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mercoledì 12 novembre 2025

Dilexi Te e il Pericolo del Neo-Fariseismo

Gaetano Masciullo e altri in appfondimento delll'Esortazione Apostolica Dilexit Te.
Unisinos – Istituto Humanitas- Fra Betto: "Dilexi te consacra la teologia della liberazione”.
Crisis Magazine – John Grondelski: Quando l’accoglienza collide con Cesare: Dilexi te e la domanda che manca. “Ricorrere a precedenti storici risalenti a un'epoca e a un ordinamento giuridico diversi per giustificare l'immigrazione clandestina di massa nel presente è un'analogia che va oltre ogni ragionevolezza.” La prima domanda nasce da ciò che Dilexi Te non chiede: lo status giuridico di un «migrante». L'Esortazione semplicemente ignora la questione. Ci sono solo «migranti».Cosa dobbiamo dedurre da questa omissione? Che lo status giuridico di un migrante è irrilevante? Ciò sorprenderebbe quasi tutti gli Stati del mondo, ognuno dei quali non solo distingue tra immigrati legali e illegali, ma anche tra le diverse categorie legali: lavoratori temporanei con visti non immigranti, rifugiati, richiedenti asilo, persone in libertà vigilata o residenti permanenti. Lo status giuridico di un migrante determina i diritti, i doveri e il futuro di quella persona nel paese ospitante. (...) Omettendo la questione fondamentale, ovvero lo status giuridico, si discute di migrazione come se l'ordine politico moderno non esistesse. Quando a Gesù fu chiesto di pagare le tasse a Roma, Egli non si limitò a eludere una trappola, ma riconobbe che, sebbene la supremazia di Dio fosse assoluta, Cesare aveva diritti reali e subordinati.(…) Tra Dio e Cesare, l'Esortazione sembra aver dimenticato che entrambi hanno ancora diritti legittimi su di noi”.
Reinformation.TV – Jeanne Smits: Riflessioni su Dilexi te, l’esortazione apostolica sui poveri:  “…Questo corrisponde bene al modo di agire di Leone XIV, già ben visibile oggi: non mettersi in opposizione frontale, insistere sulla continuità della Chiesa aggiungendo però tocchi personali, se non addirittura correzioni. (...) Una Chiesa povera con i poveri, l'opzione preferenziale per i poveri, le «strutture del peccato»: tutte queste parole chiave care ai teologi della liberazione si trovano effettivamente nel testo. Ma poiché in questo testo si parla principalmente di atteggiamenti, doveri e azioni individuali, è difficile vedere la dialettica marxista inserirsi nel testo. (...) In un commento a Dilexi te pubblicato da Rorate-Caeli, Roberto de Mattei osserva che «se il tema della povertà è bergogliano, l'approccio non è lo stesso». “Papa Francesco sembrava esortare a un impegno politico e sociale attivo, mentre Leone XIV invoca un impegno morale e caritatevole”.
QUI Roberto de Mattei.
QUI ancora Gaetano Masciullo: "Dilexi Te, ovvero la Povertà come Equivoco Teologico".
QUI e sotto il video.
Luigi C.

Gaetano Masciullo, Ottobre 16, 2025

This is the Italian translation of the article published in One Peter Five, October 14, 2025.

N.B. Tutti i riferimenti a san Tommaso d’Aquino qui inclusi sono specificati nelle note a piè di pagina del link originale.

L’Esortazione Apostolica Dilexi Te pubblicata da Papa Leone XIV, lo scorso 9 ottobre 2025, è l’anello di congiunzione tra il Pontificato di Francesco e quello di Prevost. I temi sono quelli ripetuti a oltranza negli ultimi dodici anni: povertà, Chiesa povera, primato dell’assistenza, condanna della disuguaglianza economica, giustizia sociale, teologia del popolo, cultura dello scarto, crisi ecologica, doppia povertà nel caso delle donne (perché private anche dei diritti), emergenza umanitaria dei migranti, necessità politica dei movimenti popolari (le famose comunidad de base di bergogliana memoria), necessità di usare scienza e tecnica per trasformare la società, e soprattutto massima fiducia negli Stati e negli organismi internazionali, indicati come gli esecutori privilegiati della giustizia sociale e addirittura indicati come i depositari di un fantomatico e inquietante “diritto di controllo”.

