di smetterla di impedire la diffusione pubblica dell’errore per rispetto della coscienza [QUI: N.d.R.];
  • ai governanti, che applicavano una laicità persecutrice o aggressiva, chiedeva di adottare una laicità favorevole all’espressione libera delle diverse religioni, implicitamente modellata su quella degli Stati Uniti d’America⁵.

Note:

¹ № 173, pagg. 41-45.

² 7 maggio 2025, Il Ralliement all’origine del magistero pastorale del Concilio Vaticano II ( Res Novae - Perspectives romaines).

³ Bernard Lucien, Petite suite sur la liberté religieuse de Vatican II, Sedes Sapientiæ 97, pag. 31.

⁴ Discorso alla Curia, 22 dicembre 2005.

⁵ Papa Benedetto XVI, riferendosi in modo positivo a Alexis de Tocqueville, diceva che gli Stati Uniti d’America sono «un paese in cui la religione e la libertà sono “intimamente legate” nel contribuire ad una democrazia stabile che favorisca le virtù sociali e la partecipazione alla vita comunitaria di tutti i suoi cittadini» (discorso al Pope John Paul II Cultural Center, Washington, 17 aprile 2008) [QUI: N.d.R.].