Grazie ad Investigatore Biblico per queste analisi sulle nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.
16-9-25
In Galati 5 Paolo contrappone due vie, due mondi che non possono coesistere nello stesso cuore: da una parte le “opere della carne”, dall’altra il “frutto dello Spirito”. L’elenco che l’Apostolo presenta ha il carattere di una sorta di specchio, in cui ogni comunità cristiana, ma anche ogni singolo credente, può ritrovarsi e discernere se la propria vita è radicata nel dono dello Spirito o piuttosto trascinata dalle forze oscure della chiusura e dell’egoismo. È un testo che invita alla vigilanza, perché non si tratta di astratte categorie morali, ma di concrete realtà che lacerano la vita delle comunità e la pace degli uomini.
Nel versetto 21, così come riportato dalle edizioni CEI, leggiamo: “invidie, ubriachezze, orge e cose del genere”. Si tratta di una formula che sembra chiudere un catalogo già abbondante. Tuttavia, se confrontiamo questo testo con la Vulgata di san Girolamo, notiamo un’aggiunta importante: “invidiae, homicidia, ebrietates, comissationes et his similia”. Qui compare il termine “homicidia”, l’omicidio, assente nella traduzione liturgica italiana. Non è un dettaglio secondario, perché la Vulgata non si inventa nulla: si rifà a una tradizione testuale ben attestata.
Infatti i grandi codici greci – il Codex Alexandrinus (A), il Codex Ephraemi Rescriptus (C), il Codex Claromontanus (D), il Codex Augiensis (F), il Codex Boernerianus (G), e anche il minuscolo 𝛹 (Psi, noto come Codex Athous Lavrensis) – riportano la lezione completa con “φόνοι” (omicidi). Non si tratta dunque di una glossa tardiva, ma di una tradizione ampia e radicata, che la stessa Vulgata ha recepito.
A livello biblico-teologico, questa omissione rischia di attenuare la forza della denuncia paolina. Paolo non intende stilare un semplice elenco morale, ma descrivere con crudezza il volto della carne quando non è redenta: ed esso giunge fino alla soppressione della vita del fratello. Se togliamo “omicidi” dal catalogo, riduciamo la portata universale della sua ammonizione, quasi che i peccati sociali e strutturali non trovassero posto accanto a quelli individuali. Invece, nella prospettiva biblica, togliere la vita a un altro è il culmine della logica della carne, il frutto maturo dell’invidia e dell’odio.
I Padri della Chiesa hanno spesso sottolineato questa connessione. Sant’Agostino, commentando la lotta tra Caino e Abele, afferma che “l’invidia generò l’omicidio, e l’omicidio fu compiuto dal fratello contro il fratello” (De civitate Dei, XV,7). Qui appare chiaro come l’invidia, che Paolo menziona subito prima, porti naturalmente a quel passo ulteriore che è la soppressione violenta. Anche San Giovanni Crisostomo, nelle sue Omelie ai Galati, invita i fedeli a non leggere superficialmente queste liste, perché dietro le parole sta “un’ombra di morte che lacera la comunità”.
Il versetto avrebbe dunque dovuto essere riportato nella sua interezza anche nelle versioni moderne, non per un mero scrupolo filologico, ma per fedeltà al senso profondo del testo. Paolo avverte con forza che la vita secondo la carne non è un peccato privato o interiore soltanto, ma un cammino che, se non interrotto, porta fino alla distruzione della vita dell’altro. E il Vangelo non è estraneo a questo: basta pensare alle parole di Gesù nel discorso della montagna, quando equipara l’ira e l’insulto all’omicidio nel cuore (Mt 5,21-22).
Leggere “invidie, omicidi, ubriachezze, orge e cose del genere” significa allora restituire alla comunità cristiana la piena forza del monito paolino: custodire lo Spirito è custodire la vita, sempre e in ogni circostanza. Dove l’amore viene meno, la vita stessa è minacciata. La fedeltà al testo non è un esercizio erudito, ma una responsabilità teologica, perché la Parola resti lampada che illumina senza attenuazioni, e ammonisca con tutta la sua serietà il cammino dei credenti.