Tuttavia, in questo commento non voglio soffermarmi sulla problematica impostazione teologica e sociologica di fondo, secondo cui la disuguaglianza economica (anziché il peccato) sarebbe l’origine di tutti i mali sociali e la redistribuzione delle risorse (anziché la grazia) la soluzione degli stessi; e la povertà materiale viene presentata contraddittoriamente come un grave male sociale e al contempo uno dei massimi beni spirituali, tanto che il lettore alla fine non capisce se sia auspicabile la sua eradicazione o meno, o se sia piuttosto auspicabile la rimozione dei soli ricchi, sicché tutti poveri significa essere tutti felici. Non è neanche chiaro se vi sia una differenza tra “spirituale” e “psichico” nel linguaggio dell’Esortazione.

Questo a fronte della teologia classica, che invece vede nella povertà in spirito e nella povertà evangelica due strumenti spirituali potentissimi, che si distinguono dalla povertà materiale perché non hanno a che fare con la quantità di ricchezze che si possiede, quanto con la predisposizione del cuore al distacco affettivo da tutti i beni terreni (incluse le relazioni umane) e si distinguono per essere volontarie. Sicché un re ricco e potente può essere povero in spirito, mentre un senzatetto può essere un vizioso, superbo e turpe peccatore.

In particolare, la povertà evangelica è quella scelta di vita ispirata all’esempio di Cristo e degli apostoli, che “non avevano dove posare il capo”, ed ha una forte dimensione penitenziale, analogamente al celibato volontario.

San Tommaso d’Aquino spiega quando sia lodevole la povertà: “La verginità implica l’astensione da ogni piacere sessuale, e la povertà comporta la rinuncia a tutte le ricchezze, ma entrambe devono essere vissute per un fine giusto: secondo il comando di Dio e in vista della vita eterna. Se invece vengono osservate in modo improprio — per superstizione, timore eccessivo o vanagloria — si eccede la misura, e ciò non è virtù. Al contrario, se non vengono osservate quando e come dovrebbero, si cade in un vizio per difetto”.

La povertà materiale, invece, in quanto involontaria o addirittura coatta (come avviene in taluni contesti socio-politici), non è per se stessa meritoria e non è per se stessa sinonimo di umiltà. Anzi, può benissimo darsi il caso di persone materialmente povere ma spiritualmente superbe e persino avide. Insomma, sembra che la questione della povertà venga risolta in maniera molto grossolana.

Preoccupa, inoltre, la confusione che sembra presentarsi all’interno dell’Esortazione circa la povertà materiale e la povertà in spirito cui si fa riferimento nel Vangelo. Sempre San Tommaso ci ricorda, facendo eco alla Tradizione cattolica e alla Patristica, che “come prima beatitudine si pone: Beati i poveri in spirito, che si può riferire al disprezzo delle ricchezze oppure al disprezzo degli onori, cosa che avviene mediante l’umiltà”.

Tuttavia, c’è un altro elemento che mi sembra importante sottolineare nella nostra analisi di Dilexi Te, ovvero che sembri assecondare la crescente confusione — ormai dominante anche all’interno della Chiesa cattolica — tra carità, amore e filantropia. Sebbene i tre concetti si sfiorino, nel linguaggio teologico cattolico indicano realtà profondamente diverse, che vanno rigorosamente distinte. Confonderli significa spalancare le porte a quella deriva spirituale e sociale che io definisco “neo-fariseismo”.

Come il lettore sa, i farisei costituivano una setta del giudaismo antico, la quale predicava la rigorosa osservanza della Legge. I farisei erano una casta religiosa, ma attenzione: non una casta sacerdotale, anzi erano per lo più laici (rabbini e studiosi) che andavano a formare il Sinedrio, un tribunale di “esperti” incaricati di educare il popolo. Secondo i farisei, la salvezza si otteneva con le opere buone.

Essi interpretavano la dottrina mosaica come ortoprassi più che come ortodossia. Solo in virtù di opere buone, l’uomo poteva essere moralmente puro (perushim, in ebraico, significa “puri” e “separati”, similmente a quanto avverrà con la parola cataro nell’Europa medievale).

Oggi nella Chiesa si assiste ad una tendenza simile: priorità delle opere sulla dottrina; primato della dimensione comunitaria su quella sacerdotale; fiducia negli esperti che devono orientare non solo il popolo, ma persino il clero nelle scelte da fare.

Questo, ovviamente, porta a conseguenze sociali di rilievo, come l’esigenza di “mostrare” a tutti la propria bontà, ostentando le elemosine compiute. Da qui la condanna che Cristo rivolse al lievito dei farisei, cioé al vizio dell’ipocrisia.

Ricordiamo, invece, che nella dottrina cattolica il rapporto con le opere buone segue un ordine e una logica diversa. Proviamo ad esaminare con maggiore attenzione questo problema.

Il primo parallelismo evidente riguarda l’eccessivo primato delle opere sulla vita interiore. I farisei antichi attribuivano alla semplice osservanza delle leggi e alle opere una forza salvifica. Analogamente, oggi nella Chiesa si osserva un’attenzione sproporzionata alle opere filantropiche e al rispetto della legge civile. Al tempo degli antichi ebrei legge civile e legge religiosa coincidevano, oggi non più, ma la sostanza è invariata.

La filantropia moderna è “misura di moralità” ancor prima che strumento di prestigio sociale e sostituisce il primato della carità intesa come virtù teologale, che nasce dall’amore di Dio e si estende al prossimo.

Quando questi concetti si confondono, si rischia di sostituire l’amore vero con un amore “strumentale”, misurato in opere visibili o in risultati tangibili, senza che vi sia un reale coinvolgimento del cuore e della volontà. In tal modo, la pratica religiosa si riduce a una sorta di “competizione morale”, esattamente come accadeva tra i farisei nel loro orgoglio rituale. Nella Chiesa odierna, questo atteggiamento è particolarmente evidente, anche se la sua esistenza viene puntualmente negata da chi si fa artefice.

Una traduzione dottrinale di questo neo-fariseismo è evidente, tra le altre cose, nella teologia elaborata da Karl Rahner, detta del cristianesimo anonimo. Secondo il gesuita neo-modernista, colui che, pur non conoscendo Cristo né appartenendo alla Chiesa cattolica, vive secondo buoni principi e al servizio del prossimo, partecipa della salvezza di Cristo.

Attenzione: la dottrina del cristianesimo anonimo va al di là della dottrina classica e ortodossa secondo cui un uomo, pur non conoscendo Cristo, può salvarsi qualora la sua ignoranza sia invincibile e rispetti la legge naturale. Un percorso possibile di salvezza, alternativo e però straordinario, quindi raro e difficile da perseguire.

Al contrario, la dottrina del cristianesimo anonimo vuole che la salvezza sia universale, più ordinaria di quanto non si creda, e più che sulla nozione di legge naturale si fonda appunto sulla nozione di servizio del prossimo. Rahner parlava di “grazia inclusiva”. Ma è davvero questo ciò che insegnano la Sacra Scrittura e la dottrina cattolica?

È necessario ribadire un punto che spesso sfugge anche ai cattolici più attenti: la carità non coincide con il sentimento che chiamiamo amore. La virtù teologale della carità è una virtù soprannaturale che dispone la volontà a perseguire sopra ogni cosa ciò che Dio vuole da noi, e quindi a volere anche l’autentico bene del prossimo.

Ora, il peccato grave è detto mortale perché uccide la carità e, come chiarisce san Tommaso, “non può esserci in assoluto vera giustizia, vera castità [o qualunque altra vera virtù] se manca la dovuta ordinazione al fine che si ha mediante la carità, nonostante ci si rapporti rettamente alle altre cose”.

In altre parole, un uomo può provare compassione verso un povero anche mentre vive in peccato mortale, ma questa compassione non è la carità teologale, quella disposizione soprannaturale che coinvolge la volontà, non i sentimenti.

San Paolo, nel famoso inno alla carità, scrive infatti che, “se anche distribuissi tutti i miei beni ai poveri, ma non avessi carità, non ne trarrei alcun profitto”. Il principio è chiaro: la salvezza non avviene mediante le opere o la filantropia, ma mediante la grazia di Dio, donata nella fede e accresciuta dai sacramenti. La fede è condizione necessaria ma non sufficiente alla salvezza, la grazia è condizione necessaria, ma la grazia stessa non si può ricevere senza una fede ben formata. Le opere buone sono effetti e manifestazioni della vita di grazia, non fonti autonome di salvezza.

L’ostentazione delle opere buone costituisce un ulteriore elemento di neo-fariseismo. San Tommaso osserva che il merito delle opere è vanificato quando l’atto virtuoso è compiuto per ottenere gloria o riconoscimento umano. La pubblicità dell’opera seduce l’ego e distrae dal culto che deve essere reso a Dio anche nel sostegno del povero.

Ne deriva che la carità non coincide con la filantropia. Le opere compiute senza la grazia non sono meritevoli agli occhi di Dio. Citiamo ancora una volta il pensiero di San Tommaso, chiarissimo al riguardo:

“Il peccato mortale distrugge completamente la carità, sia sottoforma di causa sia sotto forma di demerito, perché chi, peccando mortalmente, fa qualcosa contro la carità, merita che Dio gliela tolga”; perciò, come conseguenza del peccato mortale, non solo viene rimossa la carità, che è la stessa grazia di Dio, ma “vengono eliminate al tempo stesso tutte le virtù infuse”, sebbene possa esistere “insieme con le virtù acquisite” naturali. “Le opere compiute senza la carità [cioé senza la grazia di Dio, N.d.R.] non sono meritorie presso Dio”.

Avviene ancora che le opere buone compiute mentre si è in grazia di Dio sono “rese morte [non meritevoli, N.d.R.] dal peccato susseguente” e “non hanno il potere di condurre alla vita eterna”. Ora succede che, dopo la debita penitenza, le opere commesse prima del peccato grave “recuperano la capacità di condurre alla vita eterna chi le compì”. Invece, le opere “genericamente buone” compiute quando non si è in grazia di Dio sono opere che non sono mai state vive, cioé meritorie, e quindi è impossibile che “ritornino vive con la penitenza”.

E tuttavia, è cosa buona e auspicabile che chi si trova in peccato mortale compia opere oggettivamente buone, perché “quante più opere buone uno compie, mentre è nel peccato, più si dispone alla grazia della contrizione”.

Tutta questa dottrina, che la Chiesa ha fatto propria negli infallibili pronunciamenti magisteriali di Pontefici e Concili, si fonda sulle parole della Scrittura, che dice: “Tutte le nostre opere giuste sono come un abito sporco” (Isaia 64, 6); e ancora: “Se un uomo si sarà allontanato dalla sua giustizia e avrà commesso delle iniquità, tutte le giustizie che egli adempì non saranno ricordate” (Ezechiele 18, 24); e ancora: “Per grazia siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. Non è in virtù di opere, perché nessuno possa vantarsene” (Efesini 2, 8-9); e ancora: “Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio” (Romani 8, 8); e ancora: “Senza la fede è impossibile piacere a Dio” (Ebrei 11, 6); e ancora: “Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Giacomo 2, 18).